Corte di Cassazione Civile sez. I 16/3/2007 n. 6302

Redazione 16/03/07
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Svolgimento del processo
1. – Con atto di citazione notificato il 6 settembre 1989, A. P., nato il (omissis), propose azione di disconoscimento della paternità del proprio padre legittimo A.L., deceduto il (omissis), convenendo in giudizio dinanzi al Tribunale di Cagliari, essendo deceduta anche la propria madre R.G., i suoi fratelli legittimi M., A., B. ed AN.Al..

Espose di essere nato da una relazione adulterina della madre con tale PU.Gi. e di avere appreso tale circostanza durante le festività natalizie del 1988 dalla sorella A.M., alla quale il fatto era stato rivelato dalla madre poco prima della morte della stessa, avvenuta nel 1987.

Si costituirono i fratelli M., A. ed A. A., aderendo alla domanda e confermando la fondatezza delle allegazioni dell’attore. In particolare A.M. dichiarò nella comparsa di risposta di sentire il dovere di confermare che la propria madre le aveva rivelato "con assoluta sicurezza" pochi giorni prima di morire che il figlio P. era nato dalla relazione intrattenuta, durante il periodo in cui era separata di fatto dal marito A.L., con PU.Gi., e di avere avuto "il coraggio" di mettere a parte della rivelazione il fratello P. solo in occasione delle festività natalizie del 1988, quando si erano riuniti tutti i fratelli per commemorare la madre nel primo anniversario della scomparsa.

Rimasto contumace l’altro fratello B. ed intervenuto il pubblico ministero, la causa fu istruita mediante prova per testi e produzione di documenti.

Con sentenza n. 281 depositata il 24 febbraio 1992, il Tribunale di Cagliari accolse la domanda, dichiarando che l’attore non era figlio di A.L.. Egli assunse quindi il cognome della madre R.G..

2. – Contro la sentenza, nel frattempo passata in giudicato, propose azione di revocazione, ai sensi dell’art. 397 c.p.c., n. 2), il pubblico ministero presso il Tribunale di Cagliari, deducendo che la sentenza era l’effetto dell’accordo fraudolento tra l’attore e i convenuti costituiti ( M., A. ed AN.Al.), ed in particolare delle loro false dichiarazioni in ordine al tempo in cui il primo era venuto a conoscenza del fatto di non essere figlio del padre legittimo A.L..

Secondo il pubblico ministero, tali dichiarazioni furono concordate per vanificare il termine di decadenza di un anno, previsto dall’art. 244 c.c., ai fini della proposizione dell’azione di disconoscimento.

I convenuti costituiti, infatti, non soltanto avevano aderito alla domanda, ma avevano anche affermato che corrispondeva a verità l’allegazione dell’attore, secondo cui egli aveva appresso solo in occasione delle festività natalizie del 1988, e quindi meno di un anno prima della proposizione dell’azione, di non essere figlio di A.L.. I testi, poi, avevano fornito una conferma indiretta del fatto che l’attore era stato tenuto all’oscuro per lungo tempo delle circostanze relative al suo concepimento.

Soggiunse il pubblico ministero che PU.An. e PU.Ma.

R., figlie legittime dell’uomo, PU.Gi., indicato da R.P. (già A.P.) come suo padre naturale, convenute in giudizio successivamente dallo stesso R.P. con azione di accertamento giudiziale della paternità naturale, avevano presentato un esposto nel quale avevano denunciato la falsità delle circostanze dedotte concordemente dalle parti del precedente procedimento di disconoscimento, fornendo elementi documentali dai quali poteva desumersi che l’ A. aveva riferito di essere a conoscenza della genitura naturale del PU. già nel 1979, quando era stato interrogato dalla polizia giudiziaria nell’ambito di un procedimento penale nel quale aveva deposto nel medesimo senso anche la madre R.G..

Il pubblico ministero chiese, quindi, che venisse pronunciata la revocazione della sentenza di disconoscimento, in quanto frutto dell’accordo collusivo delle parti in materia sottratta alla loro disponibilità, e che, nel merito, la domanda di disconoscimento fosse dichiarata inammissibile per tardività.

Si costituì in giudizio R.P., chiedendo il rigetto della domanda di revocazione.

2.1. – Con separata citazione, notificata il 25 febbraio 1993, PU.An. e PU.Ma.Ri. proposero nei confronti del R. opposizione di terzo ai sensi dell’art. 404 c.p.c., chiamando in giudizio anche i fratelli dello stesso e ponendo a base dell’azione i medesimi elementi dedotti dal pubblico ministero nell’azione di revocazione.

2.2, – Riunite le cause, con sentenza in data 9 ottobre 2001 il Tribunale di Cagliari rigettò la domanda di revocazione proposta dal pubblico ministero; dichiarò inammissibile l’opposizione di terzo delle sorelle Pu.; rigettò la domanda del R. di condanna delle Pu. ai sensi dell’art. 96 c.p.c..

3, – Contro l’indicata sentenza proposero separati appelli il pubblico ministero presso il Tribunale di Cagliari nonchè Pu.

A. e PU.Ma.Ri..

Si costituì R.P., chiedendo il rigetto dei gravami;

mentre rimasero contumaci i fratelli A..

