Corte di Cassazione Civile sez. II 6/4/2009 n. 8250; Pres. Rovelli L.

Redazione 06/04/09
Scarica PDF Stampa
SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

1. – In riforma della sentenza in data 27 novembre 1989 del Tribunale di Patti, la Corte d’appello di Messina, con sentenza resa pubblica mediante deposito in cancelleria il 6 ottobre 1995, dispose, ai sensi dell’art. 2932 c.c., il trasferimento a B.G., B.C. e M.R., indivisamente in parti uguali, dell’immobile sito in (omissis) – promesso in vendita da C.G. con il preliminare del 28 giugno 1979 – identificato nella parte destra entrando dal passo carraio del piano seminterrato, comprensivo del passo carraio, costituito da più ambienti, confinante con un terrapieno, con la stessa Via (omissis), con case di eredi M. e con un restante fabbricato adibito a mulino; e subordinò l’effetto traslativo al pagamento, da parte degli acquirenti, del residuo prezzo di L. 33.000.000, autorizzando gli stessi a impiegare detta somma per la cancellazione delle formalità ipotecarie iscritte sull’immobile e per la eliminazione dei pignoramenti trascritti.

La Corte di cassazione, con sentenza in data 29 maggio 1999, respinse i ricorsi per cassazione proposti, avverso la suddetta sentenza, sia da parte della C., sia da parte dei B. e della M..

2. – Con atto notificato il 9 ottobre 1999, la C. intimava ai B. e alla M., ai sensi dell’art. 1454 c.c., diffida a provvedere a tutti gli adempimenti imposti a loro carico dalla citata sentenza, e ciò entro e non oltre quindici giorni, con l’espressa avvertenza che, in difetto, l’effetto traslativo derivante dalla pronuncia costitutiva avrebbe dovuto intendersi risoluto per loro fatto e colpa.

Indi, rimasta senza seguito la diffida, la C., con atto di citazione notificato il 27 novembre 1999, chiedeva di dichiarare risolti gli effetti contrattuali derivanti dalla sentenza della Corte d’appello di Messina, con la condanna dei B. e della M. alla restituzione dell’immobile nonchè al risarcimento dei danni derivanti dall’inadempimento e, in particolare, di quelli relativi all’incremento delle passività nei confronti della banca che aveva promosso la procedura esecutiva immobiliare e al possesso ingiustificato dell’immobile.

Costituitosi il contraddittorio, i convenuti esponevano che, con atto stragiudiziale notificato il 22 ottobre 1999, essi avevano rappresentato di avere in corso la verifica circa le iscrizioni ipotecarie e i pignoramenti trascritti e che avrebbero corrisposto ai creditori le somme occorrenti per la cancellazione delle formalità pregiudizievoli; deducevano che il trasferimento dell’immobile era subordinato al pagamento del prezzo residuo, una volta cancellati le ipoteche e i pignoramenti, e che i diritti erano divenuti azionabili solo a seguito della sentenza della Corte di cassazione; affermavano che il termine di quindici giorni, concesso con la diffida ad adempiere, era irrisorio, tenuto conto che doveva provvedersi alla liberazione dell’immobile dalle iscrizioni e dalle trascrizioni pregiudizievoli.

I convenuti chiedevano, pertanto, il rigetto della domanda e, in via riconvenzionale, la condanna dell’attrice al risarcimento del danno.

2.1. – Con sentenza pubblicata il 2 luglio 2001 il Tribunale di Patti dichiarava risolto il rapporto contrattuale costituito a seguito della sentenza della Corte d’appello di Messina, condannava i convenuti al rilascio dell’immobile, rigettava la domanda di risarcimento dei danni derivanti dall’incremento delle passività e rimetteva la causa in istruttoria per il prosieguo.

3. – La Corte di Messina, con sentenza resa pubblica mediante deposito in cancelleria il 23 luglio 2003, pronunciando sull’appello principale dei B. e della M. e sull’appello incidentale della C., in riforma della impugnata sentenza ha rigettato sia la domanda principale di inadempimento e di risarcimento dei danni per l’incremento delle passività sia la domanda riconvenzionale.

