Cessione fittizia di un ramo d’azienda: reintegra dei lavoratori trasferiti (Cass. n. 20422/2012)

Redazione 21/11/12
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Svolgimento del processo

Con sentenza depositata il 6.11.09 la Corte d’appello di Milano rigettava il gravame interposto da Telecom Italia S.p.A. contro la sentenza n. 3227/07 del Tribunale della stessa sede che aveva dichiarato l’inefficacia nei confronti di A.L., + altri omessi del trasferimento di ramo d’azienda dalla predetta società a *************** e la sussistenza fra le parti d’un rapporto di lavoro subordinato, con ordine a carico della Telecom di reintegrare i summenzionati lavoratori nel posto di lavoro.

Per la cassazione di tale sentenza ricorre Telecom Italia S.p.A. affidandosi a cinque motivi.

I summenzionati lavoratori (ad eccezione di P.A., che è rimasta intimata) resistono con controricorso, poi ulteriormente illustrato da memoria ex art. 378 c.p.c..

Motivi della decisione

Preliminarmente si ribadisce l’inaccoglibilità dell’istanza di rinvio a fini di eventuale riunione o trattazione nella medesima udienza – presentata dalla società ricorrente solo il 20.9.12 – in relazione ad altra causa pendente innanzi a questa S.C. per l’udienza del 31.10.12 (causa che avrebbe ad oggetto analoga questione, relativamente ad altri lavoratori).

Invero, come questa S.C. ha già statuito (cfr. Cass. 1.3.2012 n. 3189; Cass. S.U. 3.11.2008 n. 26373), il rispetto del diritto fondamentale a una ragionevole durata del processo impone al giudice, ai sensi degli artt. 175 e 127 c.p.c., di evitare attività processuali non giustificate dalla struttura dialettica del processo e, in particolare, dal rispetto del principio del contraddittorio, da garanzie di difesa e dal diritto alla partecipazione al processo, in condizioni di parità, dei soggetti nella cui sfera giuridica l’atto finale è destinato a esplicare i propri effetti. Ne deriva che l’istanza per la trattazione congiunta di una pluralità di giudizi relativi alla medesima vicenda, non espressamente contemplata dagli artt. 115 e 82 disp. att. c.p.c., deve essere sorretta da ragioni idonee ad evidenziare i benefici suscettibili di bilanciare gli inevitabili ritardi conseguenti all’accoglimento della richiesta, bilanciamento che va effettuato con particolare rigore nel giudizio di cassazione, caratterizzato da impulso d’ufficio.

Nel caso di specie la società ricorrente non ha chiarito i benefici che avrebbero – in ipotesi – bilanciato il ritardo conseguente all’ipotetico accoglimento dell’istanza, nè ha spiegato se l’altro ricorso – pur attinente alla medesima cessione di ramo d’azienda – è basato su questioni di diritto analoghe a quelle dedotte nella presente sede (in cui si fanno valere anche errores in procedendo e vizio di motivazione, per loro natura definiti dalle peculiarità del singolo giudizio e della singola sentenza).

1- Con il primo motivo si lamenta violazione e falsa applicazione degli artt. 102 e 106 c.p.c., per avere l’impugnata sentenza negato la chiamata in causa di Telepost S.p.A., invano sollecitata anche in primo grado, nonostante che quest’ultima società avesse un chiaro interesse a partecipare al giudizio, rischiando di vedersi improvvisamente sottrarre un cospicuo numero di lavoratori.

Il motivo è infondato.

