Appello, integrazione istruttoria, necessità che la prova offerta sia decisiva (Cass. pen., n. 45966/2013)

Redazione 15/11/13
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Svolgimento del processo

1. Con sentenza del 26 aprile 2012 la Corte d’appello di Roma confermava la condanna alla pena di giustizia di M.D. per il reato di diffamazione aggravata ai danni di S. R. commesso attraverso la diffusione telematica su un sito di condivisione di un filmato amatoriale a contenuto erotico che vedeva la stessa protagonista insieme all’imputato.

2. Avverso la sentenza ricorre l’imputato a mezzo del proprio difensore articolando cinque motivi.

2.1 Con il primo deduce vizi motivazionali della sentenza impugnata in merito al rigetto dell’istanza di rinnovazione dell’istruttoria dibattimentale avanzata con l’atto d’appello e riguardante la visione in udienza del filmato oggetto del reato in contestazione.

2.2 Con il secondo il ricorrente lamenta la violazione della legge processuale ed ulteriori vizi motivazionali della sentenza in merito alla ritenuta attendibilità della persona offesa, rilevando, in diritto, come per la oramai consolidata giurisprudenza le dichiarazioni della persona offesa costituitasi anche parte civile necessitino di riscontri per poter essere assunte a prova della responsabilità dell’imputato e nel merito che la Corte territoriale non avrebbe tenuto conto delle pur ammesse circostanze del fatto, tali da far presumere che la S. avesse intrattenuto rapporti sessuali con altri uomini nel periodo in cui il filmato è stato prodotto, nè del particolare interesse alla denuncia vantato dalla donna, comprovato dall’esorbitante richiesta risarcitoria avanzata. Inoltre i giudici d’appello avrebbero fondato il giudizio sulla spontaneità delle dichiarazioni accusarie della S. sulla richiesta avanzata all’atto della denuncia all’operante delegato a raccoglierla circa la possibilità che il filmato fosse stato postato in rete per mero errore, circostanza invero mai riferita da quest’ultimo nel corso della sua deposizione dibattimentale, ma ancora una volta affermata esclusivamente dalla stessa persona offesa. Ed altrettanto inconsistenti sarebbero i presunti riscontri individuati dalla sentenza nelle dichiarazioni dei testi G. e C., che a tutto concedere comunque avrebbero riferito di circostanze apprese dalla S., la cui attendibilità, dunque, solo apparentemente sarebbe sostenuta da elementi esterni. Illogica risulterebbe poi la conclusione assunta dalla Corte circa l’inverosimilità dell’ipotesi per cui possa essere stata la stessa persona offesa a diffondere il filmato in quanto lesivo della sua immagine, atteso che è dato di comune esperienza quello per cui quotidianamente i protagonisti di filmini amatoriali a contenuto erotico provvedono a diffonderli per mero esibizionismo.

Ancora illogica ed altresì fondata su un dato probatorio inesistente sarebbe l’esclusione dell’ipotesi che il filmato sia stato caricato in rete per mero errore, atteso che nulla del genere sarebbe stato affermato dall’agente T. nel corso della sua deposizione.

Deposizione che sarebbe stata ulteriormente travisata dai giudici d’appello in merito al significato del rinvenimento nel computer dell’imputato di più files diversamente intitolati e contenenti il filmato. Non meno illogico sarebbe poi l’argomento tratto dalla Corte territoriale in merito alla mancata giustificazione da parte dell’imputato del fatto di non aver richiesto alla persona offesa ragione della diffusione del filmato, atteso che il M. mai è stato interrogato, nè altrimenti sono state acquisite sue dichiarazioni. Infine il ragionamento probatorio seguito dalla sentenza rivelerebbe un’ulteriore lacuna presupponendo che il filmato postato in rete sia stato inequivocabilmente girato con la macchina digitale dell’imputato, circostanza invero mai accertata, come precisato dal menzionato teste T..

2.3 Con il terzo motivo si lamenta l’errata applicazione degli artt. 42 e 595 c.p. e correlati vizi motivazionali della sentenza in merito alla ritenuta configurabilità del reato contestato. Atteso, infatti, che la Corte territoriale ha ritenuto credibili le dichiarazioni della S., da queste ultime emerge, per stessa ammissione dei giudici d’appello, che l’imputato le avrebbe riferito di aver diffuso per mero errore il filmato. Circostanza da cui doveva dedursi l’attribuibilità del fatto al M. a titolo di colpa, risultando dunque inconfigurabile il dolo necessario per la sussistenza del reato contestato.

