Concussione (Cass. pen. n. 21701/2013)

Redazione 21/05/13
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Svolgimento del processo

1. A.D., giudice del tribunale di Bari, e L. D., indicato in epigrafe come “persona nota nell’ambiente giudiziario barese per le frequenti nomine a consulente d’ufficio”, sono stati condannati in entrambi i gradi del merito (Tribunale di Lecce, 25.2.11; Corte d’appello di Lecce, 12.7.12) per concorso in tentata concussione in danno di L.T.S., legale rappresentante della IDEALCLIMA SNC, costituitasi in proprio parte civile e destinatala di provvisionale di 7.000 Euro. Secondo l’imputazione, A., tramite L., aveva tentato di costringere e indurre la donna a corrispondere la somma di 15.000 Euro per ottenere tempestivamente il provvedimento di provvisoria esecuzione di un decreto ingiuntivo di 96.335,36 Euro, opposto dal debitore, causa assegnata a quel magistrato. Riferiscono le sentenze che la IDELACLIMA era in estreme difficoltà finanziarie, tanto da venir poi dichiarata fallita il (omissis); la provvisoria esecuzione del decreto opposto era stata chiesta con la comparsa di costituzione e risposta del 10.7.2006, nuovamente chiesta all’udienza di comparizione delle parti del 23.9.2006 e all’udienza di trattazione del 12.1.2007 (quando il difensore aveva anche evidenziato specificamente le peculiari ragioni dell’urgenza e il giudice riservava la decisione); lo scioglimento della riserva era sollecitato con memoria del 23.4.2007 e l’8.6.2007 la provvisoria esecuzione del decreto ingiuntivo era concessa, con la locuzione “rilevato che l’opposizione non è fondata su prova scritta e non si presenta di pronta soluzione” (dalle sentenze risulta che il provvedimento era stato scritto e stampato al computer d’ufficio in 5′, alla presenza della L.T., e che il precedente 11.5.2007 all’ A. era stato notificato l’avviso di conclusione delle indagini per altra vicenda concussiva, in concorso con il L. ed in danno di altra persona). La versione accusatoria, accolta dai due Giudici del merito, attribuiva al L. la richiesta dei 15.000 Euro quale onorario per il solo giudice, valorizzando come riscontro individualizzante anche un occasionale incontro al bar tra A., L., una donna in compagnia di L. e L. T., nel corso del quale dopo che L.T. si era recata a pagare il conto al bar, era stata fermata da L. mentre A. pronunciava la frase “Lei con un caffè se ne vuole uscire?”, seguita da uno scambio di battute nel quale si era parlato di ************, ostriche e cena. Una quindicina di giorni prima dell’8 giugno L. aveva telefonicamente avvertito L.T. che il giudice A. avrebbe provveduto comunque sulla provvisoria esecuzione, che lei “doveva avergli toccato il cuore” e che “poi provvederai dopo a fare quello che devi fare”. La redazione materiale del provvedimento, l’8.6.2007, come prima riferito era avvenuta dopo che L.T. aveva atteso in tribunale l’ A., che l’aveva fatta accomodare nella stanza, aveva preso il fascicolo, acceso il computer e redatto il provvedimento, precisando alla donna, che ne chiedeva copia, che prima si sarebbe dovuto provvedere con le notifiche.

2. Entrambi gli imputati hanno presentato ricorso.

2.1 A..

Il primo motivo enuncia “mancanza, contraddittorietà o manifesta illogicità della motivazione, risultante dagli atti del processo specificamente indicati”, perchè la Corte d’appello non si sarebbe confrontata con gli elementi di prova enumerati nella conclusione dell’atto d’appello (riprodotti nella medesima enumerazione a fg. 3 e 4 dell’atto di ricorso), mentre “tali atti sono dotati di una forza esplicativa e dimostrativa tali da disarticolare l’intero ragionamento svolto dal Giudice d’Appello, il quale non ha richiamato e non ha esaminato atti a contenuto probatorio evidente, peraltro, non valutati dal primo Giudice”.