3.1. – La Corte d’appello – premesso che il mancato avveramento della condizione alla quale è subordinato l’effetto traslativo della sentenza ex art. 2932 c.c., può essere verificato e dichiarato solo dopo che si è formato il giudicato e, perciò, in separato giudizio contenzioso di accertamento della inefficacia della pronuncia condizionata – ha affermato che il dies a quo per il pagamento del prezzo decorreva dalla pubblicazione della sentenza della Corte di cassazione, la quale, nel rigettare i ricorsi principale ed incidentale, aveva confermato la sentenza della Corte territoriale.

Di conseguenza, ai fini della congruità del termine, non poteva tenersi conto del periodo decorrente dalla pronuncia della Corte d’appello del 6 ottobre 1995, dato che l’effetto costitutivo si era verificato solo dopo il passaggio in giudicato.

Secondo la Corte territoriale, il termine di quindici giorni, concesso con la diffida ad adempiere, non poteva considerarsi congruo. Nella specie, infatti, l’effetto traslativo era subordinato al pagamento da parte dei promissari acquirenti del residuo prezzo di L. 33.000.000, e costoro erano autorizzati ad impiegare detta somma per la cancellazione delle formalità ipotecarie iscritte e per la eliminazione dei pignoramenti trascritti. Quindi non si trattava tanto di corrispondere ai creditori della C. le somme di cui questa era debitrice, quanto di effettuare pagamenti da cui sarebbe disceso come effetto anche la cancellazione delle iscrizioni e delle trascrizioni, e ciò dipendeva dal comportamento dei terzi.

Nella specie – ha precisato la Corte d’appello – i promissari acquirenti si sono attivati: facendo eseguire le visure ipotecarie fino a tutto il (omissis); inviando in data (omissis) raccomandata ai creditori procedenti Banco di Sicilia e ******à Dizma affinchè comunicassero le somme necessarie per la cancellazione dei pignoramenti trascritti sul bene, ed ottenendo una risposta interlocutoria soltanto dal Banco di Sicilia in data (omissis); presentando in data (omissis) al giudice dell’esecuzione del Tribunale di Patti un’istanza, rimasta inevasa, per la determinazione dell’importo da versare nella procedura esecutiva ai fini della liberazione del bene dai pignoramenti trascritti.

La Corte d’appello ha escluso che i B. e la M. – i quali sapevano che al 1977 risultava un credito dell’istituto di credito procedente di L. 11.244.000, oltre interessi e spese, e della società Dizma di L. 1.548.501 – con una semplice operazione aritmetica potessero rendersi conto di quanto avrebbero dovuto versare: ciò sia perchè essi non avrebbero potuto predeterminare le spese di una procedura esecutiva durata oltre venti anni, sia perchè non era sufficiente il mero pagamento per eliminare la cancellazione delle trascrizioni, che poteva avvenire soltanto con il consenso dei creditori procedenti o in seguito ad un provvedimento del giudice dell’esecuzione, tanto più che quest’ultimo in data (omissis), e quindi anteriormente alla stessa diffida ad adempiere intimata dalla C., aveva ordinato la vendita dell’immobile de quo ai pubblici incanti per il (omissis).

Nessun inadempimento si è pertanto verificato – ha concluso la Corte territoriale – da parte dei B. e della M..

4. – Per la cassazione della sentenza della Corte d’appello S.S.A. e S.S.T., entrambi quali eredi legittimi di C.G., hanno proposto ricorso, con atto notificato il 21 settembre 2005, sulla base di due motivi.

Hanno resistito, con controricorso, B.G., B. C. e M.R..

Entrambe le parti, in prossimità dell’udienza, hanno depositato una memoria illustrativa.

MOTIVI DELLA DECISIONE

1. – Con il primo motivo (violazione e falsa applicazione dell’art. 337 c.p.c. e art. 2909 c.c., nonchè dei principi in materia di esecutività delle sentenze costitutive, e motivazione insufficiente e contraddittoria su di un punto decisivo della controversia), i ricorrenti censurano che la pronuncia impugnata non abbia riconosciuto l’idoneità della sentenza resa in sede di appello a produrre i suoi effetti: anche ad escludere quelli traslativi, avrebbero dovuto ritenersi attuali almeno gli obblighi di buona fede gravanti sugli acquirenti, i quali, anzichè rimanere inerti, avrebbero dovuto accertare gli importi spettanti ai creditori ed il residuo da versare alla parte venditrice.