Riunite le impugnazioni, la Corte d’appello di Cagliari, con sentenza n. 442 depositata il 30 dicembre 2005, accolse l’appello del pubblico ministero e rigettò quello proposto dalle PU., dichiarando interamente compensate tra le parti le spese del doppio grado; e, in parziale riforma della sentenza impugnata, pronunciò la revocazione della sentenza n. 281 del 24 febbraio 1992 del Tribunale di Cagliari, in quanto effetto della collusione posta in opera dalle parti per frodare la legge, e dichiarò inammissibile la domanda di disconoscimento della paternità, in quanto proposta tardivamente, in relazione all’art. 244 c.c., comma 3. 3.1. – La Corte territoriale rilevava che A.P. già in epoca anteriore all’ottobre 1979 conosceva perfettamente il suo rapporto di filiazione naturale con il Pu.Pi. A., infatti, assunto a sommarie informazioni testimoniali dalla polizia giudiziaria in data 10 ottobre 1979, riferì al maresciallo dei Carabinieri C.G. di avere appreso dalla madre, quando aveva diciassette anni, in occasione del rientro dal collegio di (omissis) dove si trovava dall’età di tredici anni, di essere figlio di Pu.Gi., il quale a sua volta glielo aveva confermato. Anche la madre R.G. ribadì in data 19 ottobre 1979 allo stesso maresciallo la sua relazione con il Pu. e il concepimento con lo stesso del figlio P., precisando che la circostanza era stata rivelata al figlio dal Pu. medesimo.

Nella stessa sede di accertamenti di polizia giudiziaria, il 22 ottobre 1979 L.S., segretario dell’avv. Hurroni ******, del quale il Pu. era cliente, dichiarò che A.P. gli aveva detto di essere figlio del Pu..

Secondo la Corte territoriale, da ciò discendeva che quanto dichiarato dai fratelli A. nel processo per il disconoscimento di paternità non corrispondeva alla realtà dei fatti e fu evidentemente finalizzato a fornire gli elementi necessari per fare apparire tempestiva una domanda che non lo era affatto, considerato che l’azione fu proposta nel 1989, a distanza di circa dieci anni dalle citate dichiarazioni del 1979, le quali peraltro presupponevano una conoscenza naturalmente antecedente.

La Corte d’appello escludeva che la documentazione posta a base dell’azione di revocazione fosse già stata depositata nel giudizio di disconoscimento. Le predette dichiarazioni furono prodotte soltanto in sede di ricorso ex art. 274 c.c., per l’ammissibilità dell’azione di dichiarazione giudiziale di paternità.

La Corte territoriale non condivideva la conclusione cui era giunto il Tribunale, che aveva rigettato la domanda di revocazione del pubblico ministero per mancanza del necessario nesso di causalità tra collusione e sentenza (essendo questa piuttosto il frutto dell’autonomo errore del giudice, il quale aveva risolto il problema della tempestività dell’azione di disconoscimento o facendo leva sul principio della non contestazione, che invece è istituto riservato a materie disponibili, o facendo cattivo uso delle regole sull’onere della prova), e rilevando che la sentenza di disconoscimento poteva essere appellata dallo stesso pubblico ministero per ragioni perfettamente conoscibili sin da allora (poichè avrebbe dovuto rilevare che l’iter logico giuridico della sentenza era viziato, essendo stato utilizzato erroneamente il principio di non contestazione od essendosi ritenuto dimostrato il rispetto del termine di decadenza pur in una situazione di carenza di prova).

A tale proposito, la Corte di Cagliari osservava che in realtà fu proprio la collusione della parti, completata dalla deposizione dei testimoni C. (i quali avevano apportato alla causa il conforto indiretto e la ragionevole spiegazione della tardiva scoperta), a svolgere un ruolo decisivo nella vicenda causale della determinazione del giudice, che implicitamente considerò tempestiva l’azione di disconoscimento, in quanto proposta entro un anno dalla riferita conoscenza delle circostanze del concepimento; e che la mancata esplicazione della questione nella parte in diritto della sentenza dipese dal fatto che appariva assolutamente certo che nessun problema potesse sorgere in ordine al profilo preliminare della tempestività dell’azione, avendo il Tribunale dato conto nella parte espositiva sia della deduzione dell’attore di avere appreso dalla sorella M. soltanto durante le festività natalizie del 1988 di non essere figlio di A.L., sia della adesione alla domanda dei convenuti costituiti a motivo della assoluta veridicità della circostanza riferita. Ed osservava, ancora, come erroneo fosse il rilievo del primo giudice sul potere del pubblico ministero di appellare la sentenza di disconoscimento, perchè, con riguardo all’azione di disconoscimento di paternità, tra i soggetti legittimati a proporre l’azione non è incluso il pubblico ministero, che deve, si, intervenire a pena di nullità rilevabile d’ufficio nel giudizio, ma che è privo del potere di impugnazione.

Quanto alla posizione delle sorelle Pu., la Corte territoriale, nel confermare l’inammissibilità della loro opposizione di terzo esperita ai sensi dell’art. 404 c.p.c., e nel farne derivare anche l’inammissibilità dell’intervento dalle stesse spiegato in appello nel giudizio di impugnazione promosso dal pubblico ministero, escludeva che le stesse fossero titolari di un diritto incompatibile con il diritto riconosciuto all’ A. con la sentenza di disconoscimento. Premesso che nel giudizio di disconoscimento di paternità i figli della persona (ora defunta) dalla quale l’attore dichiara di essere stato naturalmente generato non hanno veste per spiegare un intervento adesivo dipendente, non essendo titolari di alcun interesse giuridicamente rilevante, la Corte d’appello riteneva che difettassero i presupposti per l’esercizio dell’opposizione di terzo, non sussistendo la situazione di incompatibilità tra la posizione fatta valere e l’accertamento compiuto con la sentenza di disconoscimento della paternità, dato che nessun pregiudizio giuridicamente rilevante poteva derivare alle Pu. dal disconoscimento, ma solo, eventualmente, dalla domanda del R. di dichiarazione giudiziale della paternità naturale che fosse ritenuta ammissibile ed accolta nei loro confronti.

La Corte di Cagliari, peraltro, escludeva la ravvisabilità degli estremi della responsabilità aggravata, di cui all’art. 96 c.p.c., in capo alle Pu., non sussistendo nel loro comportamento processuale nè colpa grave, nè mala fede, ma solo una volontà, sia pure ingiustificatamente reiterata, di partecipare al giudizio in qualche modo da loro provocato con la denuncia al pubblico ministero.

