Azione di risarcimento danni davanti al giudice dell’ottemperanza ex art 112 comma 3 C.p.a. (Cons. Stato n. 258/2013)

Redazione 06/01/13
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FATTO

1. Con l’appello in esame, il Ministero dell’economia e delle finanze – Comando generale della Guardia di Finanza, impugna la sentenza 30 luglio 2012 n. 7011, con la quale il TAR per il Lazio, sez. I, ha accolto il ricorso per ottemperanza proposto, tra gli altri da V. P. G. ed altri, ed ha condannato l’amministrazione al risarcimento del danno per ore di lavoro prestate dai ricorrenti e mai retribuite, né compensabili con cd. riposo compensativo, per essere stati i ricorrenti stessi medio tempore collocati a riposo.
La sentenza della quale si chiedeva disporre l’ottemperanza (TAR Lazio, 1 luglio 2010 n. 22071) ha riconosciuto in favore dei ricorrenti il diritto al recupero dei riposi compensativi corrispondenti alle ore di lavoro straordinario prestate e non retribuite.
Non avendo potuto detta sentenza trovare esecuzione, stante il collocamento a riposo dei ricorrenti, la sentenza appellata ha riconosciuto spettante “il risarcimento per equivalente, da commisurarsi al compenso per le ore di lavoro straordinario dagli stessi effettuate e mai retribuite né in altro modo compensate”.
Il TAR ha, dunque, indicato i criteri per la definizione della somma dovuta a titolo di risarcimento.
Avverso tale sentenza, vengono proposti i seguenti motivi di appello:
violazione del giudicato; erroneità per insussistenza del diritto al risarcimento del danno; assenza del presupposto della colpa dell’amministrazione; prescrizione del credito; ciò in quanto:
a) la sentenza ottemperanda “non aveva condannato l’amministrazione al pagamento di una somma di denaro, riconoscendo che i ricorrenti avevano già fruito del pagamento delle ore di straordinario monetizzabili, mentre per le altre . . . doveva necessariamente ed esclusivamente provvedersi mediante corresponsione di ore di riposo compensativo”, di modo che “in caso di mancanza o di impossibilità di godere delle ore di riposo compensativo in eccedenza alle ore di straordinario monetizzabile, nulla può essere corrisposto a qualunque titolo”. Per il tramite della sentenza impugnata, invece, si ottiene “la paradossale conseguenza” di dare accoglimento postumo ad una domanda di condanna al pagamento di somme di denaro, già rigettata dal primo giudice;
b) nel caso di specie, “manca completamente la colpa a carico della pubblica amministrazione”, la quale “non ha fatto altro che conformarsi al giudicato, la cui esecuzione è divenuta impossibile per fatti alla stessa non imputabili, e segnatamente ascrivibili alla sfera giuridica dei ricorrenti”. Al contrario, l’art. 112, co. 3, Cpa, nel prevedere l’ipotesi di impossibilità di dare esecuzione al giudicato, “va infatti letta come impossibilità soggettivamente imputabile alla Pubblica amministrazione”, alla quale va posto a carico “l’obbligo di risarcire i danni derivanti dall’impossibilità di eseguire il giudicato e solo se vi è un fatto imputabile alla stessa”. A fronte di ciò, vi è colpa grave dei ricorrenti che hanno tenuto “un comportamento ostativo alla pretesa vantata”;
c) se “il dies a quo di riferimento” del diritto degli interessati è quello della domanda “epoca in cui i ricorrenti erano in servizio, allora la stessa doveva essere dichiarata prescritta”.
Si sono costituiti in giudizio gli appellati, che hanno concluso richiedendo il rigetto dell’appello, stante la sua infondatezza.
Con ordinanza 20 novembre 2012 n. 4572, questo Consiglio di Stato ha disposto la sospensione dell’esecutività della sentenza impugnata.
All’odierna udienza, la causa è stata riservata in decisione.