1.1. – Il motivo – che muove dal presupposto che (nella disciplina degli artt. 282 e 337 c.p.c., anteriore alle modifiche ad essi apportate della L. 26 novembre 1990, n. 353, artt. 33 e 49) già con la sentenza di appello recante l’accoglimento della domanda di esecuzione specifica dell’obbligo di concludere il contratto sarebbe divenuta attuale l’obbligazione degli acquirenti di provvedere al pagamento, o comunque di adoperarsi per determinare la somma spettante ai creditori procedenti – è infondato.

E’ incontestato che, con la sentenza sostitutiva del contratto non concluso, la Corte di Messina condizionò l’effetto traslativo al pagamento, da parte degli acquirenti, del residuo prezzo di lire 33.000.000, autorizzando gli stessi a impiegare detta somma per la cancellazione delle formalità ipotecarie iscritte e per la eliminazione dei pignoramenti trascritti.

Secondo la costante giurisprudenza di questa Corte (Sez. 2^, 29 ottobre 1992, n. 11756; Sez. 1^, 4 luglio 2003, n. 10564; Sez. 1^, 19 maggio 2005, n. 10600; Sez. 2^, 16 gennaio 2006, n. 690), la sentenza costitutiva emessa in applicazione dell’art. 2932 c.c., produce gli effetti del contratto non concluso dal momento del passaggio in giudicato. Da tanto deriva che, nel caso della vendita, il trasferimento della proprietà del bene e l’obbligo correlativo dell’acquirente di versare il prezzo (o il suo residuo) ancora dovuto, che sia sancito con una pronuncia di subordinazione dell’efficacia traslativa al pagamento, non vengono ad esistenza prima della irretrattabilità del dictum giudiziale.

Nè può trovare applicazione il principio – affermato da Cass. Sez. 3^, 3 settembre 2007, n. 18512 – della immediata esecutività delle statuizioni di condanna consequenziali, dispositive dell’adempimento delle prestazioni a carico delle parti tra le quali la sentenza, ancora soggetta ad impugnazione, abbia determinato la conclusione del contratto a norma dell’art. 2932 c.c..

E’ infatti assorbente il rilievo che, nel caso di specie, la più volte ricordata sentenza della Corte di Messina non reca – diversamente dal caso che ha dato luogo all’appena citato arresto di questa Corte – alcun capo di accoglimento di domanda di condanna cumulata consequenzialmente rispetto alla domanda costitutiva, ma si limita a subordinare l’effetto reale al pagamento.

E siccome l’effetto traslativo della proprietà del bene si produce solo con l’irretrattabilità della sentenza, destinata a tenere luogo delle volontà reciproche delle parti che avrebbero dovuto essere espresse nel contratto definitivo, è da escludere che, prima del passaggio in giudicato della sentenza, sia configurabile un’efficacia anticipata dell’obbligo di pagare il prezzo (o il saldo prezzo), per il cui adempimento la Corte di merito ha stabilito, con la detta subordinazione, una contestualità logica e temporale rispetto al momento del trasferimento della proprietà.

Il fatto che il pagamento del prezzo sia imposto dal giudice sotto forma di condizione per il verificarsi dell’effetto traslativo, non toglie al detto pagamento la natura, ad esso propria, di prestazione corrispettiva, destinata ad attuare il sinallagma (Cass. Sez. 2^, 6 agosto 2001, n. 10827), ma tale prestazione diviene esigibile a partire dal passaggio in giudicato della sentenza costitutiva (Cass. Sez. 2^, 29 ottobre 1992, n. 11756, cit.).

2. – Il secondo mezzo denuncia violazione e falsa applicazione degli artt. 1454, 1375 e 1175 c.c., nonchè motivazione insufficiente e contraddittoria su un punto decisivo della controversia, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., nn. 3) e 5).

Con esso si censura che la Corte di merito abbia ritenuto che con la diffida ad adempiere notificata in data 9 ottobre 1999 non sarebbe stato concesso un termine sufficiente, data la complessità degli accertamenti da compiere, e che comunque i diffidati non sarebbero stati inadempienti.

Ad avviso dei ricorrenti, la sentenza impugnata non spiegherebbe perchè mai gli acquirenti – che nei cinque mesi successivi alla sentenza della Corte di cassazione del 29 maggio 1999 ed anteriori alla notifica della diffida ad adempiere non hanno assunto alcuna iniziativa – non potevano considerarsi inadempienti.

