Cassazione: colpevole di omicidio il proprietario del pitbull che provoca la morte di una persona (Cass. pen. n. 48429/2011)

Redazione 27/12/11
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Svolgimento del processo

M.G. ricorre avverso la sentenza di cui in epigrafe che, confermando quella di primo grado, lo ha riconosciuto colpevole del reato di duplice omicidio colposo in danno di ***** e ******, perchè, secondo la contestazione, quale proprietario e custode di due cani di razza pitbull, per colpa, e cioè per imprudenza e negligenza ed in violazione dell’art. 672 c.p., lasciava liberi o ometteva di custodire i predetti animali, che assalivano nella campagna di (omissis), i due uomini, provocandone la morte (fatto del (omissis)).

Si accertava, già in primo grado, che i cani erano riusciti ad uscire dalla proprietà del M. e che non vi era alcuna prova del tentativo di furto che ignoti ladri avrebbero posto in essere nell’abitazione del ricorrente la notte precedente al fatto, lasciando aperto il cancello della proprietà.

Il giudice di appello confermava tale ricostruzione, ribadendo il giudizio di colpevolezza sul rilievo che non era stata assicurato un sistema idoneo di chiusura del cancello, che si prestava a frequenti malfunzionamenti, come si evinceva anche da altre due precedenti fughe dei cani, pure accertate nel presente procedimento.

Con il ricorso si deducono tre motivi.

Con il primo si contesta il giudizio di responsabilità sostenendosi la manifesta illogicità della motivazione con riferimento alla ricostruzione del fatto, laddove non si era tenuto conto che nessun teste aveva riferito di avere assistito all’aggressione da parte dei due cani, essendo giunti sul posto solo quando un uomo era già deceduto e l’altro agonizzante e che nessuna autopsia aveva accertato che l’evento morte fosse riconducibile con certezza alla condotta dei due cani. Si sostiene, inoltre, che il percorso motivazionale operato dai giudici di merito era apodittico in quanto non aveva neanche preso in considerazione la possibilità, con particolare al Ra., che il cadavere fosse stato aggredito dai cani successivamente al decesso. Con il secondo motivo lamenta la manifesta illogicità della motivazione in relazione alla confutazione della tesi difensiva volta a dimostrare che nella notte precedente al fatto ignoti ladri, nel porre in essere un tentativo di furto dell’autovettura del ricorrente, avessero lasciato aperto il cancello della villa.

Con il terzo motivo si lamenta la mancata assunzione di una prova decisiva costituita dalla testimonianza del M.llo de Carabinieri che avrebbe raccolto le dichiarazioni del M. sul tentativo di furto la mattina del fatto.

Motivi della decisione

Il ricorso è manifestamente infondato, essendo chiaramente insussistenti le denunciate violazioni di norme di legge e risolvendosi in una censura di merito afferente la valutazione dei mezzi di prova che sfugge al sindacato di legittimità, in quanto la motivazione in proposito fornita dal giudice di merito appare logica e congruamente articolata.

Nessuna delle censure in diritto è infatti sussistente.

Sull’addebito colposo in questione, in termini generali, va infatti ricordato che, per valutare il comportamento del soggetto tenuto alla custodia ed accertarne “in positivo” la colpa, può e deve aversi riguardo a quanto stabilito dall’art. 672 c.p., che, a prescindere dall’intervenuta depenalizzazione, costituisce valido termine di riferimento per la valutazione della colpa. Con la precisazione che, in proposito, non sarebbe sufficiente rifarsi alla presunzione di responsabilità stabilita dall’art. 2052 c.c., che stabilisce principi che rilevano solo in sede civile, ma con l’ulteriore, doverosa precisazione che compete pur sempre al soggetto onerato della custodia l’onere di fornire la prova del “caso fortuito”, ossia dell’essersi verificato un fatto assolutamente improvviso, imprevedibile e non evitabile dal custode, il quale, pur facendo uso di ogni diligenza, risulti essere stato impedito di adeguare la propria azione alla situazione creatasi, rendendo fatale la verificazione dell’evento, in assenza di colpa, anche minima (cfr., per riferimenti, Sezione 5, 6 agosto 1991, ********** e Sezione 4, 9 ottobre 2007, *********).

Da ciò deriva, tanto per esemplificare, la configurabilità della colpa allorquando l’animale sia custodito in un luogo privato o recintato, ma in tale luogo risulti possibile l’introduzione inconsapevole di persone estranee (cfr. Sezione 4, 1 marzo 1988, *********; nonchè, Sezione 4, 14 marzo 2006, Proc. gen. App. Roma in proc. Panzarin ed altro). Da ciò deriva, analogamente, (con argomenti qui rilevanti) la colpa del custode quando l’animale sia ricoverato in un luogo inidoneo a prevenirne la fuga (cfr. Sezione 4; 9 ottobre 2007, *********, che, quindi, ha ravvisato la responsabilità dell’imputato che aveva rinchiuso il cane in un cortile da cui peraltro l’animale era facilmente scappato per un’apertura nella recinzione, così provocando un sinistro stradale).