Infatti, ove un lavoratore, agendo in giudizio, affermi la persistenza del rapporto di lavoro in capo al cedente il ramo d’azienda e neghi il rapporto con il cessionario, non sussiste litisconsorzio necessario ex art. 102 c.p.c., in quanto in siffatta evenienza il lavoratore non deduce in giudizio un rapporto plurisoggettivo nè una situazione di contitolarità, ma tende a conseguire un’utilità rivolgendosi ad un solo soggetto, ossia a quello che reputa essere il vero e unico datore di lavoro; in tal caso, l’accertamento negativo dell’altro rapporto avviene soltanto in via incidentale, senza efficacia di giudicato e senza lesione alcuna dei diritti del cessionario (v. Cass. 8.6.09 n. 13171; nell’analoga ipotesi di azione intesa ad accertare un’intermediazione illecita di manodopera e la sussistenza del rapporto lavorativo con il committente, quale effettivo datore di lavoro, cfr. Cass. S.U. 22.10.02 n. 14897 e successiva conforme giurisprudenza).

Nè giova alla società ricorrente lamentare, in subordine, la mancata autorizzazione alla chiamata in causa ex art. 106 c.p.c., della cessionaria Telepost S.p.A., noto essendo – sempre in virtù di costante giurisprudenza di questa S.C., da cui non v’è motivo di discostarsi – che il provvedimento discrezionale con il quale il giudice autorizza o nega la chiamata in causa di un terzo ad istanza di parte è incensurabile mediante appello o ricorso per cassazione (cfr., per tutte, Cass. 20.12.2005 n. 28227).

2 – Con il secondo motivo si deduce violazione e falsa applicazione dell’art. 100 c.p.c., e artt. 2118 e 2112 c.c., per avere la Corte milanese rigettato l’eccezione di inammissibilità delle domande dei lavoratori C., + altri omessi i cui rapporti di lavoro con Telepost erano già cessati, avendo essi aderito in via transattiva alla procedura di mobilità volontaria promossa da tale azienda, decisione incompatibile – contrariamente a quanto ritenuto dall’impugnata sentenza – con la volontà di proseguire la causa nei confronti di Telecom Italia.

Analoga doglianza è sostanzialmente fatta valere anche con il terzo motivo di ricorso, sotto forma di denuncia di vizio di motivazione.

Tali motivi – da trattarsi congiuntamente perchè connessi – sono infondati.

L’interesse ad agire ex art. 100 c.p.c., è l’interesse ad ottenere concreti ed attuali benefici da una data azione in giudizio.

Altra cosa è l’asserita (in)coerenza o (in)compatibilità delle attività negoziali, di per sè indifferente al concetto di cui all’art. 100 c.p.c., per il semplice che rilievo che, essendo la transazione intercorsa con Telepost res inter alios acta, in quanto tale inidonea ad incidere nella sfera giuridica di Telecom Italia, nulla escludeva che i lavoratori de quìbus conservassero interesse a coltivare la domanda proposta nei confronti della società cedente, con la quale i rapporti erano rimasti – appunto – impregiudicati.

Ma – giova ribadire – a parte ogni considerazione sui motivi e sulla concreta portata della transazione intercorsa fra Telepost e i summenzionati lavoratori (questione non devoluta e neppure suscettibile di essere proposta innanzi a questa S.C., involgendo apprezzamenti di fatto), resta il rilievo che, proprio perchè res inter alios acta, all’odierna ricorrente non giova nè nuoce.

Per tali ragioni non può condividersi l’argomentazione secondo cui, avendo dato le dimissioni da Telepost, i predetti lavoratori avrebbero fatto cessare quello stesso ed unico rapporto lavorativo che prima avevano con Telecom Italia, che quindi non potrebbe più rivivere, assunto – per altro – viziato sia dal supporre l’esistenza fra cedente, cessionario e lavoratori ceduti ex art. 2112 c.c., d’un inscindibile rapporto plurisoggettivo (escluso, invece, alla luce delle considerazioni sopra svolte) sia dal dedurre in premessa quella che – invece – sarebbe la tesi da dimostrare (vale a dire l’efficacia, nei confronti dei lavoratori, dell’impugnato trasferimento di ramo d’azienda e la conseguente prosecuzione del loro rapporto di lavoro in capo a Telepost).