La Corte di merito ha affermato che i B. e la M. si sono attivati facendo eseguire le visure ipotecarie, ma non avrebbe precisato quando ciò è avvenuto. Inoltre non si sarebbe tenuto conto che la prima comunicazione ai creditori pignoratizi, con la quale è stata richiesta la determinazione della somma da corrispondere per potere ottenere l’assenso alla cancellazione delle trascrizioni, è del 17 dicembre 1999, e quindi successiva di sette mesi alla pubblicazione della sentenza della Corte di cassazione e di oltre due mesi alla stessa data di notifica della diffida ad adempiere. Infine, la sentenza impugnata non avrebbe considerato che gli intimati avrebbero potuto e dovuto fare tutto il possibile per evitare il rischio connesso alla, procedura esecutiva, versando la somma al cui pagamento erano tenuti nei confronti della C. a mani della stessa o, in qualità di terzi, presso la cancelleria del giudice dell’esecuzione.

2.1. – Il motivo è fondato, nei termini di seguito precisati.

Nel compiere l’indagine sulla adeguatezza del termine di quindici giorni concesso con la diffida ad adempiere, la Corte di merito ha preso implicitamente le mosse da un principio di diritto esatto, ossia dalla considerazione che la congruità del termine è posta dall’art. 1454 c.c. come regola generale, per cui quando, nel comma 2, si stabilisce che il termine non può essere inferiore a quindici giorni (salvo che, per le ipotesi ivi previste, risulti congruo un termine inferiore), ciò significa non già che il termine di quindici giorni debba ritenersi sempre, con una presunzione iuris et de iure, adeguato, ma, semplicemente, che la dimostrazione della necessità di una maggiore lunghezza del termine (e quindi della insufficienza di quello concesso) grava sull’intimato, il quale ben può dare la prova che il termine di quindici giorni è in concreto, in relazione alla natura della prestazione e alle circostanze del caso, troppo ristretto per consentirgli di eseguire la prestazione (Cass. Sez. 2^, 30 ottobre 1980, n. 5842).

Se nonchè, nel valutare come inadeguato il termine di quindici giorni, la Corte d’appello non ha tenuto conto del fatto che la diffida ad adempiere è stata notificata il 9 ottobre 1999, oltre quattro mesi dopo il passaggio in giudicato (avvenuto il 29 maggio 1999) della sentenza che dispose il trasferimento dell’immobile ai B. e alla M..

E poichè nell’ipotesi in cui la sentenza emessa ai sensi dell’art. 2932 c.c., imponga all’acquirente di versare il prezzo della compravendita con una pronuncia di subordinazione dell’efficacia traslativa al pagamento, l’obbligo dell’acquirente diviene attuale al momento del passaggio in giudicato della sentenza costitutiva, non essendo a tal fine necessario che il creditore chieda al giudice la fissazione, ex art. 1183 c.c., del termine per l’adempimento oppure costituisca in mora il debitore (Cass. Sez. 2^, 16 gennaio 2006, n. 690, cit.), la Corte d’appello avrebbe dovuto, nello scrutinio in ordine alla congruità del termine di quindici giorni, valutare che nel lasso di tempo anteriore alla notificazione della diffida i debitori – acquirenti del bene sub condicione – avevano la possibilità di preparare almeno in parte l’adempimento, compiendo nei registri immobiliari le indispensabili visure per effettuare, una volta ricevuta l’intimazione, il pagamento necessario al fine di liberare il bene dai pignoramenti trascritti.

Difatti, poichè il giudizio sulla congruità del termine di quindici giorni concesso con la diffida ad adempiere non può essere unilaterale ed avere ad oggetto esclusivamente la situazione del debitore, ma deve prendere in considerazione anche l’interesse del creditore all’adempimento ed il sacrificio che questi sopporta per l’attesa della prestazione, la valutazione di adeguatezza di quel termine compiuta dal giudice deve essere commisurata, tutte le volte in cui l’obbligazione del debitore sia divenuta attuale già prima della diffida, non rispetto all’intera preparazione dell’adempimento, ma soltanto rispetto al completamento di quella preparazione che si presume in gran parte compiuta, non potendo il debitore rimasto completamente inerte sino al momento della diffida pretendere che questa gli lasci tutto il tempo necessario per iniziare e completare la preparazione della prestazione.