2.4 Con il quarto motivo il ricorrente deduce la carenza di motivazione in merito alla ritenuta infondatezza delle spiegazioni alternative del fatto formulate con i motivi d’appello e la cui ipotizzabilità risultava suffragata dal fatto che l’agente T. avesse escluso si potesse stabilire se i files presenti nel computer del M. fossero stati da lui caricati in rete piuttosto che scaricati dalla medesima, precisando altresì che non era stata accertata nè la data di creazione dei files, nè la loro fonte di produzione, pur escludendo che quelli rilevati nel suddetto computer presentassero la denominazione standard propria di quelli prodotti con strumenti digitali, nonchè dalla circostanza per cui il fatto contestato si è consumato in un periodo in cui la relazione tra i due protagonisti della vicenda si era interrotta e non poteva dunque escludersi che la S. avesse girato il filmino con altre persone.

2.5 Con il quinto ed ultimo motivo, infine, viene dedotta la carenza di motivazione in merito al diniego del beneficio della non menzione.

Motivi della decisione

1. Il primo motivo di ricorso è inammissibile in quanto generico e manifestamente infondato.

Deve infatti ricordarsi che l’integrazione istruttoria in grado di appello ha carattere eccezionale e può essere disposta soltanto quando il giudice non possa decidere allo stato degli atti; il che si traduce nella necessità che la prova offerta sia decisiva, cioè idonea ad eliminare ogni incertezza o ad inficiare il valore probatorio di ogni altra risultanza di segno contrario (Sez. 3 n. 35372 del 23 maggio 2007, *******, rv 237410; Sez. 3 n. 21687 del 7 aprile 2004, Modi, rv 228920). In tal senso la Corte territoriale non solo ha ritenuto non necessaria ai fini della decisione la prova richiesta, ma ha altresì specificamente motivato sulle ragioni per cui la stessa sarebbe stata addirittura inconferente. In proposito il ricorrente si è limitato ad obiettare in maniera apodittica e quanto mai generica che la visione del filmato oggetto di contestazione “avrebbe sicuramente offerto un importante e decisivo elemento di valutazione”, senza in tal modo effettivamente evidenziare i termini della manifesta illogicità della linea argomentativa assunta dai giudici d’appello e ciò a tacere del fatto che il filmato era agli atti, non risultando dunque chiaro quale sarebbe stato il valore probatorio della sua visione nel contraddittorio tra le parti rispetto al suo esame da parte dell’organo giudicante al pari di qualsiasi atto utilizzabile per la decisione.

2. Inammissibili sono anche il secondo e il quarto motivo proposti dal ricorrente, che possono essere trattati congiuntamente.

2.1 Inammissibili sono innanzi tutto le doglianze avanzate in merito alla ritenuta attendibilità della persona offesa, con cui sostanzialmente vengono dedotte questioni di merito, sollecitando una rivisitazione esorbitante dai compiti del giudice di legittimità della valutazione del materiale probatorio che la Corte distrettuale ha operato, sostenendola con motivazione coerente ai dati probatori richiamati ed immune da vizi logici.

La sentenza infatti illustra in maniera analitica le ragioni per cui la S. è stata ritenuta credibile dai giudici d’appello, facendo leva sulla coerenza intrinseca e precisione del suo racconto, nonchè sul fatto che le sue dichiarazioni relative alle modalità attraverso cui venne a conoscenza della presenza del filmato in rete avevano, trovato congruo riscontro in quelle dei testi escussi.

2.2 In tal modo la Corte territoriale ha, per un verso, dato conto di aver eseguito quel vaglio approfondito delle dichiarazioni della persona offesa richiesto dalla giurisprudenza di legittimità – talchè si rivela manifestamente infondata la censura sollevata in tal senso dal ricorrente – e per l’altro seguito una linea argomentativa immune da vizi logici e coerente con le risultanze processuali.

Nè il ragionamento sviluppato in proposito risulta inficiato dalle obiezioni sollevate dal ricorrente con riguardo alle dichiarazioni relative all’eventuale involontarietà della condotta dell’imputato o alla sorpresa della S. nell’apprendere la notizia della diffusione del video, giacchè i giudici romani non hanno in alcun modo sostenuto che tali circostanze siano state riscontrate dalla deposizione dell’agente T., ma le hanno correttamente imputate al racconto della persona offesa da cui ritrarre in maniera non manifestamente illogica riprova della spontaneità della persona offesa.

2.3 Quanto alle ipotesi alternative di cui la Corte territoriale non avrebbe tenuto conto nel giudicare la versione dei fatti offerta dalla S. l’unica verosimile, è appena il caso di notare come esse si risolvano in mere congetture del ricorrente, prive di qualsiasi ancoraggio nel compendio probatorio acquisito. Infatti l’esistenza di persone esibizioniste che amino diffondere la documentazione dei propri incontri erotici ovvero l’astratta possibilità che nel periodo in cui la S. è stata separata dall’imputato abbia potuto produrre filmati erotici con altri uomini sono argomenti, che per poter essere valutati dai giudici dell’appello a confutazione del racconto della persona offesa, avrebbero necessitato quantomeno della dimostrazione – non fornita dal ricorrente e non altrimenti ricavabile in atti – che quest’ultima effettivamente fosse un’esibizionista ovvero che effettivamente nell’intervallo del rapporto sentimentale con il M. avesse intrattenuto rapporti intimi con altri uomini.