3 – Con il quarto motivo si lamenta violazione e falsa applicazione dell’art. 421 c.p.c., nella parte in cui la Corte territoriale ha ritenuto che correttamente il giudice di prime cure avesse omesso di esercitare i poteri istruttori d’ufficio in considerazione della carenza di pertinenti allegazioni da parte di Telecom Italia in ordine ai requisiti di indipendenza e autonomia del ramo d’azienda trasferito: obietta a riguardo la società ricorrente la doverosità dell’esercizio di tali poteri a fronte di pur significativi elementi di prova articolati nei capitoli di prova testimoniale.

Il motivo è infondato.

Nel rito del lavoro l’esercizio di poteri istruttori d’ufficio, previsto per contemperare il principio dispositivo con quello della ricerca della verità materiale, involge un giudizio di opportunità rimesso al discrezionale apprezzamento del magistrato, incensurabile se correttamente motivato.

In proposito i giudici del merito hanno negato ulteriori approfondimenti istruttori vista l’insufficienza di pertinenti allegazioni da parte di Telecom Italia in ordine ai requisiti di autonomia e indipendenza del ramo d’azienda ceduto, nonchè la mancata contestazione, da parte della società, delle allegazioni in punto di fatto formulate dai lavoratori.

In altre parole, avendo l’impugnata sentenza ritenuto già acclarati i fatti, viene meno il presupposto stesso dei poteri istruttori d’ufficio.

D’altro canto, se – come insegna Cass. S.U. 17.6.04 n. 11353 – il ricorso all’art. 421 c.p.c., non è consentito per ammettere prove intese a sminuire o smentire altre già acquisite e sufficienti ai fini del decidere, a maggior ragione deve negarsene l’uso ove inteso ad aggirare il principio di non contestazione.

4 – Con il quinto motivo ci si duole di violazione e falsa applicazione dell’art. 2112 c.c., avendo la gravata pronuncia erroneamente ritenuto rilevante, ai fini della asserita inconfigurabilità di una cessione di ramo autonomo d’azienda nei sensi di cui all’art. 2112 c.c., l’esiguità dei beni strumentali trasferiti da Telecom Italia a Telepost: obietta a riguardo la società ricorrente che ciò che rileva ai fini del disposto dell’art. 2112 c.c., è non la consistenza patrimoniale del ramo d’azienda ceduto, bensì la sua idoneità funzionale a svolgere un determinato servizio, ancor più considerato che la giurisprudenza della Corte di Giustizia dell’Unione Europea prevede che possa aversi azienda anche in presenza di un’esigua dotazione materiale, purchè vi sia un complesso organizzato di persone e di beni; conclude, infine, il ricorso con il contestare la rilevanza di quelli che i giudici di merito hanno considerato come indici sintomatici dell’assenza d’un legittimo trasferimento d’azienda.

Il motivo è infondato.

Si premetta che l’art. 2112 c.c., presuppone che vengano trasferiti – nella loro funzione unitaria e strumentale e non nella loro autonoma individualità – beni materiali destinati all’esercizio dell’impresa, ovvero strutture a tal fine organizzate (cfr., e pluribus, Cass. 19.8.2009 n. 18385; Cass. 6.6.2007 n. 13270; Cass. 12.7.2002 n. 10193; Cass. 17.10.2005 n. 20012).

E se è vero che un’azienda può comprendere anche beni immateriali (come l’avviamento), nondimeno non può ridursi solo ad essi, giacchè la sua stessa nozione (contenuta nell’art. 2555 c.c.) evoca pur sempre la necessità anche di beni materiali organizzati tra loro in funzione dell’esercizio dell’impresa (di fatto impossibile in totale assenza di strutture fisiche, per quanto esigue).

Sempre in virtù dell’art. 2112 c.c., deve intendersi per ramo autonomo d’azienda, come tale suscettibile di trasferimento, ogni entità economica organizzata in maniera stabile che, in occasione del trasferimento, conservi la propria identità.