Ancora, nell’escludere tanto l’adeguatezza del termine quanto (la gravità dell’inadempimento, la Corte di Messina, per un verso, ha fatto leva sulla considerazione che – essendo stati gli acquirenti autorizzati ad impiegare la somma di L. 33.000.000, per la eliminazione dei pignoramenti trascritti, la quale "non dipendeva tanto dai B.- M., quanto da terzi" – non era sufficiente il mero pagamento per eliminare la cancellazione delle trascrizioni pregiudizievoli, "che poteva venire col consenso delle parti o in seguito ad un provvedimento del giudice"; per l’altro, ha sottolineato che gli acquirenti – con le visure, con le raccomandate inviate ai creditori procedenti in data 17 dicembre 1999 e con l’istanza presentata il 5 aprile 2000 al giudice perchè quantificasse l’importo da versare nella procedura esecutiva (nella quale era già stata fissata la vendita ai pubblici incanti per il (omissis)) – si erano attivati per effettuare un pagamento liberatorio.

Ma, cosi statuendo, la Corte d’appello non ha tenuto conto che i B. ed i M. avevano un mezzo tecnico per eseguire, tempestivamente, il pagamento liberatorio: esercitando nel procedimento esecutivo – in qualsiasi momento anteriore alla vendita (nella disciplina ratione temporis applicabile) – e con il versamento, unitamente all’istanza, di una somma pari al quinto dell’importo dei crediti del creditore procedente e dei creditori intervenuti, il potere di ottenere, con la conversione del pignoramento, la sostituzione della somma di danaro (nell’ammontare stabilito dal giudice dell’esecuzione) al bene originariamente staggito, con effetto dalla data della conversione.

Viceversa, la Corte territoriale ha dato rilievo al fatto che i B. e la M. avevano presentato (il 5 aprile 2000, quindi alcuni mesi dopo la scadenza del termine concesso con la diffida) una domanda per la determinazione dell’importo da pagare nella procedura esecutiva, senza neppure considerare che essa, in assenza del versamento del quinto, non poteva valere come istanza di conversione.

Conclusivamente, va affermato che il terzo resosi acquirente, in forza di pronuncia resa ai sensi dell’art. 2932 c.c. e sub condicione del pagamento del residuo prezzo, di un bene immobile sottoposto ad espropriazione immobiliare, il quale sia stato autorizzato, dalla stessa sentenza costitutiva, ad impiegare detta somma per la cancellazione dei pignoramenti trascritti, è legittimato, a tutela del proprio interesse, a chiedere ed ottenere la conversione del pignoramento a norma dell’art. 495 c.p.c..

In questo senso, il Collegio ritiene di dover dare continuità e sviluppo al principio già sancito da questa Corte con la sentenza della 3^ Sezione 12 luglio 1979, n. 4059.

Detta sentenza, nel riconoscere la legittimazione all’istanza di conversione al terzo, un bene del quale sia stato assoggettato a pignoramento per il soddisfacimento di un debito altrui, ha affermato che l’art. 495 c.p.c., là dove parla soltanto di "debitore", attribuendo a questo il potere di "chiedere di sostituire alle cose pignorate una somma di danaro pari all’importo delle spese e dei crediti del creditore pignorante e dei creditori intervenuti", ha riguardo all’ipotesi normale, ma non esclude che possano esservi terzi, parimenti legittimati, in quanto aventi un interesse ad una pronta liberazione del bene dal vincolo imposto dal pignoramento; e – in linea con l’impostazione seguita da una parte della dottrina – ha superato l’indirizzo restrittivo precedentemente seguito da Cass. Sez. 3^, 25 maggio 1971, n. 1524, e da Cass. Sez. 3^, 6 giugno 1975, n. 2253. 3. – Per effetto dell’accoglimento del secondo motivo la sentenza impugnata è cassata.

Il giudice del rinvio – che si designa nella Corte d’appello di Messina, in diversa composizione – deciderà la causa facendo applicazione dei principi di diritto esposti retro, sub 2.1., e provvederà anche sulle spese del giudizio di cassazione.

P.Q.M.

La Corte:

Rigetta il primo motivo del ricorso ed accoglie il secondo motivo;

cassa la sentenza impugnata in relazione alla censura accolta e rinvia la causa, anche per le spese, alla Corte d’appello di Messina, in diversa composizione.

Redazione