2.4 E’ invece privo di qualsiasi pregio il ragionamento sotteso agli argomenti evocati dal ricorrente, secondo cui, in ultima analisi, chiunque accetti di riprendere i propri rapporti sessuali lo faccia inevitabilmente per poi diffonderli e, altrettanto inevitabilmente, nella pur breve interruzione del fidanzamento la S. avrebbe dovuto intrattenersi con soggetti diversi dal M..

2.5 In ultima analisi deve convenirsi che in maniera non manifestamente illogica la Corte territoriale ha tratto la prova della responsabilità dell’imputato dalle dichiarazioni della persona offesa, che non solo ha affermato di aver girato filmati a contenuto erotico esclusivamente con l’imputato, ma ha altresì rivelato come il M. le avesse confidato di essere stato l’autore della diffusione di quello che qui interessa, circostanza che vanifica le ulteriori obiezioni difensive in merito all’impossibilità di accertare da quale computer sia stato per la prima volta diffuso il file contenente il filmato incriminato. Mentre il tentativo del ricorrente di prospettare una diversa ricostruzione del fatto si risolve, per l’appunto, nella prospettazione di una lettura soggettivamente orientata del materiale probatorio alternativa a quella fatta motivatamente propria dal giudice di merito nel tentativo di sollecitare quello di legittimità ad una rivisitazione degli elementi di fatto posti a fondamento della decisione o all’autonoma adozione di nuovi e diversi parametri di ricostruzione e valutazione dei medesimi, che invece gli sono precluse ai sensi della lett. e) del citato art. 606.

3. Parimenti inammissibili in quanto manifestamente infondati e generici si rivelano infine anche il terzo e il quinto motivo del ricorso, atteso che la Corte territoriale ha argomentatamente spiegato (p. 6 della sentenza) perchè l’immissione nella rete del filmato non poteva avvenire accidentalmente. Motivazione con la quale il ricorrente non si è minimamente confrontato, limitandosi ad affermare che, sulla base della testimonianza della persona offesa, la diffusione del filmato doveva ritenersi meramente colposa, dimenticando come dalla sentenza invece emerga semplicemente che questa sia stata la versione dei fatti propinata dall’imputato alla S.. Ed analoghe considerazioni devono essere svolte con riguardo alle doglianze svolte in merito al diniego del beneficio ex art. 175 c.p., atteso che la Corte territoriale ha specificamente ed esaurientemente indicato le ragioni ostative ad una prognosi sul futuro comportamento dell’imputato, implicitamente ritenendo inidonei gli elementi a lui eventualmente favorevoli indicati dal ricorrente, che dunque finisce per sollecitare al giudice di legittimità una nuova valutazione del merito della decisione assunta da quello d’appello e che gli è invece notoriamente preclusa.

4. La rilevata inammissibilità del ricorso rende irrilevante qualsiasi indagine sull’effettiva datazione del reato sollecitata dal ricorrente nel corso della discussione al fine di sollecitare la declaratoria della sua estinzione per intervenuta prescrizione.

Infatti, anche qualora dovesse effettivamente concludersi che il momento in cui il filmato è stato diffuso risalga non al dicembre del 2005, bensì ad una data compresa tra l’aprile e l’ottobre di quell’anno, non è in dubbio che il termine di prescrizione si sarebbe comunque compiuto dopo la pronunzia della sentenza impugnata.

Escluso, dunque, che l’estinzione del reato per prescrizione potesse essere rilevata nel giudizio di merito, va osservato che neppure potrebbe essere dichiarata d’ufficio in questa sede, ostandovi in tal senso e per l’appunto la ritenuta inammissibilità del ricorso.

La oramai consolidata e condivisa giurisprudenza di questa Corte afferma infatti che l’inammissibilità del ricorso per cassazione non consente il formarsi di un valido rapporto di impugnazione e preclude, pertanto, la possibilità di rilevare e dichiarare le cause di non punibilità a norma dell’art. 129 c.p.p. (v. per tutte Sez. Un. n. 32 del 22 novembre 2000, *******, rv 217266).

Alla declaratoria di inammissibilità del ricorso consegue, dunque, ai sensi dell’art. 616 c.p.p. la condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali e al versamento della somma, ritenuta congrua, di Euro mille alla cassa delle ammende.

P.Q.M.

Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di Euro 1.000 in favore della Cassa delle Ammende, nonchè al rimborso di quelle sostenute dalla parte civile che liquida in complessive Euro 2.000, oltre accessori come per legge.

Così deciso in Roma, il 15 ottobre 2013.

Redazione