4. – Per la cassazione della sentenza della Corte d’appello ha interposto ricorso il R., con atto notificato il 24 marzo 2006, sulla base di tre motivi.

Hanno resistito, con controricorso, le Pu., le quali hanno proposto a loro volta ricorso incidentale, affidato a due motivi.

In prossimità dell’udienza, entrambe le parti hanno depositato memorie illustrative.

Motivi della decisione
1.1. – Con il primo motivo del ricorso principale, il R. – denunciando violazione dell’art. 397 c.p.c., n. 2), (in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 3) nonchè omessa, contraddittoria e insufficiente motivazione in merito all’esistenza di una collusione tra le parti nel giudizio di disconoscimento (art. 360 c.p.c., n. 5) – chiede a questa Corte di affermare: (a) che nell’ipotesi prevista dall’art. 397 c.p.c., n. 2), l’impugnazione per revocazione da parte del pubblico ministero è proponibile soltanto se gli elementi dai quali è desumibile la collusione posta in essere dalle parti per frodare la legge non siano stati già esaminati nel giudizio conclusosi con la sentenza revocanda o, comunque, soltanto nell’ipotesi in cui il pubblico ministero, partecipando al detto giudizio, abbia concluso in senso difforme, giacchè una diversa interpretazione implicherebbe l’attribuzione al pubblico ministero di un potere di impugnazione, oltre tutto svincolato da ogni limite temporale, in contrasto con il principio della certezza del diritto;

e (b) che, attesa la sua straordinarietà, l’impugnazione prevista dall’art. 397 c.p.c., n. 2), è proponibile soltanto se la collusione posta in essere dalle parti sia volta a frodare le norme di diritto sostanziale che, in considerazione dell’interesse generale perseguito, impongono la partecipazione al giudizio del pubblico ministero, e non anche le norme processuali (come si desume, a contrario, dalla previsione dell’art. 397 c.p.c., n. 1, che fa riferimento alla sola ipotesi che il pubblico ministero non sia stato sentito).

Ad avviso del ricorrente, la Corte d’appello sarebbe caduta in un errore interpretativo, "avendo giudicato come mezzo a fine della collusione l’intera condotta processuale dell’interessato", "mentre l’unica cosa che andava verificata era la effettiva collusione posta – o meno – in essere dalle parti, e cioè i fatti processuali concretamente da esse collusivamente compiuti per frodare la legge".

Sarebbe fuori di dubbio che, anche secondo la sentenza impugnata, "la partecipazione all’azione – che si assume fraudolenta – dell’ A. – R. da parte dei fratelli dello stesso che ebbero a costituirsi nel giudizio di disconoscimento sia unicamente consistita nell’essersi, appunto, essi costituiti in giudizio aderendo alla domanda attrice … ed esponendo nella sola parte narrativa che effettivamente la Signora R.G., deceduta a (omissis) mentre soggiornava presso essa A.M.. pochissimi giorni prima di morire … aveva confidato con assoluta sicurezza come A.P. fosse stato concepito durante una separazione di fatto dal marito A.L. e a seguito di una relazione con il Sig. Pu.Gi.".

Nel loro atto di costituzione, del resto, i fratelli A. riferivano di non essere rimasti sorpresi da tale rivelazione, "poichè varie chiacchiere erano sempre state sentite in giro su tale storia, anche alimentate dal fatto che c’era stata una convivenza di un paio d’anni tra la Signora R., il Pu. e l’attore quando questi a circa 17/18 anni uscì dal collegio: furono proprio queste voci a indurre il A.P. – allora incredulo e imbarazzato – a insistere con la madre per andare a vivere, sempre con lei, in continente, lasciando la casa del *********.".

Ora, ad avviso del ricorrente, sulla confidenza in punto di morte di mamma R. non potrebbe dubitarsi, perchè la stessa donna aveva cercato di tenere in precedenza celata la verità al figlio, come riferito dalla stessa ai Carabinieri.

Inoltre, la mancata sorpresa dei fratelli A. circa il "segreto" rivelato dalla madre sarebbe una circostanza di segno assolutamente contrario agli interessi dell’ A., "al punto da poter far scattare, in un pubblico ministero vigile, prima, ed in un Tribunale attento, poi, il sospetto della decadenza".

"Se ci fosse stata collusione, era questa l’ultima cosa che sarebbe stato conveniente dire e l’averla detta esclude del tutto -quindi – l’ipotesi della collusione".

Del resto, la confidenza alla figlia M. da parte della Signora R. non è stata neppure citata nella motivazione della sentenza di disconoscimento, la quale fa leva soltanto sulle deposizioni innanzi ai Carabinieri di certo Ag.Lu., sull’esame dell’atto di nascita di A.P. e sulla deposizione dei testi C.A. e C.A..

La Corte territoriale sembra credere in una certa "compiacenza" dei testi C.A. e C.A.: ma il ricorrente si chiede perchè il pubblico ministero, che pure aveva seguito "passo per passo" il processo di disconoscimento, dopo avere promosso la revocazione della relativa sentenza non denunciò tali testi per falsa testimonianza.

Anche la dichiarazione ai Carabinieri di R.G. non sarebbe stata letta correttamente, perchè la donna – a precisa domanda – escluse di avere mai confessato al figlio Pi. che egli era nato da una relazione con il Pu., limitandosi a riferire che era stato lo stesso Pu. a dirglielo quando era rientrato dal collegio.

Sostiene, infine, il ricorrente che il pubblico ministero avrebbe potuto chiedere la revocazione soltanto se il R. avesse colluso con i fratelli per far affermare dai giudici un disconoscimento non veritiero, non già un disconoscimento tardivo.

