Concordato preventivo: bancarotta impropria e arresto del responsabile amministrativo (Cass. pen. n. 33230/2012)

Redazione 23/08/12
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Cass. pen. Sez. V, Sent., (ud. 18-05-2012) 23-08-2012, n. 33230

Svolgimento del processo

1. Il Tribunale di Milano, con ordinanza del 5 gennaio 2012, ha confermato l’ordinanza del 12 dicembre 2011 con la quale il GIP presso il Tribunale di Milano aveva applicato la misura cautelare personale della detenzione in carcere nei confronti di V. M. indagato, quale Direttore Amministrativo, per alcuni delitti di bancarotta fraudolenta per distrazione in danno della Fondazione San Raffaele del Monte *****, ammessa al concordato preventivo con decreto 27 ottobre 2011 del Tribunale di Milano.

2. Avverso tale ordinanza ha proposto ricorso per cassazione l’indagato, a mezzo dei propri difensori, lamentando:

a) una violazione di legge ed anche dei precetti di cui all’art. 24 Cost. in relazione all’apposizione di alcuni omissis, posta in essere dal P.M. inquirente, sui verbali delle dichiarazioni rese dall’indagato stesso;

b) una violazione di legge anche costituzionale e un vizio di motivazione in ordine alla ritenuta applicabilità delle norme penali in tema di bancarotta al concordato preventivo, a seguito della modifica di cui alla novella della L. n. 80 del 2005;

c) una violazione di legge e un vizio di motivazione in ordine alla sussistenza delle esigenze cautelari nascenti sia dalla tutela della prova che dal pericolo di fuga che, infine, dal pericolo di reiterazione del reato;

d) una illogicità della motivazione in ordine alla ritenuta adeguatezza della misura cautelare personale della detenzione in carcere.

Motivi della decisione

1. Il ricorso non merita accoglimento.

2. Quanto al primo motivo, basta osservare come sia ius receptum di questa Corte di legittimità (v. Cass. Sez. II, 9 febbraio 2006 n. 7610 e Sez. V, 26 ottobre 2011 n. 47080), con ciò escludendosi l’esistenza sia della pretesa nullità che del contrasto con il diritto alla difesa sancito dalla Costituzione, il principio secondo il quale in tema di misure cautelari, pur dopo le modifiche introdotte con la L. 8 agosto 1995, n. 332, l’espressione usata dall’art. 291 c.p.p., richiamato dall’art. 309 c.p.p., comma 5, escluda che il P.M. abbia l’obbligo di porre a disposizione, prima del G.I.P. e poi del Tribunale del riesame, tutti gli atti d’indagine compiuti o, comunque, atti, quali le dichiarazioni accusatorie dei collaboranti o le stesse dichiarazioni dell’indagato nella loro integralità: il termine “elementi” comprende non solo atti integrali, ma anche stralci di essi ed è perfettamente compatibile con l’oscuramento di parte dei verbali con “omissis”, al fine di garantire il segreto che permane in questa fase processuale, nella prospettiva di evitare la compromissione delle indagini “in itinere”.

Questo sistema, che caratterizza la fase delle indagini preliminari, non impedisce il contraddittorio, che comunque può concretamente svilupparsi sulla valutazione dell’entità e della rilevanza degli elementi indiziari posti a base dell’ordinanza impugnata.

3. Quanto al secondo motivo, alla luce di un recente intervento delle Sezioni Unite di questa Corte (v. Cass. Sez. Un. 30 settembre 2010 n. 43428) in tema di modifiche dell’istituto del concordato preventivo e loro incidenza in campo penale devono premettersi alcune considerazioni in punto di diritto.

La compresenza nell’istituto del concordato preventivo di componenti privatistiche e pubblicistiche non può dirsi superata a seguito delle sensibili modifiche della sua disciplina intervenute in anni recenti (in forza, in particolare, del D.L. 14 marzo 2005, n. 35, convertito in L. 14 maggio 2005, n. 80, e del D.Lgs. 12 settembre 2007, n. 169).

Le principali novità progressivamente introdotte sono, innanzitutto, costituite dalla modificazione del presupposto di accesso alla procedura, ora individuato nello stato di crisi dell’impresa, la cui nozione non è stata, peraltro, definita dal legislatore se non per la precisazione contenuta nell’inedito comma 2 del nuovo testo della *******., art. 160, introdotto dal D.L. n. 273 del 2005 (convertito in L. n. 51 del 2006), secondo il cui ultimo comma “per stato di crisi si intende anche lo stato di insolvenza”.

Lo stato d’insolvenza è rimasto, dunque, presupposto della procedura concorsuale, ancorchè la suddetta allargata formula normativa lasci intendere che alta stessa possa accedere anche l’imprenditore che versi in una situazione di difficoltà non ancora identificabile con quella di dissesto.

Il che evoca sia situazioni in cui l’impresa versi nell’impossibilità di adempiere le obbligazioni in scadenza, sia situazioni di squilibrio irreversibile, sia situazioni in cui è agevolmente pronosticabile il verificarsi, nell’immediato, di uno di tali inconvenienti.

