Comunicazione di avvio del procedimento (Cons. Stato n. 3015/2013)

Redazione 31/05/13
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FATTO e DIRITTO

1. Il signor ********** presentava nel 1986 al Comune di Castellabate una istanza di condono, ai sensi della legge n. 47 del 1985, relativa ad un fabbricato sito alla contrada Buonanotte del Comune di Castellabate, in un’area ricadente nel Parco Nazionale del ******* e del Vallo di *****.

Nel corso del procedimento relativo all’esame dell’istanza di condono, il Comune chiedeva il parere del predetto Ente Parco, il quale, con la nota n. 7679 del 19 maggio 2011, disponeva che l’istanza presentata dal signor A. andasse integrata da ulteriore documentazione.

2. Con il ricorso n. 1521 del 2011 proposto al Tribunale amministrativo regionale per la Campania il ********* chiedeva l’annullamento della nota dell’Ente Parco Nazionale del ******* e del Vallo di ***** n. 7679 del 2011, deducendo, inter alia, che l’autorità preposta alla tutela del vincolo non doveva rendere il proprio parere, in quanto sull’area erano stati apposti vincoli di inedificabilità sopravvenuti rispetto alla data di realizzazione dell’abuso.

3. Con la sentenza n. 1763 del 2012 il Tar per la Campania accoglieva il predetto ricorso, rilevando che:

– il comma 43 bis dell’articolo 32 del d.l. n. 269 del 2003, come convertito dalla legge n. 326 del 2003, (per il quale “le modifiche apportate con il presente articolo concernenti l’applicazione delle leggi 28 febbraio 1985, n. 47, e 23 dicembre 1994, n. 724, non si applicano alle domande già presentate ai sensi della predetta legge”) avrebbe la finalità di non rendere utilizzabile per le domande di condono edilizio, presentate ai sensi delle predette leggi n. 47 del 1985 e n. 724 del 1994, l’articolo 32 della legge n. 47 del 1985, così come riscritto dallo stesso d.l. n. 269 del 2003, convertito nella legge n. 326 del 2003, elidendo in radice l’applicazione del principio “tempus regit actum”;

– la domanda di condono, pertanto, non andrebbe esaminata tenendo conto della normativa vigente al momento della conclusione del procedimento amministrativo;

– la domanda di condono andrebbe, conseguentemente, esaminata in base alla disciplina che sarebbe stata comunque vigente ove la nuova disposizione non fosse stata introdotta e cioè in base a quanto previsto dalla legge n. 662 del 23 dicembre 1996 che, aggiungendo un terzo comma all’art. 32 della legge n. 47 del 1985, aveva stabilito che il parere delle amministrazioni preposte alla tutela del vincolo fosse dovuto solo qualora il vincolo stesso fosse stato istituito prima dell’abuso.

4. Avverso detta sentenza l’Ente Parco Nazionale del ******* e del Vallo di ***** ha proposto appello, rilevando l’erroneità della interpretazione che il giudice di primo grado ha dato del vigente quadro normativo.

Ad avviso dell’Amministrazione appellante, il sopra richiA. comma 43 bis va inteso nel senso che solo per le domande di condono presentate sulla base della “terza normativa sul condono” vanno applicate le disposizioni sostanziali più rigorose previste del d.l. n. 269 del 2003, come convertito dalla legge n. 326 del 2003, mentre nulla è stato innovato con tale normativa, rispetto alla regola generale per la quale la domanda di condono va esaminata tenendo conto della sopravvenienza dei vincoli, rispetto alla data di ultimazione dell’abuso.

4.1. Con la memoria di costituzione del 14 maggio 2013, il signor A. ha rilevato la correttezza della ricostruzione normativa operata dal giudice di primo grado relativamente all’art. 32, comma 43 bis del d.l. n. 269 del 2003, convertito nella legge n. 326 del 2003, contestando la fondatezza e l’ammissibilità dell’appello ed ha, altresì, riproposto i motivi dedotti nel ricorso di primo grado avverso la nota dell’Ente Parco n. 7679 del 19 maggio 2011.

5. All’udienza del 17 maggio 2013 il Presidente del Collegio ha rilevato, dandone avviso alle parti presenti, la sussistenza di tutti i presupposti per definire con sentenza il giudizio di secondo grado, avendo il Collegio, peraltro, ritenuto sufficienti gli atti acquisiti in questo grado del giudizio.

6. Preliminarmente il Collegio osserva che la censura relativa alla fondatezza ed ammissibilità dell’appello non sia condivisibile in quanto l’appello medesimo, prescindendo dall’errore di carattere formale in esso contenuto, risulta conferente con la decisione contenuta nella sentenza impugnata

7. Ciò posto, l’appello dell’Amministrazione risulta fondato e va accolto.

Il Collegio osserva che, con la propria sentenza n. 2367 del 30 aprile 2013, è stata decisa una fattispecie analoga a quella di cui è causa.