1.2. – Con il secondo mezzo (falsa applicazione dell’art. 72 c.p.c., comma 3, in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 3), il R. censura che la Corte territoriale non abbia ritenuto che il potere di impugnazione conferito al pubblico ministero dall’art. 72 c.p.c., comma 3, riguardi tutte le cause attinenti alla materia discendente dal matrimonio, comprese quelle relative alla filiazione legittima.

Il pubblico ministero avrebbe potuto proporre appello contro la sentenza del Tribunale di Cagliari che accolse l’azione di disconoscimento, giacchè, per ragioni perfettamente conoscibili sin da allora, avrebbe potuto rilevare che l’iter logico – giuridico della sentenza di disconoscimento era viziato, essendo stato utilizzato erroneamente il principio della non contestazione ed essendosi ritenuto dimostrato il rispetto del termine di decadenza pur in una situazione di carenza di prova.

Di qui l’inammissibilità, sotto altro profilo, del rimedio straordinario della revocazione da parte del pubblico ministero.

1.3. – Il terzo motivo del ricorso principale denuncia violazione e falsa applicazione degli artt. 91, 92 e 96 c.p.c.. Con esso si pongono i seguenti quesiti: (a) "se l’esplicitazione, anche sommaria, dei motivi che abbiano indotto alla compensazione delle spese di lite consenta il sindacato di legittimità della Corte di cassazione su detta statuizione"; (b) "se possa essere accordata la compensazione delle spese di lite e la negazione del risarcimento ex art. 96 c.p.c., in presenza di una reiterata, ingiustificata pretesa da parte dei terzi di partecipare ad una azione di revocazione da parte del pubblico ministero al solo fine di dissimulare medio tempre il proprio patrimonio, così sottraendolo alle aspettative della controparte".

Contraddittoriamente la Corte di Cagliari avrebbe riconosciuto la sussistenza dei giusti motivi per compensare le spese di lite, pur dopo avere stigmatizzato nelle sorelle Pu. una volontà ingiustificatamente reiterata di partecipare al giudizio in qualche modo da loro provocato con la denuncia al pubblico ministero, prima con la proposizione di un’opposizione di terzo ex art. 404 c.p.c., poi con l’impugnazione della sentenza di primo grado.

Queste stesse argomentazioni varrebbero "per confutare il sommario ragionamento della Corte d’appello nel rigettare la richiesta di condanna delle Pu. ex art. 96 c.p.c.".

La compensazione delle spese di lite ed il rigetto della domanda di condanna per responsabilità aggravata rappresenterebbero "non solo due gravi errori della Corte di Cagliari ma anche una pesante beffa ai danni del ricorrente e della giustizia". 1.4. – In via subordinata, il ricorrente principale propone in relazione agli artt. 3, 24 e 30 Cost., questione di legittimità costituzionale dell’art. 244 c.c., comma 3, nella parte in cui limita la proponibilità dell’azione di disconoscimento della paternità da parte del figlio al decorso di un anno dal momento in cui il medesimo è venuto a conoscenza dei fatti che rendono ammissibile il disconoscimento, evocando a tertium comparationis l’art. 270 c.c., là dove prevede che l’azione per ottenere che sia dichiarata giudizialmente la paternità naturale è imprescrittibile riguardo al figlio.

Ad avviso del ricorrente, il breve termine previsto dall’art. 244 c.c., comma 3, renderebbe estremamente difficile al figlio nato in costanza di matrimonio l’esercizio del diritto all’identità personale. Inoltre, la genericità della previsione ("conoscenza dei fatti che rendono ammissibile il disconoscimento") subordinerebbe l’esercizio di tale diritto fondamentale della persona a una valutazione di estrema difficoltà, essendo un dato di comune esperienza che le notizie in ordine alla paternità naturale in contrasto con quella legittima sono frutto della progressiva, e a volte contraddittoria, acquisizione di dati di conoscenza, con conseguente incertezza dell’interessato in ordine all’inizio di un giudizio che attiene ad un diritto fondamentale della persona. In definitiva, la norma denunciata continuerebbe ad ispirarsi, irragionevolmente, alla impostazione tradizionale che attribuiva preminenza al favor legitimitatis.

2.1. – Con il primo motivo di ricorso incidentale (violazione e falsa applicazione dell’art. 105 c.p.c., comma 2, artt. 331, 332 e 112 c.p.c., e dell’art. 2909 c.c, in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 3 e n. 4), An. e ********* censurano che la Corte di merito abbia dichiarato l’inammissibilità dell’intervento adesivo da esse esercitato nell’ambito del giudizio per revocazione promosso dal pubblico ministero.

La sentenza impugnata omette di evidenziare che le sorelle Pu. avevano spiegato formale intervento adesivo nell’ambito del giudizio di appello promosso dal pubblico ministero ben prima che fosse disposta la riunione a quel processo dell’altro successivamente proposto dalle stesse Pu., La loro comparsa di intervento, depositata il 7 febbraio 2003, prescindeva dalla separata ed autonoma citazione per appello del 20 gennaio 2003 avverso quel capo della sentenza di primo grado che aveva dichiarato l’inammissibilità dell’opposizione di terzo. E si compendiava in argomenti a sostegno della domanda di revocazione del pubblico ministero, il cui buon fondamento era stato già condiviso dalle stesse sorelle Pu. nel corso dell’unitario giudizio di primo grado. Le finali conclusioni, riprodotte nell’epigrafe della sentenza di primo grado, rivelerebbero che le Pu. avevano invocato dal Tribunale adito "la revocazione della sentenza di conoscimento della paternità legittima in accoglimento della loro domanda di opposizione di terzo, ma anche di quella formulata dal pubblico ministero ai sensi dell’art. 397 c.p.c., n. 2.".