DIRITTO

2. L’appello è infondato e deve essere, pertanto, respinto, con conseguente conferma della sentenza impugnata.
Al fine del corretto inquadramento delle norme di cui all’art. 112, co. 3, Cpa (e che trovano applicazione nel presente giudizio), occorre innanzi tutto osservare (sulla scorta di quanto già affermato da questo Consiglio di Stato, sez. IV, 17 dicembre 2012 n. 6468, dalle cui considerazioni generali non vi è motivo di discostarsi nella presente sede), che il Codice del processo amministrativo, nel disciplinare il giudizio di ottemperanza, prevede:
– per un verso, che l’azione di ottemperanza può essere proposta per conseguire l’attuazione di una pluralità di provvedimenti giurisdizionali, anche di giudici diversi dal giudice amministrativo (art. 112, co. 2, lett. a) – e);
– per altro verso, che “il ricorso di cui al presente articolo” può essere utilmente proposto “anche al fine di ottenere chiarimenti in ordine alle modalità dell’ottemperanza” (art. 112, co. 5).
Inoltre, il successivo art. 114, co. 7, dispone che “nel caso di ricorso ai sensi del comma 5 dell’art. 112, il giudice fornisce chiarimenti in ordine alle modalità di ottemperanza, anche su richiesta del Commissario”.
Pur esulando dalla presente sede una completa disamina della natura dell’azione di ottemperanza (alla quale questo Consiglio di Stato ha – a vario titolo – dedicato le Adunanze Plenarie nn. 2, 18 e 24 del 2012), giova osservare che la disciplina dell’azione di ottemperanza, lungi dal ricondurre la medesima solo ad una mera azione di esecuzione della sentenza e/o di altro provvedimento ad esse equiparabile, evidenzia profili affatto diversi, non solo quanto al “presupposto” (cioè in ordine al provvedimento per il quale si chieda che il giudice disponga ottemperanza), ma anche in ordine al contenuto stesso della domanda, la quale può essere:
a) rivolta, in generale, a conseguire “l’attuazione” delle sentenze o altri provvedimenti ad esse equiparati, del giudice amministrativo o di altro giudice diverso da questi, con esclusione delle sentenze della Corte dei Conti (Cons. Stato, sez. IV, 26 maggio 2003 n. 2823; Sez. VI, ord. 24 giugno 2003 n. 2634). e del giudice tributario, o, più in generale, di quei provvedimenti di giudici diversi dal giudice amministrativo “per i quali sia previsto il rimedio dell’ottemperanza” (art. 112, comma 2). Nell’ipotesi qui esaminata, l’ampiezza della previsione normativa impedisce di ricondurre la natura dell’azione a quella di mera “azione di esecuzione” di una sentenza pronunciata a conclusione di un giudizio di cognizione o altro provvedimento ad essa equiparato, essendo del tutto evidente la presenza di profili di accertamento e pronuncia del giudice di natura cognitoria, volti alla migliore conformazione dell’ulteriore esercizio del potere amministrativo;
b) rivolta ad ottenere la condanna “al pagamento di somme a titolo di rivalutazione e interessi maturati dopo il passaggio in giudicato della sentenza” (art. 112, comma 3). In questa ipotesi, l’azione ha mera natura esecutiva, ed essa è evidentemente “attratta” dal giudizio di ottemperanza, stante la natura di obbligazioni accessorie di obbligazioni principali, in ordine alle quali si è già pronunciata una precedente sentenza (o provvedimento equiparato);
c) rivolta ad ottenere il “risarcimento dei danni connessi all’impossibilità o comunque alla mancata esecuzione in forma specifica, totale o parziale, del giudicato o alla sua violazione o elusione” (art. 112, comma 3). In quest’ultimo caso, l’azione – che ha chiaramente natura risarcitoria, essendo in tal modo definita dal Codice – non è rivolta all’ “attuazione” di una precedente sentenza e/o provvedimento equiparato, ma essa trova in questi ultimi solo il presupposto perché un nuovo e distinto comportamento dell’amministrazione, che si presenti inottemperante, violativo o elusivo del giudicato, renda impossibile il ripristino della posizione soggettiva innanzi pregiudicata dalla stessa amministrazione (anche) mediante un esercizio illegittimo del potere amministrativo ovvero sia produttivo di danno. Si tratta, a tutta evidenza, di una azione nuova, esperibile proprio perché è l’ottemperanza stessa divenuta impossibile ovvero ulteriori danni sono derivati alla parte vittoriosa per mancata esecuzione, violazione o elusione del giudicato, e in ordine alla quale la competenza a giudicare è, per evidenti ragioni di economia processuale e, quindi, di effettività della tutela giurisdizionale, attribuita al giudice dell’ottemperanza.
