Colpevole di concorso esterno in associazione mafiosa l’imprenditore che si avvale della collaborazione del clan

Redazione 15/07/13
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Svolgimento del processo

1. Con sentenza del 22 dicembre 2008 la Corte d’appello di Palermo ha riformato la sentenza del G.u.p. del Tribunale di Palermo in data 26 novembre 2004, riducendo la pena irrogata ad O.T. per il delitto di cui agli artt. 110 e 416 bis c.p. – così qualificata all’esito del giudizio di primo grado l’originaria imputazione relativa al reato di partecipazione all’associazione mafiosa denominata “cosa nostra”, ascrittogli al capo sub 4) e commesso in (omissis) ed altre località del territorio nazionale sino al (omissis) – ad anni tre di reclusione, confermando nel resto l’impugnata sentenza, ivi comprese le statuizioni civili nei suoi confronti pronunciate, con la condanna alla rifusione delle spese sostenute dalle costituite parti civili, ossia dalla Provincia di (omissis) e dal Comune di (omissis).

2. All’esito del giudizio di primo grado l’ O. era stato condannato, previa concessione delle attenuanti generiche e con la riduzione prevista per il rito abbreviato, alla pena di anni quattro di reclusione, con le connesse sanzioni dell’interdizione dai pubblici uffici per anni cinque e dell’interdizione legale durante il periodo di detenzione. Nei suoi confronti, inoltre, era stato dichiarato non doversi procedere per il reato di cui all’art. 314 c.p., comma 2, (ascrittogli al capo d’imputazione sub 5), estinto per intervenuta prescrizione, ed era stata pronunciata sentenza assolutoria ex art. 530 c.p.p., comma 2, per il reato di cui all’art. 110 c.p., art. 353 c.p., comma 2, aggravato dal D.L. n. 152 del 1991, art. 7, e per quello di cui agli artt. 110 e 640 bis c.p., aggravato come sopra rispettivamente ascrittigli ai capi d’imputazione sub 7) e 9), per non avere commesso i fatti.

3. Avverso la sentenza pronunciata dalla Corte d’appello di Palermo in data 22 dicembre 2008 ha proposto ricorso per cassazione il difensore di fiducia di O.T., deducendo tre motivi di doglianza il cui contenuto viene qui di seguito sinteticamente riassunto.

3.1. Violazione dell’art. 606 c.p.p., lett. b), c) ed e), in relazione all’art. 192, comma 3, c.p.p., ed agli artt. 110 e 416 bis c.p., non avendo l’impugnata pronunzia correttamente indicato gli elementi determinanti nella ricostruzione delle vicende relative alle gare di appalto oggetto di contestazione, così come riferite dai collaboratori di giustizia, nonchè per avere omesso di motivare circa le palesi antinomie e le diverse indicazioni dai predetti collaboratori fornite. Le notevoli divergenze tra le versioni fornite dai collaboranti, sebbene analiticamente indicate nei motivi di gravame, non consentono dunque di pervenire a quella “verifica incrociata” necessaria per il giudizio di penale responsabilità del ricorrente. Il contributo offerto da S.A., in particolare, oltre a presentare elementi di contraddittorietà interna per il contrasto fra le dichiarazioni rese nel corso dell’interrogatorio del 15 aprile 1988 e quelle successive, non sarebbe stato riscontrato nè dagli altri collaboratori di giustizia, nè dagli accertamenti di P.G. effettuati proprio sugli appalti oggetto della sua narrazione.

Nè da tali dichiarazioni sarebbero stati ricavati elementi certi in merito all’effettivo ruolo svolto dall’ O., la cui cooperativa, peraltro, negli anni compresi tra il 1989 ed il 1990 non avrebbe ricevuto un incremento di lavoro. Anche le dichiarazioni rese dagli altri collaboratori, del resto, risulterebbero meramente indiziarie e generiche, come tali inidonee ad individuare condotte dell’imputato specificamente e consapevolmente dirette ad offrire un contributo per il rafforzamento dell’associazione mafiosa.

