Conferimento di incarico di consulenza: atto preparatorio o contratto compiuto? Non rileva l’elemento letterale nell’intestazione, ma l’intenzione delle parti (Cass. n. 7635/2012)

Redazione 16/05/12
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Svolgimento del processo

Per quanto ancora rileva nel giudizio di legittimità, la soc. Horizont citò in giudizio risarcitorio la C. ed il Ca., sostenendo di avere da loro ricevuto l’incarico di consulenza per la realizzazione di una clinica linfologica; incarico dal quale i convenuti avevano anticipatamente receduto (manifestando di non avere più interesse alla realizzazione del progetto), senza pagare nè l’acconto, nè il corrispettivo pattuiti.

Il Tribunale di Genova respinse la domanda, ritenendo che tra le parti era stato concluso un contratto (in data 14.6.2001) per la gestione tecnico operativa del progetto (con obbligazione di risultato a carico della società incaricata), rispetto al quale la Horizont s’era resa inadempiente, così giustificando il recesso della controparte. La Corte d’appello di Genova ha confermato la prima sentenza, pur attraverso una diversa motivazione, secondo cui la menzionata scrittura del 14.6.2001 (alla quale aveva fatto seguito una bozza predisposta dalla società) aveva costituito una mera puntuazione di natura preparatoria rispetto ad un contratto definitivo mai stipulato.

Propone ricorso per cassazione la Horizont s.r.l. attraverso due motivi. Rispondono con controricorso la C. ed il Ca..

Questi ultimi hanno depositato memorie per l’udienza.

 

Motivi della decisione

Il primo motivo censura la sentenza per violazione e falsa applicazione degli artt. 1325 e 1362 c.c., nonchè per travisamento dei fatti in merito alla dichiarata natura di puntuazione della scrittura privata del 14.6.2001. Trascritto l’atto, sostiene la ricorrente che esso, diversamente da quanto ritenuto dal giudice, costituisca un contratto compiuto e lo deduce: dall’intestazione (“Conferimento d’incarico”); dal fatto che le parti facciano riferimento ad un accordo; dall’oggetto (la realizzazione di una clinica specialistica attraverso lo svolgimento di undici fasi tutte trascritte); dalla causa (contratto di consulenza oneroso); dalla forma (quella convenzionale con firma delle parti su ognuna delle pagine). Conclude, dunque, la ricorrente che il giudice avrebbe ignorato il significato letterale delle parole. Aggiunge pure la società ricorrente che il giudice avrebbe travisato i fatti laddove non coglie le differenze tra l’atto in discussione ed il contratto definitivo, in fase di elaborazione, che avrebbe indicato il capitolato d’opere complessivo e sarebbe stato intestato ad una società creata allo scopo. Inoltre, il comportamento successivo delle parti confermerebbe la natura vincolante dell’incarico. Il motivo è inammissibile.

Esso, di fatto, si risolve nella mera contrapposizione di una diversa e favorevole interpretazione dell’atto in discussione, senza neppure considerare e censurare specificamente le dettagliate argomentazioni esposte in sentenza per affermare che a quell’atto stesso non può attribuirsi dignità di un contratto compiuto. Preso atto, infatti, degli approdi ai quali è pervenuta la giurisprudenza in materia, la sentenza supera l’elemento letterale contenuto nell’intestazione dell’atto (valorizzato, invece, dal primo giudice) per tenere piuttosto conto della comune intenzione delle parti, desumibile anche dal loro comportamento successivo. A tal proposito menziona una serie di elementi (si tratta di quelli esposti alle pagg. 13 e 14 della sentenza e che qui non è neppure il caso di ripetere), nonchè le dichiarazioni dei testimoni ( G., V. e P.) che portano il giudice a ritenere che quella in questione non ha costituito altro che una mera puntazione alla quale, nell’intenzione delle parti, avrebbe dovuto far seguito il contratto.

Per il resto, occorre ricordare che il “travisamento del fatto” non costituisce neppure un vizio di legittimità ma, semmai, un vizio di natura revocatoria.

Il secondo motivo, posto in subordine rispetto al primo, censura la sentenza per violazione degli artt. 346 e 112 c.p.c. nel punto i cui essa rileva che la società non ha riproposto in appello la domanda (avanza in primo grado) di risarcimento del danno da responsabilità precontrattuale. La ricorrente sostiene in proposito che tale domanda non è stata rinunciata e trascrive a riprova un brano della citazione in appello.

Il motivo è infondato.

E’ indubbio che la società, soccombente in primo grado, avrebbe dovuto riproporre la domanda in questione (responsabilità precontrattuale), del tutto autonoma rispetto a quella risarcitoria conseguente alla risoluzione del (supposto) contratto per colpa della controparte. Tale riproposizione non può ritenersi contenuta nel brano della trascritta domanda in appello, nel quale si fa una generica menzione della richiesta condanna “in ogni caso sia a titolo di risarcimento del danno da responsabilità contrattuale che extracontrattuale”.

In conclusione, il ricorso deve essere respinto, con condanna della ricorrente a rivalere la controparte delle spese sostenute nel giudizio di cassazione.

 

P.Q.M.

 

La Corte rigetta il ricorso e condanna la ricorrente al pagamento delle spese del giudizio di cassazione, che liquida in complessivi Euro 8.200,00 (di cui Euro 8.000,00 per onorari) in favore del Ca. ed Euro 7.200,00 (di cui Euro 7.000,00 per onorari) in favore della C., oltre spese generali ed accessori di legge.

Redazione