In tale circostanza il Collegio ha ribadito che, in base alla pacifica giurisprudenza (consolidatasi a seguito della sentenza dell’Adunanza Plenaria n. 20 del 1999), il quadro normativo riconducibile alle disposizioni dei primi due condoni (di cui alle leggi n. 47 del 1985 e n. 724 del 1994) va inteso nel senso che, se nel corso del procedimento di esame della domanda di condono entra in vigore una normativa o è emesso un provvedimento, che determina la sopravvenienza di un vincolo di protezione dell’area in questione, l’autorità competente ad esaminare l’istanza di condono deve acquisire il parere della autorità preposta alla tutela del “vincolo sopravvenuto”, che deve pronunciarsi tenendo conto del quadro normativo vigente al momento in cui esercita i propri poteri consultivi (Cons. di Stato, Sez. VI, 30 aprile 2013, n. 2367).

Nella predetta sentenza il Collegio ha, altresì, rilevato che “tale regola […] risulta del tutto condivisibile, poiché – con la disposizione o con l’atto amministrativo sopravvenuto – l’area è specificamente sottoposta ad un regime giuridico di protezione, rispetto al quale va valutata l’incidenza dell’abuso commesso.

Contrariamente a quanto rilevato nella sentenza impugnata, il sopra richiA. comma 43 bis va interpretato tenendo conto della complessiva normativa introdotta col c.d. terzo condono edilizio, di cui al d.l. n. 269 del 2003, come convertito nella legge n. 326 del 2003.

Come è noto, la normativa sul terzo condono ha previsto più rigorosi limiti – sotto vari profili – per l’accoglibilità delle domande, rispetto alle previsioni di cui alle leggi che hanno consentito i due primi condoni.

In assenza dell’art. 32, comma 43 bis del d.l. n. 269 del 2003, come convertito nella legge n. 326 del 2003, in sede interpretativa si sarebbe dovuto ritenere che – a seguito dell’entrata in vigore della normativa “più restrittiva” sul terzo condono e della abrogazione delle disposizioni “più favorevoli” agli autori degli abusi, contenute nelle leggi sui primi due condoni – le disposizioni sostanziali sopravvenute più restrittive si sarebbero dovute applicare anche in sede di valutazione delle domande di condono proposte in base alle leggi n. 47 del 1985 e n. 724 del 1994, in applicazione del principio tempus regit actum (per il quale una domanda di sanatoria, tranne i casi in cui la legge esiga la c.d. doppia conformità, va esaminata tenendo conto della situazione di fatto e di quella di diritto sussistente alla data in cui è definito il procedimento).

Per evitare tale conseguenza, e cioè per consentire la perdurante applicabilità della normativa sostanziale più favorevole prevista dalle leggi sui primi due condoni (malgrado la “stretta” decisa dal legislatore del 2003, sulla base della sua discrezionalità, in considerazione delle esigenze di salvaguardia del territorio), il sopra richiA. art. 32, comma 43 bis, ha dunque disposto che le istanze di condono – presentate in base alle prime due leggi del 1985 e del 1994 – continuassero a dover essere esaminate sulla base della normativa sostanziale anteriore a quella (più restrittiva) contenuta nella legge n. 326 del 2003: in tal modo, l’art. 32, comma 43 bis, nulla ha innovato sul quadro normativo riconducibile alle leggi sui due primi condoni, come interpretato dalla Adunanza Plenaria di questo Consiglio n. 20 del 1999.

D’altra parte, sarebbe stata palesemente incostituzionale (per contrasto con gli artt. 3, 9 e 117, secondo comma, Cost.) una disposizione statale che avesse inteso porre nel nulla i poteri consultivi delle autorità preposte alla tutela del vincolo, il cui esercizio era stato a lungo impedito dalla inerzia degli enti locali.

Pertanto, il medesimo comma 43 bis non ha affatto inciso sui poteri delle autorità preposte alla tutela dei vincoli, imposti con legge o con atto amministrativo in un’area sulla quale è stato in precedenza commesso un abuso edilizio, né ha inciso sul loro dovere di constatare la presenza del vincolo di inedificabilità assoluta (con cui la disposizione di legge o l’atto amministrativo hanno imposto l’immodificabilità dei luoghi e dunque la insanabilità degli abusi ancora esistenti)”.

8. Per quanto sin qui esposto l’appello è da considerarsi fondato e va, pertanto, accolto e, conseguentemente, in riforma della sentenza impugnata, va respinto il motivo del ricorso di primo grado accolto dal TAR.

