Corte di Cassazione Civile 9/4/2008 n. 9166; Pres. Vittoria P., Est. Toffoli S.

Redazione 09/04/08
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Svolgimento del processo

Il Consiglio dell’Ordine degli avvocati (***) di (omissis) in data 22.7.2004, a seguito di alcuni accertamenti preliminari e della notizia che al dott. D.M., praticante avvocato sottoposto a procedimento penale per i reati di detenzione e spaccio di sostanze stupefacenti, con sentenza ex art. 444 c.p.p. del 9.10.2003, emessa dal GIP del Tribunale di Pescara, era stata applicata la pena, sospesa, di un anno di reclusione ed Euro 2.700,00 di multa, deliberava l’apertura del procedimento disciplinare a carico del medesimo per le seguenti incolpazioni:

1) avere ceduto a terzi gr. 100 di sostanza stupefacente tipo cocaina, in (omissis) il (omissis);

2) avere detenuto, presso l’abitazione di persona coimputata, kg. 1,9 di sostanza stupefacente tipo hashish e gr. 8 di sostanza stupefacente tipo cocaina al fine di cederla a terzi, in (omissis) il (omissis);

3) avere ceduto ripetutamente e in esecuzione del medesimo disegno criminoso sostanze stupefacenti (hashish e cocaina) a terzi, tra il (omissis) e il (omissis), violando per tutti i capi di incolpazione l’art. 5 del codice deontologico forense.

Espletato il giudizio disciplinare, il COA riconosceva l’incolpato responsabile degli illeciti disciplinari contestatigli e gli irrogava la sanzione della sospensione dall’esercizio professionale per un anno.

Contro la decisione il D. proponeva ricorso davanti al Consiglio nazionale forense (CNF) il quale definiva il giudizio dichiarando di non doversi procedere in ordine al secondo capo di incolpazione perchè all’epoca del fatto commesso l’incolpato non era destinatario delle norme deontologiche, non essendo iscritto nel registro speciale dei praticanti avvocati; rigettava il ricorso relativamente agli altri due capi di incolpazione; rideterminava la sanzione nella misura di dieci mesi di sospensione dall’esercizio della professione.

Per quanto ancora rileva, il CNF riteneva che la sentenza penale di patteggiamento ex artt. 653 e 445 c.p.p., come modificati dalla L. n. 97 del 2001, abbia efficacia di giudicato anche nei giudizi sulla responsabilità disciplinare dei professionisti quanto all’accertamento del fatto, la sua illiceità penale e l’affermazione che l’imputato lo ha commesso; che le norme deontologiche trovavano applicazione non solo nei confronti degli avvocati ma anche dei praticanti iscritti nel relativo registro speciale, R.D. n. 37 del 1934, ex art. 57, anche se non svolgenti attività di patrocinio; che di conseguenza il ricorrente doveva rispondere degli illeciti di cui ai capi di incolpazione 1) e 3) commessi in epoca successiva alla sua iscrizione all’albo di praticanti, avvenuta in data (omissis), mentre doveva dichiararsi non doversi procedere per il fatto di cui al capo 2), avvenuto il (omissis) e quindi in data anteriore; che non poteva essere accolta la doglianza secondo cui si era ingiustamente data prevalenza agli effetti della sentenza ex art. 444 c.p.p. su elementi istruttori come le deposizioni dei testi D. N. e M., che avevano escluso la sua responsabilità, e ciò non solo in virtù della efficacia legale della sentenza di patteggiamento, ma anche perchè detti testi non erano stati sentiti secondo le modalità di cui all’art. 197 bis c.p.p., non essendo stati avvertiti della facoltà di astenersi e di farsi assistere da un difensore pur essendo uno coimputato per gli stessi fatti e l’altro indagato per uno degli episodi, e inoltre la loro deposizione era generica, sprovvista di riscontri e non attendibile per il loro interesse specifico nel processo penale che aveva coinvolto l’incolpato.

Lo stesso CNF, esaminando il motivo di ricorso diretto al conseguimento di una pena meno afflittiva in ragione della particolarità della vicenda e della mancanza di una prova certa, osservava che in effetti era risultata sussistente una prova certa e che la gravità del fatto emergeva proprio dal comportamento del ricorrente, il quale, dopo avere commesso il primo illecito quando ancora non era iscritto nel registro dei praticanti, non aveva ritenuto di porre fine alla condotta illecita dopo l’iscrizione in tale registro, compromettendo il requisito della condotta specchiatissima e illibata necessaria per garantire il decoro e la dignità della classe forense. Ne poteva derivare l’esclusione di ogni attenuante. Tuttavia il collegio giudicante, tenendo conto della giovane età dell’incolpato, della sua conseguita iscrizione nell’albo degli avvocati e della riabilitazione dalla condanna penale, riteneva di irrogare allo stesso, per i due capi di incolpazione per cui era ritenuta la sua responsabilità, la sanzione della sospensione dalla professione per mesi dieci.