Ciò vale, incidenter tantum, a ritenere non condivisibile l’eccezione di non conformità della suddetta normativa al principio di uguaglianza di cui all’art. 3 Cost., sollevata nell’interesse del ricorrente, posto che rientra nei poteri discrezionali del legislatore equiparare quoad poenam situazioni concretamente diverse ma aventi in comune la medesima finalità della tutela dei creditori a fronte dell’attività del debitore non ancora impossibilitato del tutto alla fisiologica estinzione delle proprie obbligazioni.

L’amministrazione controllata aveva, a sua volta, come finalità primaria il risanamento dell’impresa e il ripristino della sua solvibilità o, meglio, il recupero della solvibilità in conseguenza del risanamento dell’impresa, non aveva natura liquidatoria nè effetto immediatamente satisfattivo delle pretese creditorie ma, per così dire, dilatorio, nel senso che il debitore era obbligato a soddisfare integralmente tali pretese dopo la chiusura della procedura, se il risanamento finanziario fosse stato conseguito.

La struttura normativa del concordato preventivo, viceversa, prescinde da qualsiasi idea di necessaria protrazione dell’attività imprenditoriale ed è orientata ad assicurare effetti meramente liquidativi dei crediti attraverso qualsiasi forma ma in misura, di norma, falcidiata.

In secondo luogo, la riforma ha provveduto all’eliminazione, nella *******., art. 160, dei requisiti di meritevolezza per l’ammissione alla procedura, nonchè all’esclusione di qualsiasi sindacato giudiziale sul merito della proposta di concordato preventivo, la cui omologazione, ai sensi del nuovo art. 180 *******., avviene ora per decreto sulla base della mera verifica del raggiungimento delle maggioranze prescritte nell’adunanza dei creditori e della regolarità formale della procedura seguita.

Al debitore viene concessa una più ampia autonomia nella scelta dei contenuti del piano concordatario e la possibilità di suddividere i creditori in classi omogenee, all’interno delle quali devono essere raggiunte autonome maggioranze in sede di deliberazione del concordato, cui proporre anche trattamenti differenziati e viene invece richiesto, dal nuovo testo dell’art. 161 *******., di asseverare la proposta attraverso la relazione di un professionista che attesti la veridicità dei dati aziendali e la fattibilità del piano concordatario.

La continuità tra concordato e fallimento, in qualche modo spezzata dal mutamento del presupposto per l’instaurazione della concorsualità, è stata poi ulteriormente ridimensionata.

Infatti, il D.L. n. 35 del 2005, e la L. n. 80 del 2005, hanno eliminato dalla L. Fall., art. 180, qualsiasi riferimento all’automatismo della conversione del concordato preventivo in fallimento, facendo, però, salve le ipotesi in qualche modo “sanzionatorie” tuttora previste dalla L. Fall., art. 173, affidando la stessa conversione all’iniziativa dei creditori o del Pubblico Ministero, nonchè alla previa verifica dello stato d’insolvenza.

Alla luce del contenuto delle modifiche illustrate, non v’è dubbio che la riforma si sia mossa nella direzione dell’esaltazione del profilo negoziale dell’accordo intervenuto tra l’imprenditore e i suoi creditori e del contestuale ridimensionamento degli aspetti processuali dell’istituto.

La natura del concordato “riformato” appare connotata ormai da una prevalenza di elementi privatistici, che denunciano la volontà di contrarre l’intervento statuale nella procedura anticipatoria, rafforzando invece il ruolo di protagonisti di debitore e creditori.

Da ultimo va ricordato che la L. Fall., art. 236, il cui comma 2, n. 1, estende, in caso di concordato preventivo agli amministratori, direttori generali, sindaci e liquidatori di società le incriminazioni di cui ai precedenti artt. 223 e 224, relativi ai reati propri dei medesimi soggetti, non ha subito, per quanto qui interessa, modifica alcuna.

La lettura del R.D. 16 marzo 1942, n. 267, art. 236, comma 2, n. 1, chiarisce che “nel caso di concordato preventivo, si applicano le disposizioni degli artt. 223 e 224 (della stessa legge) agli amministratori, direttori generali, sindaci e liquidatori di società”.

Norma che, quindi, rende applicabili le disposizioni sulla bancarotta impropria, quella commessa, cioè, dagli amministratori di società, alla ipotesi di concordato preventivo avendo parificato, quanto agli effetti penali, il decreto di ammissione al concordato preventivo alla sentenza dichiarativa di fallimento.