L’intervento venne rinnovato in appello con la citata comparsa del 7 febbraio 2003. Con essa le Pu. dichiaravano di volere prevenire l’ordine del giudice ex artt. 331 e 332 c.p.c., soggiungendo di condividere gli articolati motivi di censura del pubblico ministero e di associarsi alla conseguente istanza di revocazione e di riforma.

Ad avviso delle ricorrenti, sarebbe erronea la statuizione di inammissibilità, contenuta nella sentenza della Corte territoriale, del loro intervento ad adiuvandum delle postulazioni del pubblico ministero. Difatti, sulla legittimità dell’intervento si era formato il giudicato in seguito alla mancata impugnazione sul punto della sentenza del Tribunale, sicchè le Pu. avevano fatto il loro legittimo ingresso nel giudizio di appello in attuazione della pacifica esigenza della partecipazione in quella sede di tutti i contraddittori che erano stati presenti nel giudizio di prime cure.

Alla violazione della regola sul giudicato in punto di inammissibilità dell’intervento si aggiungerebbe la palese extrapetizione, avendo la Corte di Cagliari dichiarato inammissibile l’intervento ad adiuvandum pur in totale mancanza della richiesta della parte interessata.

2.2. – Con il secondo mezzo (violazione e falsa applicazione degli art. 100 c.p.c., e art. 105 c.p.c., comma 2, in relazione all’art. 360 c.p.c., nn. 3 e 4), le ricorrenti incidentali ritengono che erroneamente la Corte di merito abbia fatto applicazione della sentenza della Corte di cassazione 23 ottobre 1980, n. 5704. Nel caso di specie, infatti, dopo il conseguimento della dichiarazione giudiziale negativa della sua filiazione legittima, il R. aveva promosso azione giudiziale di riconoscimento della propria filiazione naturale, convenendo in giudizio proprie le sorelle Pu., figlie legittime dell’uomo, Pu.Gi., da lui indicate come suo padre naturale.

Ne deriva, ad avviso delle ricorrenti in via incidentale, che l’intervento delle germane Pu. non si inserisce nel giudizio che ha per oggetto la negazione della paternità legittima, ma è volto a sostenere le ragioni del pubblico ministero che allega la conclamata frode e postula perciò la rimozione del giudicato di accertamento negativo della filiazione legittima del R.. L’essere le Pu. destinatarie dell’accertamento positivo della paternità naturale, reclamato dal R. nel diverso giudizio ancora in corso, collocherebbe la loro posizione giuridica in un ambito di connessione e di dipendenza rispetto alla pronuncia di revocazione invocata dal pubblico ministero: la rimozione della sentenza ottenuta con frode sarebbe mezzo sufficiente ed idoneo ad eliminare per ciò solo in radice la legittimazione del R. a vedere giudizialmente riconosciuta la genitura naturale del Pu..

3. – Il ricorso principale ed il ricorso incidentale devono essere riuniti ai sensi dell’art. 335 c.p.c., essendo entrambe le impugnazioni relative alla stessa sentenza.

4. – Il primo motivo del ricorso principale è, in parte, infondato e, in parte, inammissibile.

4.1 – L’art, 397 c.p.c., n. 2, configura un mezzo di impugnazione straordinario, radicato nella particolare natura dell’oggetto tutelato e della peculiare posizione che l’ordinamento riconosce al pubblico ministero. La dove si verifica la lesione di interessi indisponibili delle parti – interessi particolarmente degni di tutela, tanto che nelle cause relative deve intervenire il pubblico ministero – per avere le parti stesse utilizzato il mezzo formalmente legittimo del processo per il conseguimento di un risultato vietato dalla legge, l’accordo fraudolento tra attore e convenuto può essere rimosso a seguito dell’esperimento della revocazione straordinaria di cui all’art. 397 c.p.c., n. 2. La lesione dell’interesse pubblico che si verifica con la pronuncia giudiziale, riguardante diritti indisponibili, sul cui esito ha influito l’accordo collusivo, giustifica l’attribuzione in capo al pubblico ministero – che per ragioni del suo ufficio tutela il detto pubblico interesse – del potere di impugnare la sentenza per revocazione.

Contrariamente a quanto deduce il ricorrente in via principale, il pubblico ministero è legittimato ad esperire il rimedio della revocazione di cui all’art. 397 c.p.c., n. 2), indipendentemente da quali siano state le sue conclusioni nel giudizio, nel quale è intervenuto, definito con la sentenza revocanda, e quindi anche quando, come nella specie, abbia assunto una posizione processuale favorevole alle conclusioni delle parti, accolte nella medesima sentenza, perchè, essendo questa il risultato della sottostante volontà delle parti di realizzare uno scopo non consentito dalla legge attraverso l’artificiosa rappresentazione di una situazione diversa da quella reale, anche il pubblico ministero è da ritenersi vittima della collusione, al pari del giudice contro il quale la frode è in via principale rivolta.

Nè merita condivisione l’assunto secondo cui la frode sanzionata dalla revocazione non potrebbe comprendere la collusione intesa ad aggirare i termini per la proposizione dell’azione di disconoscimento della paternità, trattandosi – sostiene il ricorrente – di norma di carattere processuale.

Invero, i termini di decadenza per l’esercizio dell’azione da parte di ciascun legittimato (art. 244 c.c.) – termini che differiscono in relazione non solo alla durata, ma anche al momento iniziale della relativa decorrenza – concorrono, unitamente ai casi nei quali tale azione è consentita (art. 235 c.c.), a definire l’ambito nel quale il disconoscimento di paternità è esperibile e, con esso, a delineare il punto di equilibrio tra verità biologica e certezza dello status come presuntivamente attribuito. In particolare, il termine previsto dalla norma dell’art. 244 c.c., afferisce a materia sottratta alla disponibilità delle parti, tanto che il giudice, a norma dell’art. 2969 c.c., deve accertarne ex officio il rispetto (Casa., Sez. 1^, 11 febbraio 2000, n. 1512).