Il D. propone ricorso per Cassazione davanti a queste Sezioni unite civili articolando tre motivi di censura e formulando istanza di sospensione dell’esecuzione della decisione impugnata.

Il Consiglio dell’Ordine degli avvocati di (omissis) non si è costituito.

Motivi della decisione

Il primo motivo denuncia violazione e falsa applicazione degli artt. 444, 445 e 653 c.p.p. in relazione alla L. n. 97 del 2001; degli artt. 246 e segg. c.p.c.; dell’art. 5 del codice deontologico forense; dell’art. 197 bis c.p.c.; dell’art. 24 Cost. e del R.D.L. n. 1578 del 1933, art. 44 e art. 48, comma3, (nullità del procedimento). Denuncia altresì violazione e falsa applicazione dell’art. 11 Cost. e dell’art. 132 c.p.c. per difetto di motivazione ovvero per motivazione mancante o meramente apparente (nullità della decisione o del procedimento per violazione dell’art. 112 c.p.c.).

Formulate alcune censure nei confronti della decisione del COA circa l’accertamento dei fatti e la ritenuta inattendibilità dei testimoni sentiti, si sostiene che la sentenza di patteggiamento, ove pure utilizzabile in sede disciplinare, non può essere assunta a presupposto unico della dichiarazione di colpevolezza, dovendosi tenere conto che l’art. 5 del codice deontologico prevede che, anche in caso di imputazioni per violazione della legge penale, è "salva ogni autonoma valutazione sul fatto commesso". Si deduce poi che il CNF erroneamente ha ritenuto l’inutilizzabilità delle deposizioni testimoniali per violazione dell’art. 197 c.p.p., inapplicabile perchè in linea generale nei procedimenti disciplinari nei confronti degli avvocati deve semmai farsi riferimento in via integrativa al codice di procedura civile, in applicazione del quale non era configurabile un’incapacità dei testi, e d’altra parte il R.D.L. n. 1578 del 1933, art. 48, richiama in materia di testimoni gli artt. 358 e 359 del precedente c.p.p., che vertevano su questioni differenti da quelle di cui all’attuale art. 197 bis c.p.p..

Si deduce poi che illogicamente si sono ritenute le deposizioni testimoniali generiche e inattendibile la deposizione del D. N., per la cui posizione era stata chiesta l’archiviazione per l’inconsistenza delle accuse.

Il motivo è infondato.

A norma degli artt. 445 e 653 c.p.c., così come modificati dalla L. 27 marzo 2001, n. 97, le sentenze di applicazione della pena su richiesta delle parti, o di patteggiamento, hanno efficacia di giudicato nei giudizi disciplinari che si svolgono davanti alle pubbliche autorità – e quindi anche nei giudizi disciplinari a carico di avvocati (Cass. sez. un. n. 13975/2004, 18290/2004, 4893/2004) o di praticanti avvocati – quanto all’accertamento del fatto, alla sua illiceità penale e all’affermazione che l’imputato lo ha commesso. Ne deriva che riguardo all’accertamento dei fatti penalmente rilevanti commessi dall’attuale ricorrente è assorbente il riferimento da parte del giudice a quo al vincolo di giudicato derivante nella specie dalla sentenza c.d. di patteggiamento. Nè certo in senso contrario può ritenersi fondato il richiamo alla disposizione del codice deontologico che fa salva ogni autonoma valutazione sul fatto commesso in caso di imputazioni per violazione della legge penale. A una previsione di tal genere, infatti, per i principi sulla gerarchia delle fonti, può attribuirsi rilevanza per quanto riguarda la valutazione della rilevanza disciplinare dei fatti e non anche l’accertamento dei medesimi, in presenza di un giudicato penale.

Risultano pertanto prive di rilevanze tutte le censure aventi ad oggetto le considerazioni del CNF sulla validità e l’attendibilità delle prove testimoniali assunte dal ***. Il secondo motivo denuncia violazione e falsa applicazione del R.D.L. n. 1578 del 1933, art. 50, comma 4, (nullità della decisione e del procedimento per violazione dell’art. 112 c.p.c.).

Si lamenta che il CNF non abbia operato alcuna riduzione della pena nonostante la dichiarazione di non doversi procedere per il secondo capo di incolpazione. Si ritiene infatti che la riduzione operata con la decisione impugnata sia correlata al riconoscimento di talune attenuanti. Si sostiene inoltre che la sanzione doveva essere ridotta di almeno un terzo e, anzi, in misura maggiore poichè nella sentenza penale ex art. 444 c.p.p. reati più gravi erano stati ritenuti quelli di cui ai capi di imputazione b) e c), sostanzialmente corrispondenti ai capi di incolpazione disciplinare 2) e 3).