Ciò suppone – come questa S.C. ha più volte statuito (v., ex aliis, Cass. 13.10.2009 n. 21697; Cass. 9.10.2009 n. 21481; Cass. 1.2.2008 n. 2489; Cass. 6.6.2007 n. 13270) – una preesistente realtà produttiva funzionalmente autonoma (il requisito della preesistenza al trasferimento è espressamente previsto nell’art. 2112 c.c., comma 5, come sostituito dal D.Lgs. n. 276 del 2003, art. 32, comma 1) e non anche una struttura produttiva creata ad hoc in occasione del trasferimento.

Nel caso in esame i giudici del merito hanno accertato – con motivazione esauriente ed immune da vizi logici o giuridici – l’assenza d’un legittimo trasferimento di ramo d’azienda in ragione della sua creazione fittizia proprio in vista della cessione.

Tale conclusione è stata avvalorata non soltanto dall’inconsistenza dei beni materiali ceduti, intesa come sostanziale inidoneità a consentire lo svolgimento dell’attività produttiva di Telepost S.p.A. (che, in sintesi, avrebbe dovuto gestire la documentazione cartacea di Telecom Italia), ma anche dalla mancanza di autonomi rapporti tra fornitori e Telepost, dalla mancata attribuzione di software e di necessaria strumentazione informatica (che continuavano ad appartenere a Telecom), nonchè dallo svuotamento delle attività che ******** avrebbe dovuto svolgere.

In particolare, i giudici del merito hanno segnalato che i circa 200 lavoratori confluiti nella società cessionaria e distribuiti su tutto il territorio nazionale sono rimasti sforniti di adeguata organizzazione di beni strumentali; che, pur dopo il trasferimento d’azienda, Telecom e Telepost (la seconda operante in immobili ricevuti in comodato gratuito dalla prima) hanno avuto in comune la stessa numerazione progressiva di protocollazione, attività che Telecom ha continuato ad espletare avvalendosi della propria procedura informatica, la stessa data in uso a Telepost; che nell’agosto 2006, in occasione del trasferimento del personale Telepost dalla sede di via (omissis) a quella di via (omissis), si è verificato per 48 ore un blocco dell’attività per il collegamento dei terminali al server centrale di Telecom; che per accedere al sistema SIGEC – cioè la procedura informatizzata di Telepost, che coincide con quella utilizzata in Telecom dal 2005 – bisogna prima accedere alla rete Intranet di Telecom etc. In breve, da una lunga a specifica serie di indici sintomatici i giudici del merito hanno accertato il carattere meramente fittizio della cessione di ramo d’azienda.

L’obiezione della società ricorrente – secondo cui basta che il complesso dei beni trasferito sia funzionalmente idoneo a svolgere un determinato servizio, anche perchè la giurisprudenza della Corte di Giustizia dell’Unione Europea prevede che possa aversi azienda pur in presenza di un’esigua dotazione materiale – non è conferente perchè è proprio tale idoneità ad essere stata motivatamente negata dall’impugnata sentenza. Anzi, la Corte territoriale ha evidenziato che nemmeno i lavoratori coinvolti dal trasferimento risultavano costituire un gruppo coeso per professionalità, precisi legami organizzativi preesistenti alla cessione e specifico know how tale da individuarli come una struttura unitaria funzionalmente idonea e non come una mera sommatoria di dipendenti.

5 – In conclusione, il ricorso è da rigettarsi.

Le spese del giudizio di legittimità, liquidate come da dispositivo, seguono la soccombenza.

 

P.Q.M.

LA CORTE rigetta il ricorso e condanna parte ricorrente a pagare le spese del giudizio di legittimità, liquidate in Euro 50,00 per esborsi e in Euro 5.000,00 per compensi professionali, oltre accessori come per legge.

Redazione