Deve pertanto ritenersi frutto di collusione ordita per frodare la legge la sentenza emessa a conclusione di un processo nel quale le parti, d’accordo fra loro, per far apparire tempestiva l’azione di disconoscimento di paternità e per conseguentemente superare la decadenza fissata dall’ordinamento a presidio dell’indisponibilità delle situazioni soggettive coinvolte, abbiano, contrariamente al vero, dedotto che l’acquisizione della conoscenza, da parte del figlio maggiorenne, dei fatti che rendono ammissibile il disconoscimento di paternità è avvenuta nell’anno anteriore alla proposizione dell’azione.

4.2. – Giusta il motivato convincimento della Corte di Cagliari, tutto il comportamento delle parti dimostrava l’accordo nella finalità dolosa per frodare la legge.

Risulta dalla sentenza impugnata che A.P., nel promuovere l’azione di disconoscimento della paternità, alterò scientemente e palesemente le allegazioni, asserendo dì avere appreso soltanto durante le festività natalizie del 1988 dalla sorella A.M. (alla quale la circostanza era stata rivelata dalla madre poco prima della morte della stessa avvenuta nel 1987) di essere nato da una relazione adulterina della madre con tale Pu.Gi.; e che i convenuti, invece di opporsi all’inganno, confermarono l’esposizione dei fatti della controparte, avendo in particolare A.M. dichiarato nella comparsa dì risposta, per un verso, di sentire il dovere di confermare che la propria madre le aveva rivelato "con assoluta sicurezza" pochi giorni prima di morire che il figlio P. era nato dalla relazione intrattenuta, durante il periodo in cui era separata di fatto dal marito A.L., con Pu.

G., e, per altro verso, di avere avuto "il coraggio" di mettere a parte della rivelazione il fratello P. solo in occasione delle festività natalizie del 1988, quando tutti i fratelli si riunirono per commemorare la madre nel primo anniversario della scomparsa.

La Corte di Cagliari ha altresì accertato che lo stesso A. P. era invece perfettamente a conoscenza da parecchi anni della paternità naturale del Pu.; ed ha desunto tale convincimento da tre convergenti elementi probatorii (a) dal fatto che A.P., assunto a sommarie informazioni testimoniali dalla polizia giudiziaria in data 10 ottobre 1979, riferì al maresciallo dei Carabinieri C.G. di avere appreso dalla madre, quando aveva diciassette anni, in occasione del rientro dal collegio di Volterra dove si trovava dall’età di tredici anni, di essere figlio di Pu.Gi., il quale a sua volta glielo aveva confermato;

(b) dalle dichiarazioni rese dalla madre R.G. in data 19 ottobre 1979 allo stesso maresciallo, in cui ella confessò la sua relazione con il Pu. e il concepimento con lo stesso del figlio P., precisando che la circostanza era stata rivelata al figlio dal Pu. medesimo; (c) dalla deposizione, effettuata il 22 ottobre 1979 nella stessa sede di accertamenti di polizia giudiziaria, effettuata da L.S. (segretario dell’avv. M.G., di cui il Pu. era cliente), il quale dichiarò che A.P. gli aveva detto di essere figlio del Pu..

La Corte territoriale ha verificato che tale documentazione – del tutto incompatibile con la tesi della tempestività dell’azione – non era stata prodotta nel giudizio di disconoscimento di paternità da nessuna delle parti; e che di tale documentazione, che dava la prova della collusione e che era stata versata negli atti processuali da R.P. (già A.P.) soltanto nel successivo procedimento di ammissibilità della dichiarazione giudiziale di paternità naturale ex art. 274 c.c., il pubblico ministero era venuto a conoscenza esclusivamente dopo il passaggio in giudicato della sentenza di disconoscimento a seguito di esposto delle germane Pu., che in quel procedimento erano state convenute .

Risulta pertanto smentita dai puntuali accertamenti compiuti dalla Corte territoriale l’affermazione – sulla quale il ricorrente in via principale fa leva per dedurre l’improponibilità dell’azione di revocazione – che gli elementi dai quali desumere l’accordo fraudolento tra attore e convenuti fossero stati già esaminati nel giudizio conclusosi con la sentenza di disconoscimento di paternità. 4.3. – Per altro verso, il motivo di ricorso è i-nammissibile là dove censura l’errore interpretativo della Corte territoriale che avrebbe giudicato come strumento della collusione l’intera condotta processuale dell’interessato e là dove prospetta una diversa lettura degli atti di causa (in particolare del peso assunto nella sentenza di disconoscimento dalla confidenza della signora R. G. alla figlia M. in punto di morte, del significato delle informative ai Carabinieri rese dalla medesima R. nell’ottobre 1979 e del ruolo avuto dalla deposizione dei fratelli C. nel giudizio conclusosi con la sentenza di disconoscimento).

In questa parte il mezzo di ricorso si risolve in una inammissibile richiesta di revisione del ragionamento decisorio, ossia dell’opzione che ha condotto il giudice del merito, con logica e stringente motivazione, alla soluzione della questione esaminata.

Il ricorrente, infatti, lungi dal prospettare alcun vizio rilevante della sentenza gravata sotto il profilo di cui all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5), si limita ad invocare una diversa lettura delle risultanze di fatto si come accertate e ricostruite dal giudice di merito, tra l’altro anche attraverso la prospettazione di circostanze non decisive (non essendo influente sul thema decidendum se la confidenza a A.P. sulla sua reale paternità sia stata effettuata dalla madre o dal padre naturale).

5. – Non coglie nel segno neppure la censura avanzata con il secondo motivo.