9. Deve pertanto passarsi all’esame delle censure assorbite dal TAR e riproposte in questa sede dall’appellato.

10. Con il primo motivo di primo grado, l’appellato ha lamentato “l’illegittimità della determinazione di ritenere necessaria l’emissione del parere da parte del citato Ente (Parco del Cilento e del Vallo di Diano)”.

Osserva il Collegio che, per quanto in precedenza rilevato in merito alla necessità, nel caso di specie, di acquisire il parere dell’Ente preposto alla tutela del vincolo, il motivo è infondato sotto tutti i profili esposti.

Non rileva la considerazione dell’appellato, secondo cui l’immobile de quo sarebbe “presente sul territorio da oltre 40 anni”, né la circostanza che quest’ultimo sarebbe risultato “già completo nella sua conformazione” al momento della richiesta di parere formulata dal Comune di Castellabate all’Ente Parco del Cilento e del Vallo di *****.

Entrambe le predette considerazioni, infatti, non assumono particolare pregio rispetto a quanto precedentemente rilevato in merito all’indispensabilità, in base alla normativa vigente, del parere dell’Ente Parco.

11. Con il secondo motivo di primo grado, il signor A. ha lamentato l’assenza della comunicazione di avvio del procedimento ai sensi dell’art. 7 della legge n. 241 del 1990, con la conseguenza che gli sarebbe stata impedita la partecipazione al procedimento medesimo.

11.1. Il motivo è infondato per un duplice ordine di ragioni.

In primo luogo, il procedimento amministrativo non si è concluso con l’atto impugnato in primo grado, che ha riguardato una fase in cui l’Amministrazione appellante ha rappresentato al Comune di Castellabate quali atti dovevano essere prodotti, per l’acquisizione del suo parere: a suo tempo, e ove al termine del procedimento risulteranno i presupposti per la reiezione dell’istanza, potrà esservi la previa comunicazione del preavviso di rigetto ai sensi dell’art. 10 bis (articolo da ritenere applicabile, in luogo dell’art. 7, invocato dall’appellato, ma riferibile ai diversi casi in cui l’Amministrazione attivi d’ufficio un procedimento).

In secondo luogo, osserva il Collegio che, in base ad un consolidato e condivisibile orientamento giurisprudenziale, “le norme sulla partecipazione del privato al procedimento amministrativo non vanno applicate meccanicamente e formalmente, nel senso che occorra annullare ogni procedimento in cui sia mancata la fase partecipativa, dovendosi piuttosto interpretare nel senso che la comunicazione è superflua, con prevalenza dei principi di economicità e speditezza dell’azione amministrativa, […] tutte le volte che la conoscenza sia comunque intervenuta, sì da ritenere già raggiunto in concreto lo scopo cui tende” la comunicazione prevista dall’art. 7 della legge n. 241 del 1990 (ex plurimis: Cons. di Stato, Sez. IV, 17 settembre 2012, n. 4925 e 18 aprile 2012, n. 2286), ciò che può pure rilevarsi quando il richiedente abbia avuto notizia delle ragioni ostative all’accoglimento di una istanza.

Orbene dagli atti di causa emerge come, nel caso di cui trattasi, l’Amministrazione abbia posto in essere atti che hanno consentito all’interessato di conoscere la situazione, ponendolo nella condizione di influire sul contenuto del provvedimento: in data 6 giugno 2011, infatti, il Comune di Castellabate ha inviato al signor A. la nota n. 12190 cui era allegata la richiesta di integrazione documentale n. 7679 del 2011 dell’Ente Parco, relativa al procedimento de quo.

Ne deriva che l’odierno appellato è stato posto nella condizione di potervi partecipare.

A quanto esposto va, peraltro, aggiunto che, avverso la citata richiesta d’integrazione documentale, il signor A. ha proposto, in termini, il ricorso giurisdizionale n. 1521 del 2011 con la conseguenza che il lamentato vizio di omessa comunicazione di avvio del procedimento deve, in ogni caso, ritenersi insussistente.

12. Con il terzo motivo l’appellato ha lamentato “l’assoluta incertezza” circa l’identificazione della paternità dell’atto impugnato, che risulta firmato da tre differenti soggetti (Responsabile dell’Area, Responsabile del Procedimento e Responsabile del Servizio), nonché l’incompetenza dei soggetti firmatari.

12.1. Il motivo è infondato.

Osserva il Collegio, infatti, che dagli atti di cui è causa risulta che l’impugnato provvedimento d’integrazione documentale sia stato, correttamente, firmato dal Responsabile del Procedimento in esame a norma dell’art. 4 della legge n. 241 del 1990, nella parte in cui prevede che “ove non sia già direttamente stabilito per legge o per regolamento, le pubbliche amministrazioni sono tenute a determinare per ciascun tipo di procedimento relativo ad atti di loro competenza l’unità organizzativa responsabile della istruttoria e di ogni altro adempimento procedimentale, nonché dell’adozione del provvedimento finale”.