Come è dato osservare, dunque, nell’ambito del giudizio di ottemperanza il Codice disciplina azioni diverse (al di là della mera – e tradizionale – distinzione inerente la riconducibilità dell’”attuazione” richiesta ad una “esecuzione” della sentenza o provvedimento equiparato), ovvero a più ampi ambiti di conformazione della successiva azione amministrativa, in dipendenza del giudicato medesimo.
Tale diversa, più ampia e poliforme natura del giudizio di ottemperanza non può non essere tenuta presente, al fine di definire sia le posizioni delle parti nel giudizio di ottemperanza, sia il contenuto ed i limiti dei poteri del giudice.
3. In particolare, l’art. 112, co. 3 Cpa prevede, tra l’altro, che “può essere proposta, anche in unico grado dinanzi al giudice dell’ottemperanza . . . azione di risarcimento dei danni connessi all’impossibilità o comunque alla mancata esecuzione in forma specifica, totale o parziale, del giudicato o alla sua violazione o elusione”.
Orbene, la disposizione ora riportata contempla espressamente una sola “azione di risarcimento” ma, in realtà, connessa a plurimi e distinti profili di danno, cui il giudice deve apprestare riparazione per il tramite della sua pronuncia. Ed infatti:
– in primo luogo, i danni possono essere connessi alla “impossibilità o comunque alla mancata esecuzione in forma specifica, totale o parziale, del giudicato”. Proprio il riferimento alle due diverse situazioni (quali la “impossibilità” o la “mancata esecuzione” del giudicato), mette in rilievo come il danno può essere effetto: a) della oggettiva impossibilità di esecuzione, dipendente da cause diverse ed (eventualmente) estranee al giudizio, in particolare non riconducibili al comportamento della P.A.; b) del comportamento attivo dell’amministrazione, in quanto essa con diverso esercizio del potere – non strettamente afferente all’esecuzione del giudicato – rende impossibile l’esecuzione; c) del comportamento omissivo dell’amministrazione, che, non eseguendo il giudicato, rende – per il tramite della sua inerzia – non più eseguibile lo stesso;
– in secondo luogo, i danni possono essere conseguenti alla violazione o elusione del giudicato medesimo, previa la declaratoria della nullità di eventuali atti emanati in violazione o elusione del giudicato (art. 114, comma 4), e possono essere derivati sia dalla ritardata attuazione del giudicato (per avere invece l’amministrazione emanato un provvedimento nullo), sia direttamente (e distintamente) da tale provvedimento, una volta verificatone l’effetto causativo di danno.
Dal complessivo tenore dell’art. 112, co. 3, è possibile affermare che il Codice del processo amministrativo non considera l’ipotesi che una sentenza di accoglimento del ricorso – che, pertanto, afferma l’intervenuta lesione della posizione giuridica sostanziale (e, in particolare, dell’interesse legittimo) – possa non trovare “sbocco” in forme di riparazione, le quali possono essere sia di tipo “ripristinatorio” (a seconda dei casi, sia attraverso l’adozione di un provvedimento di contenuto favorevole all’interessato, sia attraverso il ripristino delle condizioni di esercizio del potere amministrativo), sia di tipo risarcitorio o “per equivalente”, laddove vi sia impossibilità di esecuzione del giudicato.
Ne consegue che:
– per un verso, quale che sia la ragione dell’impossibilità di esecuzione (sia essa oggettiva, o sia essa riconducibile ad una attività o comportamento inerte dell’amministrazione), oggetto del risarcimento per equivalente monetario è la lesione stessa della posizione sostanziale accertata dal giudice del cognitorio e coperta dal passaggio in giudicato della relativa decisione. Non a caso l’art. 112, co. 3 evidenzia un danno “connesso” alla impossibilità dell’esecuzione e non già “conseguente” a tale impossibilità; dunque, non si tratta, necessariamente, di un danno “nuovo”, bensì (anche) del danno accertato con la sentenza passata in giudicato, non più riparabile nelle forme ivi indicate;
– per altro verso, a questo primo aspetto del danno risarcibile, può aggiungersi (qualora questo ricorra in concreto e laddove debitamente provato), l’ulteriore danno derivante ex se dall’attività dell’amministrazione (ad esempio, derivante dal provvedimento adottato in elusione o violazione di giudicato e dichiarato nullo dal giudice dell’ottemperanza).