3.2. Violazione dell’art. 606 c.p.p., lett. b), c) ed e), in relazione all’art. 125 c.p.p., comma 3, avendo l’impugnata pronuncia impostato il suo ragionamento sulla sola base delle deposizioni testimoniali, ignorando le argomentazioni svolte dalla difesa sia in sede di proposizione dell’atto di gravame, che in sede di conclusioni. La motivazione risulterebbe inoltre illogica laddove desume la penale responsabilità del ricorrente dalla mera circostanza di essere stato contattato dal S., persona vicina a “cosa nostra”, le cui dichiarazioni, tuttavia, si risolverebbero in mere asserzioni prive di alcuna verifica empirica.

3.3. Violazione dell’art. 606 c.p.p., lett. b), c) ed e), in relazione all’art. 416 bis c.p., commi 4 e 6, risultando, per un verso, indimostrati i presupposti fattuali per l’applicazione dell’aggravante relativa alla disponibilità di armi in capo al sodalizio criminale, e, per altro verso, omessa la motivazione riguardo all’aggravante di cui al sesto comma della disposizione sopra citata, ritenuta sussistente soltanto sulla base di un’imputazione puramente oggettiva, in violazione del disposto di cui all’art. 59 c.p., come novellato dalla L. n. 19 del 1990.

Motivi della decisione

4. Il ricorso è inammissibile, in quanto non è volto a rilevare mancanze argomentative ed illogicità ictu oculi percepibili, bensì ad ottenere un non consentito sindacato su scelte valutative compiutamente giustificate dal giudice di appello, che ha adeguatamente ricostruito la vicenda storico-fattuale oggetto dell’imputazione.

Nel caso portato alla cognizione di questa Suprema Corte, in particolare, ci si trova dinanzi a due pronunce, di primo e di secondo grado, che sostanzialmente concordano nell’analisi e nella valutazione degli elementi di prova posti a fondamento delle conformi rispettive decisioni, con una struttura motivazionale della sentenza di appello che viene a saldarsi perfettamente con quella precedente, sì da costituire un corpo argomentativo uniforme e privo di lacune (Sez. 2, n. 11220 del 13/11/1997, dep. 05/12/1997, Rv. 209145), avuto riguardo al fatto che l’impugnata pronunzia ha comunque offerto una congrua e ragionevole giustificazione del giudizio di colpevolezza formulato nei confronti del ricorrente, puntualmente replicando alle deduzioni ed ai rilievi svolti dalla difesa.

Ne discende, secondo la linea interpretativa in questa Sede da tempo tracciata, che l’esito del giudizio di responsabilità non può essere invalidato da prospettazioni di tipo alternativo, risolventisi in una “mirata rilettura” degli elementi di fatto posti a fondamento della decisione, ovvero nell’autonoma assunzione di nuovi e diversi parametri di ricostruzione e valutazione dei fatti, da preferirsi a quelli adottati dal giudice del merito, perchè illustrati come maggiormente plausibili, o perchè assertivamente dotati di una migliore capacità esplicativa, nel contesto storico-fattuale in cui la condotta delittuosa si è in concreto esplicata (Sez. 6, n. 22256 del 26/04/2006, dep. 23/06/2006, Rv. 234148; Sez. 1, n. 42369 del 16/11/2006, dep. 28/12/2006, Rv. 235507).

Nel caso di specie, inoltre, l’adeguatezza della motivazione dell’impugnata sentenza non è stata validamente censurata dal ricorrente, che si è limitato a riproporre, per lo più, una serie di obiezioni già esaustivamente disattese dai Giudici di merito ed a formulare critiche sulle valutazioni espresse in ordine al materiale probatorio sottoposto alla loro cognizione, prospettandone, tuttavia, una diversa ed alternativa lettura, in questa Sede evidentemente non assoggettabile ad alcun tipo di verifica, per quanto sopra evidenziato.