Nel giudizio di disconoscimento di paternità promosso dal figlio maggiorenne, il pubblico ministero interviene a pena di nullità, ai sensi dell’art. 70 c.p.c., comma 1, n. 3), trattandosi di azione di stato, ma non può proporre impugnazione col mezzo dell’appello, avendo il relativo potere carattere eccezionale, ed essendo esercitabile soltanto nei casi previsti dalla legge (cfr. Cass. Sez. 1^, 7 giugno 2006, n. 13281; Cass. Sez. 1^, 18 ottobre 1989, n. 4201).

E’ pertanto infondata la tesi – prospettata per dimostrare che il pubblico ministero avrebbe potuto appellare la sentenza del Tribunale di Cagliari – secondo cui il giudizio di disconoscimento di paternità rientrerebbe tra le cause matrimoniali, contro le cui sentenze il pubblico ministero può proporre impugnazione ai sensi del dell’art. 72 c.p.c., comma 3.

In ogni caso, l’assunto del ricorrente in via principale neppure è conferente, giacchè – come è reso palese dal settimo comma dell’art. 72 c.p.c., che fa salve le disposizioni dell’art. 397 c.p.c., – l’attribuzione al pubblico ministero, nei casi previsti dalla legge, del potere di impugnare la sentenza col mezzo di impugnazione ordinaria non rende superfluo il rimedio della revocazione di cui alla citata disposizione del codice di rito, al quale è possibile ricorrere onde reprimere la collusione per frodare la legge scoperta – come nella specie – dopo 11 passaggio in giudicato della sentenza.

6. – Manifestamente infondata è, in relazione agli artt. 3, 24 e 30 Cost., la questione di legittimità costituzionale dell’art. 244 c.c., comma 3, nella parte in cui limita la proponibilità dell’azione di disconoscimento della paternità da parte del figlio maggiorenne al decorso di un anno dal momento in cui il medesimo è venuto a conoscenza dei fatti che rendono ammissibile il disconoscimento, a differenza di quanto avviene nell’azione per ottenere che sia giudizialmente dichiarata la paternità naturale, che è invece imprescrittibile.

La scelta del legislatore ordinario di consentire al figlio il disconoscimento della paternità soltanto nell’osservanza del termine di decadenza prescritto dall’art. 244 c.c., comma 3, ossia entro un anno (dal raggiungimento della maggiore età o) dal momento in cui sia venuto successivamente a conoscenza dei fatti che rendono ammissibile il disconoscimento – non suscita dubbi di legittimità costituzionale in riferimento ai parametri evocati, ed anzi costituisce espressione del potere demandato allo stesso legislatore dall’art. 30 Cost., comma 4. Infatti, da un lato la decorrenza del termine dall’acquisizione certa dei fatti che rendono ammissibile il disconoscimento salvaguarda l’esigenza di assicurare al figlio maggiorenne l’effettiva possibilità di agire. D’altro lato, occorre considerare che, pur a fronte di un accentuato favore per la conformità dello status alla realtà della procreazione, il favor veritatis non costituisce un valore di rilevanza costituzionale assoluta, tale da doversi affermare comunque, atteso che l’art. 30 Cost., comma 4, non ha attribuito un valore indefettibilmente preminente alla verità biologica rispetto a quella legale, ma, disponendo che la legge detta le norme e i limiti per la ricerca della paternità, ha rimesso al legislatore ordinario, in presenza dello status di figlio legittimo attribuito dall’art. 231 c.c., al figlio concepito durante il matrimonio, il compito di fissare termini per la contestazione della paternità legale, onde evitare che situazioni di incertezza possano protrarsi senza limiti di tempo (cfr. Cass. Sez. 1^, 17 agosto 1998, n. 8087; Cass. Sez. 1^, 30 gennaio 2001, n. 1264).

Nè risulta pertinente il confronto con l’art. 270 c.c., ai cui sensi l’azione per ottenere che sia dichiarata giudizialmente la paternità naturale è imprescrittibile riguardo al figlio, giacchè la differenza tra le due azioni, in correlazione alla specificità delle condizioni di fatto poste a base delle fattispecie sostanziali rispettivamente configurate ed alla diversità delle finalità da ciascuna perseguite, appare tale da giustificare la difformità di disciplina suindicata (cfr. Case., Sez. 1^, 3 agosto 1990, n. 7798;

Case. Sez. 1^, 15 aprile 2005, n. 7924).

7. – Quanto ai motivi del ricorso incidentale – il cui scrutinio è in ordine logico pregiudiziale rispetto a quello del terzo motivo del ricorso principale, essi sono infondati.

7.1. – In primo luogo, è da escludere che a seguito della sentenza di primo grado si sia formato un giudicato sulla ammissibilità dell’intervento ad adiuvandum delle germane Pu..

Risulta infatti dalla puntuale ricostruzione dello svolgimento del processo contenuta nella sentenza impugnata: (a) che la sentenza del Tribunale di Cagliari n. 281 del 24 febbraio 1992, la quale accolse la domanda di disconoscimento di paternità, venne impugnata, per revocazione, dal pubblico ministero, e, separatamente, con opposizione di terzo ex art. 404 c.p.c., da An. e ******

R., le quali posero a base dell’azione i medesimi elementi dedotti dal pubblico ministero nell’azione ai sensi dell’art. 397 c.p.c., n. 2); (b) che, riuniti i due giudizi, il Tribunale rigettò la domanda di revocazione, mentre dichiarò inammissibile l’opposizione di terzo.

Nessun accenno vi è nella sentenza impugnata anche ad una costituzione delle Pu. in primo grado – effettuata con l’osservanza delle forme prescritte dall’art. 267 c.p.c., (presentazione in udienza o deposito in cancelleria di una comparsa formata a norma dell’art. 167 c.p.c., con le copie per le altre parti/ i documenti e la procura) – come terze intervenienti in via adesivo – dipendente ai sensi dell’art. 105 c.p.c.; nè, tanto meno, in ordine ad una statuizione di ammissibilità dell’intervento contenuta nella sentenza di primo grado.