Il secondo motivo enuncia mancanza, contraddittorietà o manifesta illogicità della motivazione risultante dal testo del provvedimento impugnato, perchè la decisione sarebbe stata basata sulle sole dichiarazioni della persona offesa, inattendibili sulla genesi del rapporto con L., prive di riscontri esterni atteso anche il travisamento del fatto e per l’irrilevanza della deposizione della teste C. (la donna che accompagnava L.) in ordine a quanto avvenuto all’interno del bar.

Viene quindi svolta deduzione sulle implicazioni della nuova disciplina ex lege 265 (rectius 190) del 13 novembre 2012. Il ricorso, dopo aver lamentato che la sentenza d’appello (deliberata il 12.7.12 e depositata il 10.10.12) non abbia tenuto conto delle modifiche intervenute, afferma che la condanna si riferirebbe a una ipotesi di reato non più sussistente nel nostro ordinamento.

Da ultimo, il ricorrente contesta che il Giudice d’appello abbia travisato la ricostruzione dei fatti e non abbia dato prova del dolo, evidenziando che lo stesso capo di imputazione qualificava in termini di “scherzosa” la frase pronunciata da A. nel bar. In ogni caso, poichè il Giudice d’appello aveva richiamato integralmente la sentenza di primo grado, allora anche il ricorrente “dichiarava, per contro, che deve intendersi nel presente ricorso integralmente riportato e trascritto al’atto di appello”, con particolare riguardo agli atti a supporto delle proprie censure, indicati e da “intendersi integralmente trascritti”.

2.2 L..

Il ricorso enuncia unico motivo di mancanza e manifesta illogicità della motivazione, perchè la posizione specifica di L. sarebbe stata motivata solo per relazione alla prima sentenza, dopo una mera indicazione dei motivi d’appello. Illogica sarebbe la spiegazione fornita dalla Corte d’appello alla censura specifica sulla pregressa conoscenza tra L. e L.T., mentre sarebbe solo acrobazia argomentativa la risposta data dalla Corte distrettuale al punto della riferita proposta di L. a L. T. perchè i 15.000 Euro fossero pagati in tre assegni. Sarebbe mancata risposta alle deduzioni difensive che il mero nuncius della proposta concussiva non potrebbe essere chiamato a rispondere del reato proprio e che in realtà L. aveva sollecitato la donna a mettersi direttamente in contatto con A.: quindi, nessun concorso sarebbe stato ipotizzabile.

Motivi della decisione

3. Entrambi i ricorsi debbono essere rigettati, con la condanna dei ricorrenti al pagamento delle spese processuali ed alla rifusione in solido delle spese di difesa sostenute dalla parte civile per il grado, liquidate come da dispositivo tenuto conto dell’attività svolta.

3.1 Il primo motivo del ricorso A. è inammissibile per genericità: in definitiva la doglianza difensiva sull’avere la Corte distrettuale ignorato materiale probatorio determinante è svolta in termini del tutto assertivi e generici. L’atto d’appello si concludeva con la mera elencazione di tali elementi, non sorretta da alcuna deduzione specifica relativa a ciascuno di essi o almeno per “gruppo di rilevanza”. Il ricorso reitera la medesima modalità di deduzione, sicchè a fronte delle articolate argomentazioni di entrambi i Giudici del merito sulle ragioni della ricostruzione accolta, sorretta da specifica ed ampia motivazione che richiama e commenta espressamente specifici elementi di prova, valorizzandoli in termini certamente non incoerenti alle prove indicate, la mera elencazione di altri elementi, tra l’altro di palese diverso spessore intrinseco, senza alcuna argomentazione che in termini non apodittici ma puntuali (e con confronto espresso con i diversi ragionamenti dei Giudici del merito) proponga le ragioni della loro decisività, confina il motivo all’anticipata inammissibilità.