Il tessuto motivazionale della sentenza in esame, dunque, non presenta affatto quegli aspetti di carenza, contraddittorietà o macroscopica illogicità del ragionamento del giudice di merito che, alla stregua del consolidato insegnamento giurisprudenziale da questa Corte elaborato, potrebbero indurre a ritenere sussistente il vizio di cui all’art. 606 c.p.p., comma 1, lett. e), (anche nella sua nuova formulazione), nel quale sostanzialmente si risolvono le censure dal ricorrente articolate.

5. Per quel che attiene, in particolare, ai primi due profili di doglianza, dalla motivazione dell’impugnata pronuncia, il cui contenuto viene dunque a saldarsi con l’impianto argomentativo che sorregge la decisione assunta dal Giudice di primo grado, risulta con chiarezza come la Corte territoriale abbia, con il supporto di una congrua e lineare esposizione logico-argomentativa, criticamente preso in esame tutte le deduzioni difensive, giustificando la valutazione di responsabilità dell’imputato sulla base delle numerose emergenze probatorie affiorate dall’attività istruttoria ivi espletata – ed in particolare, delle convergenti dichiarazioni dei collaboratori di giustizia e delle risultanze degli accertamenti tecnici svolti dagli organi investigativi relativamente alle gare per il restauro del castello di (omissis) e per la costruzione di un edificio scolastico a (omissis) – dalle quali è emersa l’esistenza di un rapporto di consapevole e volontaria collaborazione dell’imputato con l’organizzazione mafiosa denominata “cosa nostra”, attraverso un’attività di illecita interferenza nell’aggiudicazione degli appalti pubblici, con reciproco vantaggio costituito, per l’imputato, dal conseguimento di commesse, e per il consorzio criminoso dal rafforzamento della propria capacità di influenza nello specifico settore imprenditoriale, con possibilità di indirizzarne le risorse al proprio interno, e dunque di accrescere, in definitiva, le proprie risorse economiche.

Al riguardo, inoltre, i Giudici di merito hanno compiutamente esaminato le dettagliate dichiarazioni accusatorie rese da S. A. e da numerosi altri collaboratori di giustizia, e ne hanno con precisione individuato i relativi riscontri esterni, ponendo in rilievo come il loro contenuto univocamente converga nel senso di indicare l’ O. quale persona che, senza essere inserita nella struttura organizzativa del sodalizio criminale, ha operato nell’ambito del sistema di gestione e spartizione degli appalti pubblici d’intesa con esponenti mafiosi o imprenditori collegati all’associazione mafiosa capeggiata da ****, offrendo la sua disponibilità al mantenimento di tale sistema attraverso un’attività di collaborazione nell’aggiudicazione delle licitazioni ad imprese precedentemente individuate, fornendo offerte di comodo e concorrendo – ad es., per quel che attiene all’espletamento della su citata gara d’appalto per i lavori di costruzione del liceo scientifico di (omissis) – nella fase della turbativa che ha riguardato il controllo delle offerte presentate da alcune delle imprese partecipanti, “che non erano manovrabili”, per adeguare al loro contenuto quella proveniente dalla sua impresa cooperativa.