E neppure è sufficiente – come invece prospettano le ricorrenti – a fare ritenere dispiegato un intervento ad adiuvandum già in prime cure il fatto che le opponenti ex art. 404 c.p.c., abbiano rassegnato, dinanzi al Tribunale, conclusioni non solo rivolte all’accoglimento della domanda da esse azionata, ma anche adesive alle finali richieste del pubblico ministero.

7.2. – Si sottrae alle censure delle ricorrenti in via incidentale anche la statuizione di inammissibilità del loro intervento spiegato con comparsa dinanzi alla Corte di Cagliari nel giudizio di impugnazione promosso dal pubblico ministero, separatamente dalla citazione per appello avverso la statuizione di inammissibilità della loro opposizione ex art. 404 c.p.c..

A prescindere dall’osservazione che un tale intervento, effettuato – per la prima volta in appello, per quanto detto retro sub 7.1. – a sostegno delle ragioni dell’appellante pubblico ministero, è inammissibile, perchè, data la formulazione dell’art. 344 c.p.c., l’intervento nel giudizio di appello può ritenersi consentito limitatamente ai soli terzi che potrebbero proporre opposizione a norma dell’art. 404 c.p.c., non potendo l’intervento adesivo dipendente essere spiegato per la prima volta in fase di gravame (Cass. Sez. 3^, 23 maggio 2006, n. 12114; Cass. Sez. lav., 5 marzo 2003, n. 3258; Cass. Sez. 2^, 1 dicembre 1997, n. 12134 ; Cass. Sez. 1^, 10 giugno 1996, n. 5351); occorre rilevare che correttamente la Corte territoriale ha escluso – facendo applicazione di principi più volte espressi dalla giurisprudenza di legittimità (Cass. Sez. 1^, 9 giugno 2005, n. 12167; Cass. Sez. 1^, 15 novembre 2001, n. 14315;

Cass. Sez. 1^, 23 ottobre 1980, n. 5704) – che i figli del preteso padre naturale, nel frattempo deceduto, abbiano un interesse giuridicamente rilevante che li abiliti ad intervenire nel giudizio teso alla rimozione, ex art. 397 c.p.c., n. 2), della sentenza di disconoscimento della paternità legittima, atteso che il solo oggetto di quest’ultimo giudizio consiste nell’accertamento se vi è stata collusione per frodare la legge, sulla base della quale è stata emanata la sentenza revocanda di disconoscimento della paternità, e non anche nel vedere affermata o negata una paternità naturale verso chicchessia.

Nè sussiste il lamentato vizio di extrapetizione, giacchè il giudice ha il potere – dovere di esaminare, anche d’ufficio, se il terzo abbia un interesse giuridicamente rilevante che lo abiliti all’intervento in giudizio.

8. – Il terzo motivo del ricorso principale è inammissibile.

8.1. – La statuizione del giudice di merito in tema di regolamento delle spese processuali è sindacabile in sede di legittimità nei soli casi di violazione di legge, quale si verificherebbe nell’ipotesi in cui, contrariamente al divieto stabilito dall’art. 91 c.p.c., le stesse venissero poste a carico della parte totalmente vittoriosa. La valutazione dell’opportunità della compensazione totale o parziale rientra, invece, nei poteri discrezionali del giudice del merito sia nell’ipotesi di soccombenza reciproca, sia nell’ipotesi della sussistenza di giusti motivi (v., tra le tante, Cass. Sez. 1^, 16 marzo 2006, n. 5828); ed il relativo apprezzamento è sindacabile in sede di legittimità soltanto ove sorretto da ragioni palesemente illogiche, ossia tali da inficiare, per la loro inconsistenza, lo stesso processo formativo della volontà decisionale espressa sul punto (cfr. Cass. Sez. 1^, 3 settembre 2005, n. 17953), Nella specie la pronuncia di compensazione delle spese è sorretta da ragioni prive di mende logiche e giuridiche, avendo la Corte d’appello motivato sulla posizione assunta dalle parti, sull’esito finale della lite e sulle ragioni della decisione; come tale, essa sfugge al sindacato in questa sede di legittimità. 8.2. – Per altro verso, occorre ribadire, conformemente alla consolidata giurisprudenza di questa Corte (ex multis, Cass. Sez. 1^, 8 settembre 2003, n. 13071; Cass. Sez. 2^, 8 gennaio 2003, n. 73), che l’accertamento della temerarietà della lite, la quale ricorre quando sussiste coscienza dell’infondatezza della domanda o dell’eccezione (mala fede), ovvero quando vi è ignoranza colpevole in ordine a detta infondatezza, implica un apprezzamento di fatto, riservato al giudice del merito, incensurabile in sede di legittimità se adeguatamente motivato.

Ed è proprio questa la situazione che si verifica nel caso di specie: nel quale la Corte territoriale – pur avendo dato atto di una volontà, "sia pure ingiustificatamente reiterata", delle germane Pu. di partecipare al giudizio "in qualche modo da loro provocato con la denuncia al pubblico ministero" – ha motivatamente escluso la sussistenza dei presupposti della responsabilità processuale aggravata, data la riconosciuta assenza sulla colpa grave che di dolo nella condotta delle medesime.

9. – Il ricorso principale ed il ricorso incidentale sono rigettati.

L’esito del giudizio di cassazione e la complessità delle questioni trattate impongono la compensazione tra le parti delle spese del giudizio di cassazione.

P.Q.M.
La Corte:

Riuniti i ricorsi, li rigetta e dichiara interamente compensate tra le parti le spese del giudizio di cassazione.

Così deciso in Roma, il 21 febbraio 2007.

Redazione