Il secondo motivo del ricorso A. è inammissibile perchè diverso da quelli consentiti. Il ricorrente ripropone doglianze che già hanno avuto risposta specifica del Giudici del merito (in particolare quello del primo grado cui la Corte d’appello si è richiamata), mentre le censure difensive si limitano a contestarne l’adeguatezza risolvendosi in preclusa sollecitazione a diverso apprezzamento del fatto. Le deduzioni sul contesto dell’incontro al bar e sull’interpretazione delle frasi e delle condotte di A. si risolvono in deduzioni di merito e generiche.

In particolare, il ricorrente opera un assertivo rinvio al proprio atto d’appello, in buona sostanza ritenendo legittimo ed ammissibile contrapporre il proprio rinvio per relazione all’atto d’appello a quello che assume essere stato fatto dal Giudice di appello alla sentenza di primo grado. Ma così operando incorre nella dichiarata inosservanza dell’obbligo di specificità del motivo, che ne determina l’inammissibilità. Infatti, il generico rinvio all’atto di appello, e non a singole specifiche deduzioni che si assumano essere rimaste prive di risposta e tuttavia determinanti ad imporre diversa deliberazione, imporrebbe a questa Corte di legittimità di provvedere all’indispensabile confronto tra prima sentenza, atto di appello, sentenza di secondo grado, sostanzialmente andando così ad enucleare le possibili censure, sulle quali poi deliberare: situazione del tutto estranea al sistema del giudizio di legittimità.

Il motivo unico del ricorso di L. è infondato. Sul punto della pregressa conoscenza del L. con la L.T. (che in realtà non era oggetto specifico dei motivi d’appello di questo ricorrente) la Corte distrettuale ha risposto a p.5 della propria sentenza, mentre la spiegazione relativa alla possibilità di un pagamento con tre assegni costituisce apprezzamento di merito oggetto di specifica motivazione immune dal vizio di manifesta illogicità (in definitiva il ricorso svolgendo anche sul punto censure di merito). Quanto al ruolo, solo nel ricorso L. richiama proprie condotte volte a rinviare la donna al diretto contatto con il giudice (non in questi termini sono le deduzioni alle pagine 2, 3 e 4 dell’atto di appello), mentre la giurisprudenza sul ruolo del nuncius nelle condotte di (altrui concussione, o estorsione) è irrilevante nel caso di specie nel quale i Giudici del merito (in particolare Trib. P. 18 ultimo paragrafo e 19.2; App. p.7) hanno argomentato di un previo specifico e consapevole accordo tra i due imputati (Sez. 1, sent. 5607/1984; Sez. 6, sent. 35850/2008; Sez. 6, sent. 506/2009; Sez. 5, sent. 40677/2012).

3.2 Nell’atto del ricorso di A. si rinviene anche l’affermazione (non preceduta da enunciazione di autonomo motivo nè seguita da argomentazioni a sostegno) che la L. n. 265 del 2012 avrebbe determinato l’irrilevanza penale della condotta in concreto ascritta al ricorrente. Si tratta di deduzione che, ancorchè solo assertiva, pone una questione di diritto che va conosciuta anche d’ufficio dalla Corte di cassazione, ai sensi dell’art. 609 c.p.p., comma 2, atteso che la nuova disciplina è intervenuta con legge successiva alla deliberazione d’appello (che, pertanto, non poteva tenerne conto).

Come noto, in materia di concussione la innovazione essenziale consiste in quello che è stato definito come “spacchettamento” della concussione nelle due figure della concussione (art. 317 c.p.) e della induzione indebita a dare o promettere utilità (art. 319 quater c.p.). Conseguentemente, mentre il previgente art. 317 c.p. considerava in alternativa di pari valenza le condotte della costrizione e dell’induzione a dare o promettere indebitamente a sè o a un terzo, con abuso della qualità o dei poteri, la nuova disciplina ha mantenuto nell’art. 317 c.p. la sola condotta di costrizione, creando una nuova fattispecie per la condotta di induzione; tale fattispecie si caratterizza in particolare per la previsione del carattere residuale della norma (“salvo che il fatto costituisca più grave reato”) e per la punibilità di colui che da o promette denaro o altra utilità (capoverso dell’art. 319 quater c.p.).