Anche questo motivo non può ritenersi fondato.

La tesi secondo cui l’esclusione della responsabilità disciplinare per uno dei capi di incolpazione non ha comportato alcuna riduzione di pena da parte del CNF è basata sull’assunto che la riduzione operata sarebbe attribuibile esclusivamente al riconoscimento di alcune attenuanti. Deve però rilevarsi che in effetti il giudice a quo non ha ritenuto fondato il motivo di ricorso con cui era stata richiesta una riduzione di pena per la mancanza di una prova certa e la presenza "di più elementi di dubbio". Ne consegue che il medesimo giudice ha proceduto a una nuova valutazione della sanzione da applicare con particolare riguardo proprio all’intervenuto mutamento del quadro di responsabilità disciplinare, in relazione a quest’ultimo determinando la sanzione ritenuta proporzionata doverosamente tenendo presente anche gli elementi soggettivi ritenuti rilevanti (che non configurano attenuanti in senso tecnico).

D’altra parte, in considerazione dell’autonomia delle valutazioni da compiersi nel giudizio disciplinare rispetto al giudizio penale, in particolare quanto all’entità della sanzione, e la concorrente rilevanza a quest’ultimo fine sia degli elementi oggettivi che degli elementi soggettivi, e tenuto altresì presente che i tre capi di incolpazione riguardavano illeciti dello stesso tipo e il terzo, rimasto fermo, una condotta ripetuta nel tempo, deve escludersi che il CNF dovesse seguire nella riduzione della pena i criteri di proporzionalità sostenuti dal ricorrente. Nè principi a sostegno di tale tesi sono desumibili dalla sentenza di queste Sezioni unite n. 5039/2004, che ha cassato per contraddittorietà la decisione del CNF che, in presenza dell’irrogazione da parte del *** di una sanzione unitaria della sospensione dalla professione relativamente a due incolpazioni per condotte eterogenee, aveva ridotto la misura della sospensione solo di un terzo, pur avendo affermato che il fatto per cui doveva escludersi la responsabilità era il più grave.

Il terzo motivo denuncia violazione e falsa applicazione del R.D. n. 37 del 1934, artt. 57 e 58 e del R.D.L. n. 1578 del 1933, art. 50, comma 4, (nullità della decisione, difetto di giurisdizione o competenza, eccesso e sviamento di potere).

Premesso che la sospensione prevista nei confronti del praticante avvocato non abilitato al patrocinio, per la quale la legge precisa che "ha per effetto l’interruzione della pratica", comporta esclusivamente l’interruzione della pratica forense, si lamenta che al ricorrente, il quale dopo la proposizione del ricorso ma prima della decisione di secondo grado era stato cancellato dall’albo dei praticanti e iscritto all’albo degli avvocati, sia stata inflitta una sanzione – la sospensione dall’esercizio della professione – maggiormente affittiva di quella di cui era effettivamente destinatario e passibile in riferimento al tempo dei fatti commessi.

In effetti nella specie il CNF avrebbe potuto applicare solo le sanzioni dell’avvertimento o della censura i cui effetti sono identici per gli avvocati e i praticanti.

Il motivo è infondato.

L’ordinamento disciplinare relativo alla professione forense è unitario, come si desume sia dal rinvio del R.D. n. 37 del 1934, art. 58 per la disciplina dei praticanti alla complessiva normativa disciplinare dettata per gli avvocati, sia dal fatto che il praticantato ha la funzione di assicurare la preparazione all’esercizio della professione forense. Ne consegue che la sanzione della sospensione applicabile ai praticanti non è una sanzione diversa dalla sospensione prevista per gli avvocati. La sanzione è la stessa e sorge solo l’esigenza di precisare che durante il praticantato essa trova attuazione come sospensione della pratica e dell’eventuale esercizio del patrocinio, come specifica il secondo comma dell’art. 58 cit. (secondo cui "La sospensione ha per effetto l’interruzione della pratica. Durante la sospensione il condannato è privato dell’esercizio del patrocinio"). Ciò implica, da un lato, che la sanzione della sospensione dall’esercizio professionale irrogata per fatti commessi dal praticante e in costanza di praticantato, può essere scontata anche dopo l’iscrizione del professionista all’albo degli avvocati, e, dall’altro, che la conferma (con eventuale modifica alla misura) da parte del CNF della sanzione della sospensione irrogata dal COA non implica il riferimento a una sanzione di tipo diverso e più grave di quella irrogata nella fase amministrativa del procedimento disciplinare, anche se nel frattempo l’interessato è stato iscritto nell’albo degli avvocati.

In conclusione, il ricorso deve essere rigettato.

Nulla per le spese stante la mancata costituzione del Consiglio dell’Ordine intimato.

P.Q.M.

LA CORTE A SEZIONI UNITE Rigetta il ricorso; nulla per le spese.

Redazione