E’, inoltre, giurisprudenza da tempo consolidata che le fattispecie penalmente sanzionate nella formulazione della norma fallimentare, si realizzino indipendentemente dalla eventuale successiva dichiarazione di fallimento: infatti, parificando il decreto di ammissione al concordato preventivo e, prima della recente riforma di cui alla L. 14 maggio 2005, n. 80 ed al D.Lgs. 9 gennaio 2006, n. 5 all’amministrazione controllata, non si è voluto che gravi comportamenti verificatisi prima, e anche in assenza, del fallimento restassero impuniti, sicchè esso viene ad assumere la stessa funzione e a svolgere la stessa efficacia della sentenza dichiarativa di fallimento nelle ipotesi ordinarie di bancarotta (v. di recente, Cass. Sez. V, 18 settembre 2007 n. 39307 e 2 marzo 2011 n. 15061).

Il legislatore, con norma espressa, ha poi consentito, ai soli fini procedimentali, di “anticipare” l’iniziativa del Pubblico Ministero, rispetto ai termini “naturali” propri del diritto penale sostanziale.

La *******., art. 238, comma 2 è, infatti, norma che permette, in deroga a quanto previsto dal precedente comma, uno scollamento tra la consumazione del reato e la sua persecuzione giudiziale.

L’esercizio “anticipato” dell’attività processuale è, comunque, imposta ai Pubblico Ministero, nell’ambito rigidamente circoscritto da tre limitazioni: tipologia della fattispecie, la norma accenna testualmente alla *******., soli artt. 216, 217, 223, 224, riferimento che, per quanto riguarda i casi di restrizione della libertà, non può che avere carattere tassativo; le ipotesi della *******., precedente art. 7, o altro grave motivo; il già esistente o il contemporaneo inoltro dell’istanza di fallimento.

La norma, come riconosciuto dall’unanime dottrina, rappresenta una deroga ai principi generali, consentendo l’esercizio della attività repressiva penale prima della dichiarazione di fallimento e, quindi, per quanti aderiscono alla giurisprudenza di questa Corte di Cassazione, in epoca antecedente alla consumazione del delitto.

La ragione della disposizione è agevolmente rinvenibile nella esigenza di interrompere comportamenti la cui protrazione, alla luce della già maturata insolvenza, renda definitivo o più dannoso l’esito della condotta delittuosa, atteso quello che si prospetta come inevitabile ed imminente perfezionamento del momento consumativo.

Da tanto discende che il legislatore ha dato rilevanza, per i limitati, ma per nulla irrilevanti, fini di ordine processuale, non già al fatto illecito, completo in tutti i suoi elementi, bensì anche soltanto a meri profili di probabile lesione agli interessi dei creditori, in seno ad una condotta che è ancora carente del crisma giudiziale dichiarativo dell’insolvenza ed indefettibile premessa alla procedura concorsuale.

Al contempo, questa Corte di Cassazione ha ritenuto ammissibile in siffatto contesto l’emissione di misure cautelari, non avendo evidentemente considerato che la mancata consumazione del delitto si risolvesse in una ostacolo incompatibile con la nozione di “gravi indizi di colpevolezza”, quali richiesti dall’art. 273 c.p.p., comma 1 (v. Cass. Sez. V, 19 dicembre 2005 n. 8363 e 16 aprile 2007 n. 21288).

4. Quanto ai motivi attinenti alle esigenze cautelari, del pari, si rilevano come infondati.

Infatti, anche la sussistenza delle esigenze cautelari è stata logicamente evidenziata nella motivazione dell’impugnata ordinanza e corrisponde ai parametri fissati dalla legge (art. 274 c.p.p.), così come interpretati dalla pacifica giurisprudenza di questa Corte.

Invero, in tema di misure cautelari personali, le tre esigenze cautelari relative al pericolo di inquinamento delle prove, pericolo di fuga e di reiterazione del reato, non devono necessariamente concorrere, bastando anche l’esistenza di una sola di esse per fondare la misura (v. Cass. Sez. VI, 12 dicembre 1995 n. 4829 e da ultimo Sez. V, 18 ottobre 2011 n. 44132).

Nella specie non si ravvisa alcuna motivazione incongrua o irrazionale nell’aver ritenuto sussistenti tutti e tre i fondamenti causali della chiesta misura cautelare e tali accertamenti sono stati vieppiù ispirati alla pacifica giurisprudenza di questa Corte per cui non può richiedersi una rilettura dei fatti così come correttamente interpretati e logicamente giustificati dal Giudice del riesame.

5. Anche l’ultimo motivo di doglianza, relativo all’adeguatezza della disposta misura cautelare personale, non è meritevole di accoglimento in quanto a fronte della corretta motivazione proposta dall’impugnata ordinanza il ricorrente, di converso, evidenzia generiche contestazioni in punto di fatto che, analogamente a quanto dianzi esposto in tema di esigenze cautelari non possono trovare ingresso nel presente giudizio di legittimità.

6. In conclusione, il ricorso deve essere rigettato e il ricorrente condannato al pagamento delle spese processuali.

Devono disporsi, a cura della Cancelleria, gli adempimenti di cui all’art. 94 disp. att. c.p.p., comma 1 ter.

P.Q.M.

La Corte, rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali.

Manda alla Cancelleria per gli adempimenti di cui all’art. 94 disp. att. c.p.p., comma 1 ter.

Redazione