La deduzione secondo cui la nuova disciplina avrebbe comportato l’irrilevanza penale delle condotte oggetto di contestazione ai sensi del precedente art. 317 c.p. è palesemente infondata.

Ricordato che il ricorrente, come prima esposto, non ha introdotto alcun apporto argomentativo sul punto, è già la mera constatazione che le due norme attuali ripetono anche la lettera della precedente disciplina unitaria ad attestare che la ripartizione delle due condotte (lo “spacchettamento”) non ha portato ad alcuna modifica delle condotte astrattamente considerate penalmente rilevanti, quanto al loro autore (Sez. 6, sent. 11792/2013; Sez.6, sent. 8695/2013; 7495/2013).

Nè a diversa conclusione può condurre la constatazione del sussistente contrasto di giurisprudenza sull’individuazione dei criteri interpretativi che debbono guidare la sussunzione delle fattispecie concrete nelle nozioni di costrizione e induzione.

Quale che sia l’esito di tale dibattito interpretativo, infatti (in relazione al quale si deve segnalare la recentissima rimessione alle Sezioni unite di questa Corte, con ordinanza deliberata all’udienza del 9 maggio 2013 nel procedimento 29180/2012), l’effetto non può che essere quello di approfondire le distinzioni originarie tra due condotte che il precedente legislatore considerava assolutamente equipollenti, sul piano degli effetti, sicchè non vi era interesse a verificarne e precisarne la relativa gravità “per tipologia”, mentre ora le ha distinte proprio quanto a intrinseca gravità.

Condotte che, pertanto, sono solo state oggetto di un diverso apprezzamento legislativo in ordine alla rispettiva gravità, non già di una radicale rivalutazione in termini di rilevanza o irrilevanza penale della condotta dell’autore, riconducibile alle nozioni di costrizione o induzione (significativamente, sul punto, le tre sentenze richiamate propendono per ricostruzioni sistematiche diverse sulla distinzione tra costrizione ed induzione, ma tutte affermano la continuità normativa).

Nè la previsione dell’incriminabilità di chi, vittima di induzione a dare o promettere indebitamente al pubblico ufficiale che abusa del proprio potere o della propria qualità, “ceda” o “non resista” all’induzione ha effetti sulla rilevanza penale della condotta di induzione dell’autore del reato proprio, rispondendo questa nuova e ulteriore incriminazione ad autonome e diverse ragioni della discrezionalità legislativa, che nulla operano sul piano della permanente rilevanza penale della condotta di chi “induce”.

In definitiva, la successione normativa tra il previgente testo dell’art. 317 c.p., quello introdotto dalla legge 190/2012 e quello del nuovo autonomo art. 319 quater c.p., si colloca all’interno del peculiare fenomeno di successione di leggi penali disciplinato dall’art. 2 c.p., comma 4.

3.2.1 Anche sotto il diverso profilo dell’adeguatezza della condotta in concreto contestata e ritenuta, rispetto al delitto ex art. (56) 317 c.p. per il quale è intervenuta condanna, l’innovazione normativa non ha effetto sul caso concreto.

Il capo di imputazione attribuiva agli imputati la condotta di aver tentato di costringere e indurre. La Corte d’appello ha sul punto formulato uno specifico apprezzamento di fatto (p. 7, “ha tentato di costringerla, non di indurla”) che appare coerente alla qualificazione giuridica che deve essere ora data alla condotta, tenuto conto dell’evidente ingiustizia del danno minacciato alla persona offesa.

La pena è stata poi in concreto determinata secondo i più favorevoli parametri del previgente testo dell’art. 317 c.p..

P.Q.M.

Rigetta i ricorsi e condanna i ricorrenti al pagamento delle spese processuali nonchè a rifondere le spese sostenute dalla parte civile liquidate in Euro 2960,00 oltre IVA e CPA. Così deciso in Roma, il 7 maggio 2013.

Redazione