In relazione ai profili or ora evidenziati la Corte d’appello, muovendo dai quadro di principii ormai da tempo delineato dalla giurisprudenza di questa Suprema Corte, ha correttamente qualificato la condotta posta in essere dall’imputato sussumendola nella categoria delle attività di “collusione” dell’imprenditore entrato in un rapporto sinallagmatico di cointeressenza con la cosca mafiosa, tale da produrre vantaggi (ingiusti in quanto garantiti dall’apparato strumentale mafioso) per entrambi i contraenti e tale da consentire, in particolare, al primo di imporsi sul territorio in posizione dominante grazie all’ausilio del sodalizio, il cui apparato intimidatorio si è reso disponibile a sostenerne l’espansione degli affari, in cambio della sua disponibilità a fornire risorse, servizi o comunque utilità al sodalizio medesimo. Si tratta, dunque, di una situazione che l’impugnata pronunzia ha ritenuto ragionevolmente indicativa della sussistenza di una condotta di concorso esterno, e non di partecipazione all’associazione mafiosa, poichè il soggetto – privo dell’affectio societatis e non essendo inserito nella struttura organizzativa dell’ente – si è limitato ad agire dall’esterno con la consapevolezza e la volontà di fornire un contributo causale alla conservazione o al rafforzamento dell’associazione, nonchè alla realizzazione, anche parziale, del suo programma criminoso (Sez. 1, n. 46552 del 11/10/2005, dep. 20/12/2005, Rv. 232963; Sez. 5, n. 39042 del 01/10/2008, dep. 16/10/2008, Rv. 242318).

6. Manifestamente infondato, altresì, deve ritenersi il terzo motivo di ricorso, ove si consideri che la Corte di merito ha correttamente applicato, al riguardo, il pacifico insegnamento giurisprudenziale in questa Sede da tempo elaborato, secondo cui hanno natura oggettiva le circostanze aggravanti del reato di associazione di tipo mafioso, consistenti nell’avere l’associazione la disponibilità di armi e nella destinazione del prezzo, prodotto o profitto dei delitti al finanziamento delle attività economiche di cui gli associati intendano assumere o mantenere il controllo, sicchè dette circostanze devono essere propriamente riferite all’attività dell’associazione e non alla condotta del singolo partecipe. Le menzionate aggravanti vanno dunque applicate anche al concorrente esterno consapevole dei fatti oggetto delle medesime o che per colpa le ignori (da ultimo, Sez. 6, n. 42385 del 15/10/2009, dep. 04/11/2009, Rv. 244904; Sez. 6, n. 7707 del 04/12/2003, dep. 23/02/2004, Rv. 229769; Sez. 6, n. 6547 del 10/10/2011, dep. 17/02/2012, Rv. 252114, Sez. 5, n. 12251 del 25/01/2012, dep. 02/04/2012, Rv. 252172).

7. La Corte d’appello, pertanto, ha compiutamente esposto le ragioni per le quali ha ritenuto sussistenti gli elementi richiesti per la configurazione del delitto de quo, ed ha evidenziato al riguardo gli aspetti maggiormente significativi, dai quali ha tratto la conclusione che la ricostruzione della difesa era in realtà priva di ogni aggancio probatorio e si poneva solo quale mera ipotesi alternativa, peraltro smentita dal complesso degli elementi di prova processualmente acquisiti.

La conclusione cui è pervenuta la sentenza impugnata riposa, in definitiva, su un quadro probatorio giudicato completo ed univoco, e come tale in nessun modo censurabile sotto il profilo della congruità e della correttezza logica.

In questa Sede, invero, a fronte di una corretta ricostruzione del compendio storico-fattuale, sì come ampiamente descritta in narrativa, non può ritenersi ammessa alcuna incursione nelle risultanze processuali per giungere a diverse ipotesi ricostruttive dei fatti oggetto della regiudicanda, dovendo la Corte di legittimità limitarsi a ripercorrere il tracciato argomentativo svolto dai giudice di merito in modo da verificarne la completezza e la insussistenza di vizi logici ictu oculi percepibili, senza alcuna possibilità di verifica della rispondenza della motivazione alle acquisizioni processuali.

8. Il ricorso è dunque inammissibile ed il ricorrente, a norma dell’art. 616 c.p.p., va condannato al pagamento delle spese del procedimento ed al versamento di una somma, che si ritiene equo determinare nella misura di Euro 1.000,00, in favore della Cassa delle ammende.

P.Q.M.

dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di Euro 1.000,00 in favore della Cassa delle ammende.

Così deciso in Roma, il 18 aprile 2013.

Redazione