Quanto sin qui esposto appare a maggior ragione sostenibile laddove oggetto del giudizio amministrativo siano (come nel caso oggetto del presente giudizio), non già posizioni di interesse legittimo, bensì posizioni di diritto soggettivo.
Stante la distinta natura del danno risarcibile ex art. 112, comma 3, Cpa, il Collegio osserva che nel caso in cui il danno risarcibile consista nella (originaria ed accertata in cognitorio) lesione della posizione giuridica sostanziale, il termine di prescrizione dell’azione di ottemperanza è di dieci anni (art. 114, co. 1) e decorre dal passaggio in giudicato della sentenza.
Ed infatti, se il risarcimento del danno corrisponde ad una riparazione per equivalente della lesione subita dalla posizione sostanziale, per la quale non è più possibile la reintegrazione in forma specifica, non vi è alcuna ragione per ritenere che l’esercizio di tale azione risponda a termini di prescrizione diversi da quelli in generale previsti per l’actio iudicati, né che detto termine abbia diversa decorrenza.
Al contrario, qualora oggetto della domanda di risarcimento, pur proposta in sede di ottemperanza, siano danni causati da attività ulteriore o inerzia dell’amministrazione (come nel caso di danno autonomamente ed ex novo derivante dal provvedimento adottato in elusione o violazione di giudicato), il termine di prescrizione per illecito (extracontrattuale) è quinquennale e non può che decorrere dall’evento causativo di danno.
4. Alla luce delle considerazioni sin qui esposte, non possono trovare accoglimento i motivi di appello proposti.
La sentenza appellata, in presenza della ineseguiibilità della decisione passata in giudicato, dovuta al difetto della permanenza in servizio degli interessati, ha fatto corretta applicazione dell’art. 112, co. 3, Cpa, sostituendo a quanto disposto dalla medesima (fruizione di riposo compensativo) il risarcimento per equivalente.
Non si tratta, dunque, del riconoscimento del diritto di credito per lavoro straordinario svolto – come sostenuto dall’amministrazione appellante – bensì del diverso “modo” di riparare un danno già accertato, sostituendo un risarcimento del danno per equivalente.a quanto la sentenza da eseguire ha già disposto (e non più possibile).
A tanto ha provveduto la sentenza, non già procedendo a quantificare le ore di straordinario effettuate “monetizzandole” (in questo caso il giudice dell’ottemperanza avrebbe senza dubbio ecceduto i limiti imposti dalla sentenza da eseguire), ma – preso atto della impossibilità di fruizione dei riposi compensativi – ha indicato il criterio per la definizione in via equitativa di una somma, da liquidarsi quale risarcimento.
Poiché oggetto del risarcimento – quale forma “sostitutiva” di riparazione – è la posizione giuridica la cui lesione è stata accertata in cognitorio, non occorre, in sede di ottemperanza, accertare la sussistenza (o meno) dell’elemento soggettivo della responsabilità dell’amministrazione (come sarebbe stato, invece, necessario, laddove oggetto della domanda di risarcimento fossero stati danni “nuovi” e “diversi”, nei sensi sopra evidenziati).
Come si è detto, ricorre una ipotesi di “sostituzione” di una forma di riparazione ad un’altra, ed ambedue vanno riferite ad un danno già accertato come sussistente dalla sentenza della quale si dispone l’ottemperanza.
Allo stesso modo (ed in ciò integrando la motivazione della sentenza impugnata), non sussiste alcuna prescrizione dell’azione, posto che, nel caso di specie, non è evidentemente decorso il termine decennale dell’actio iudicati.
Per tutte le ragioni esposte, l’appello deve essere rigettato, con conseguente conferma della sentenza impugnata.
Stante la natura delle questioni trattate, sussistono giusti motivi per compensare tra le parti spese, diritti ed onorari di giudizio.

P.Q.M.

Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale (Sezione Quarta)
definitivamente pronunciando sull’appello proposto dal Ministero dell’economia e delle finanze (n. 7744/2012 r.g.), lo rigetta e, per l’effetto, conferma la sentenza appellata.
Compensa tra le parti spese, diritti ed onorari di giudizio.
Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall’autorità amministrativa.
Così deciso in Roma nella camera di consiglio del giorno 15 gennaio 2013

Redazione