La sentenza impugnata è in linea con la giurisprudenza sopra richiamata.

Ciò premesso, manifestamente infondato è il profilo di doglianza relativo alla ricostruzione del fatto.

Vale ricordare, in proposito, che il motivo di ricorso si risolve in doglianze di merito, in particolare, in affermazioni di non condivisione delle valutazioni compiute dai giudici di merito, che hanno, invece, considerato compiutamente tutti i fatti, ritenendo accertata la colpa dell’imputato per la mancata adozione delle cautele e sussistente il rapporto di causalità tra la sua condotta e l’evento verificatosi.

In tal senso è sufficiente evidenziare come la sentenza ha puntualmente evidenziato le circostanze di fatto in base alle quali non può essere posto in discussione che la morte di Ra. e R. sia riconducibile ai due cani di proprietà del ricorrente: la presenza sul corpo delle vittime di plurime lesioni da morsi di cane in punti vitali e le concordi testimonianze delle persone, ivi compresi i Carabinieri intervenuti sul posto, che hanno assistito alla parte finale dell’aggressione, quando gli animali stavano ancora infierendo sul povero R. ancora vivo ma ormai agonizzante; l’atteggiamento palesemente aggressivo tenuto dai cani quella mattina del (omissis), quando, rifugiatisi nell’abitazione dell’imputato, dopo il fatto, manifestarono palese aggressività nei confronti di chiunque tentasse avvicinarsi a loro, compreso il padrone; le due precedenti fughe dei cani dall’abitazione dell’imputato, pure accertate nel presente procedimento.

Il ricorrente, per contro, anzichè svolgere una critica della valutazione dei molteplici e convergenti indizi, che sarebbe stata compiuta con inosservanza delle regole preposte alla formazione del convincimento del giudice, offre una propria diversa verità processuale, la quale non può essere delibata in sede di legittimità allorquando la struttura razionale della sentenza impugnata abbia una sua chiara e puntuale coerenza argomentativa e sia, senza contraddizioni o salti logici, saldamente ancorata, nel rispetto delle regole della logica e delle massime di comune esperienza, al nucleo fondamentale delle risultanze del complessivo quadro probatori.

Anche la doglianza relativa alla affermata mancanza di prova della apertura del cancello addebitabile ad ignoti ladri che avrebbero posto in essere nella notte antecedente al fatto un tentativo di furto dell’autovettura del ricorrente è manifestamente infondata, trattandosi di considerazioni di merito che si contrappongono ad una logica valutazione del giudice di merito. La Corte territoriale, esclude, infatti, con affermazione non sindacabile in sede di legittimità, che nella specie fosse stata fornita la prova di tale evento imprevedibile, evidenziando che la mattina del (omissis), prima che fossero trovati i corpi di Ra. e R., il M., presentatosi alla locale stazione dei Carabinieri per denunciare la scomparsa dei cani, non aveva fatto alcun accenno al presunto tentativo di furto.

Alla luce di quanto sopra esposto è evidente la manifesta infondatezza anche del terzo motivo di ricorso con il quale si lamenta l’omessa assunzione di una prova decisiva costituita dalla testimonianza del M.llo de Carabinieri che avrebbe raccolto le dichiarazioni del M. sul tentativo di furto,.

Va in proposito ricordato che, per assunto pacifico, per prova decisiva, la cui mancata assunzione può costituire motivo di ricorso per cassazione, deve intendersi solo quella che, confrontata con le argomentazioni addotte in motivazione a sostegno della decisione, risulti “determinante” per un esito diverso del processo, e non anche quella che possa incidere solamente su aspetti secondari della motivazione ovvero sulla valutazione di affermazioni testimoniali da sole non considerate fondanti della decisione prescelta. Per l’effetto, tale vizio è ravvisabile solamente quando la prova richiesta e non ammessa, confrontata con le argomentazioni formulate in motivazione a sostegno ed illustrazione della decisione, risulti tale che, se esperita, avrebbe sicuramente determinato una diversa pronuncia (cfr. Sezione 6, 2 aprile 2008, *****).

Qui, deve escludersi che la prova indicata dal ricorrente, che, peraltro, non risulta essere stata ritualmente richiesta ex art. 495 c.p.p., rivesta le caratteristiche innanzi richiamate in quanto è volta a dimostrare circostanza già esclusa dal giudice di merito con argomentazione desumibile dal contesto probatorio acquisito, decisivamente risolutiva, che non ammette censura in questa sede.

Alla inammissibilità del ricorso, riconducibile a colpa del ricorrente (v. sentenza Corte Cost. 7-13 giugno 2000, n.186), consegue la condanna del ricorrente medesimo al pagamento delle spese del procedimento e di una somma, che congruamente si determina in Euro mille, in favore della cassa delle ammende.

P.Q.M.

Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di Euro 1000,00 in favore della cassa delle ammende.

Redazione