A quanto esposto non può, peraltro, opporsi il rilievo che il provvedimento sarebbe, altresì, firmato da altri due soggetti, con la conseguenza che non sarebbe individuabile la paternità dell’atto impugnato.

Il citato provvedimento, infatti, risulta firmato dal Responsabile del Procedimento, con la conseguenza che non vi può essere alcuna incertezza in merito all’individuazione, in capo a quest’ultimo, della paternità della richiesta di integrazione documentale n. 7679 del 2011.

13. Con il quarto motivo dell’appello il signor A. ha lamentato l’inapplicabilità alla fattispecie di cui è causa dell’art. 8, comma 8 delle NTA del vigente Piano del Parco.

Secondo l’appellato, infatti, il citato articolo potrebbe trovare applicazione esclusivamente nei confronti degli edifici di nuova costruzione, con la conseguenza che tale normativa non riguarderebbe l’immobile de quo, esistente sul territorio “da oltre 40 anni”.

13.1. Il motivo è infondato.

L’art. 8, comma 8 delle NTA del Piano del Parco dispone che “nelle zone C1 e C2 la costruzione di nuovi edifici e ogni intervento edilizio eccedente quanto previsto alle lettere a, b, c, dell’art. 31 l. n. 457 del 1978, fatti salvi gli interventi di ricostruzione di immobili danneggiati dai sismi di cui alla l. n. 219 del 1981, sono ammessi solo in funzione degli usi agricoli, agrituristici nonché della residenza dell’imprenditore agricolo, nei limiti delle esigenze adeguatamente dimostrate e di quanto stabilito della l.r. 14 del 1982”.

Tale disposizione prevede, quindi, che, nelle zone C1 e C2 del Parco del Cilento e del Vallo di *****, ove ricade l’immobile di proprietà del signor A., non possano essere costruiti nuovi edifici né – differentemente da quanto rilevato dal medesimo appellato – posti in essere interventi eccedenti la manutenzione ordinaria, la manutenzione straordinaria, il restauro ed il risanamento conservativo, qualora non avvengano a fini agricoli, agrituristici o per la residenza dell’imprenditore agricolo.

Orbene, nel caso di specie, risulta dagli atti di causa che l’intervento abusivo posto in essere dall’appellato consista nell’ampliamento e nella sopraelevazione dell’immobile de quo: tale intervento, quindi, eccede la manutenzione ordinaria, la manutenzione straordinaria, il restauro ed il risanamento conservativo di cui alle lettere “a, b, c dell’art. 31 l. n. 457 del 1978”, con la conseguenza che risulta applicabile alla fattispecie in esame il disposto dell’art. 8, comma 8 delle NTA del Piano del Parco.

E comunque le disposizioni che riguardano ciò che è consentito realizzare e ciò che è vietato riguardano non solo le iniziative successive all’emanazione del Piano del Parco, ma proprio ciò che può esistere o meno nell’ambito del relativo territorio, con la conseguenza che l’Amministrazione deve tenere conto delle sue previsioni, per individuare ciò che non può essere sanato.

A quanto esposto non può, peraltro, opporsi la considerazione che l’applicazione dell’articolo da ultimo citato comporterebbe l’illegittimità dell’atto impugnato per eccesso di potere sotto il profilo della confusione con l’iter procedimentale del condono: da quanto precede deriva, infatti, che l’Ente Parco ha correttamente applicato il citato art. 8, comma 8 delle NTA del Piano del Parco limitandosi a valutare la compatibilità ambientale dell’intervento oggetto del parere richiestogli dal Comune di Castellabate, con la conseguenza che in detto comportamento non risulta sussistere alcun vizio di eccesso di potere.

14. Per quanto sin qui esposto le censure proposte dal signor A. sono da considerarsi infondate e vanno, pertanto, respinte.

15. Il Collegio ritiene che i particolari profili della causa consentano la compensazione delle spese del doppio grado di giudizio.

P.Q.M.

Il Consiglio di Stato, in sede giurisdizionale (Sezione Sesta), definitivamente pronunciando sull’appello (ricorso n. 2797 del 2013), come in epigrafe proposto, lo accoglie e, per l’effetto, previa reiezione delle censure assorbite in primo grado e riproposte dall’appellato, in riforma della sentenza impugnata respinge il ricorso di primo grado.

Compensa fra le parti le spese del doppio grado di giudizio.

Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall’autorità amministrativa.

Così deciso in Roma nella camera di consiglio del giorno 17 maggio 2013

Redazione