Annullamento della sentenza per difetto di motivazione: la Cassazione chiarisce le regole che deve seguire il giudice del rinvio (Cass. n. 18290/2012)

Redazione 25/10/12
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Svolgimento del processo

N.L.E. , in qualità di genitore esercente la potestà sulla figlia minore G.A.L., affetta da tetraplegia spastica, agiva in giudizio per ottenere l’erogazione gratuita della terapia denominata Dikul e a tal fine conveniva in giudizio la Azienda USL n. (omissis) di Pistoia e la Regione Toscana. Il giudice di primo grado rigettava la domanda. In secondo grado la Corte di appello di Firenze, ritenuto il difetto di legittimazione passiva della Regione Toscana, accoglieva il gravame e condannava la Azienda USL appellata ad erogare gratuitamente a G.A.M.L. la terapia suddetta con prescrizione a carico del SSN per il tempo necessario alla terapia stessa e a rimborsare le spese sostenute per il periodo (omissis).
A seguito di ricorso per cassazione, le Sezioni Unite, con sentenza n. 1157/2006, dichiaravano la giurisdizione del giudice ordinario. Quindi, la Sezione Lavoro, con sentenza n. 10692 del 2008, accoglieva per quanto di ragione il secondo e il terzo motivo del ricorso proposto dalla Azienda USL n. (omissis) di Pistoia e rinviava alla Corte di appello di Bologna, affermando il principio di diritto secondo cui, in tema di erogazione da parte del SSN di cure tempestive non ottenibili dal servizio pubblico, il relativo diritto, allorquando siano prospettati motivi di urgenza suscettibili di esporre la salute a pregiudizi gravi ed irreversibili, deve essere accertato sulla base dei presupposti richiesti dalla disciplina dettata in materia sanitaria dall’art. 1 del d.lgs. 30 dicembre 1992, n. 502 (nel testo modificato dall’art. 1 del d.lgs. 19 giugno 1999, n. 229, applicabile “ratione temporis”). In base al principio di efficacia enunciato da tale normativa, i benefici conseguibili con la prestazione richiesta devono essere posti a confronto con l’incidenza della pratica terapeutica sulle condizioni di vita del paziente, dovendosi considerare in particolare – in relazione ai limiti temporali del recupero delle capacità funzionali – la compromissione degli interessi di socializzazione della persona derivante dalla durata e gravosità dell’impegno terapeutico.
La sentenza n. 10692/2008 affermava che la valutazione espressa dal giudice di merito non corrispondeva ad una corretta applicazione del principio di appropriatezza fissato dalla norma di legge, in relazione al quale deve essere operato anche il giudizio di efficacia. Il principio suddetto, imponendo di valutare in quali termini la terapia sia appropriata o confacente per una data malattia – con riferimento alle specifiche condizioni del soggetto richiede necessariamente un confronto tra i risultati positivi della cura e gli eventuali riflessi negativi della terapia stessa sulle condizioni di vita del paziente.
All’esito del giudizio di rinvio, la Corte di appello di Bologna, con sentenza del 14 aprile 2009, dato atto del passaggio in giudicato della decisione di carenza di legittimazione passiva della Regione Toscana, respingeva l’appello proposto da N.L.E. nei confronti della Azienda USL n. (omissis) di Pistoia sulla base delle seguenti considerazioni:
a) i risultati positivi della terapia Dikul si esaurivano in una temporanea efficacia, limitata alla durata della pratica terapeutica; il metodo richiedeva, nel caso della G. , sedute riabilitative giornaliere della durata di 4/6 ore per cinque giorni alla settimana, senza alcun limite di tempo; esso costituiva dunque per la paziente un impegno pressoché totalizzante;
b) i documenti prodotti in giudizio dalla ricorrente riguardavano la partecipazione a specifici eventi del tutto episodici e anche molto distanziati nel tempo, tali da non costituire valido riscontro del compimento di un percorso di socializzazione, il quale richiede l’integrazione della persona nel mondo delle relazioni che la circonda;
c) scarsamente plausibile era la prospettata compatibilità tra effettività della pratica terapeutica e praticabilità dei percorsi di studio attestati in atti.
La Corte territoriale concludeva che i limitatissimi benefici conseguibili con la terapia finivano per recedere nel confronto con la durata e la gravosità della stessa, assumendo queste ultime carattere preponderante, tali da escludere l’appropriatezza delle prestazione.
Per la cassazione di tale sentenza propongono ricorso N.L.E. e G.A.L. svolgendo quattro motivi.
Resiste con controricorso l’Azienda Usl n. (omissis) di Pistoia.
Entrambe le parti hanno depositato memorie illustrative ex art. 378 cod. proc. civ..

 

Motivi della decisione

I quattro motivi di ricorso denunciano violazione della regula iuris contenuta nella sentenza rescindente n. 10692/2008, in relazione all’art. 1 d.lgs. n. 502 del 1992, come modificato dal d.lgs. n. 229 del 1992, nonché vizio di motivazione (art. 360 n. 5 cod. proc. civ.):
– per avere il giudice di rinvio ritenuto che i benefici della terapia Dikul non presentassero caratteri di efficacia significativamente superiori a quelli delle riabilitazioni e terapie svolte nei centri convenzionati, così contraddicendo il passaggio della sentenza della Corte di cassazione che aveva invece dato atto della non “sovrapponibilità” delle diverse terapie (primo motivo);
omesso di motivare in ordine al fatto determinante costituito dalla effettività della compromissione della vita di relazione e delle possibilità di socializzazione, pregiudizio – questo – in alcun modo dimostrato (secondo motivo);
omesso di indagare ulteriormente, anche attraverso l’esercizio di poteri istruttori d’ufficio (artt. 437 e 421 cod. proc. civ.), circa l’effettiva compromissione del livello di socializzazione della ricorrente derivante dalla pratica terapeutica (terzo motivo);
– errato nella valutazione delle prove documentali offerte (art. 116 cod. proc. civ.) anche in relazione alle operazioni logiche di tipo inferenziale (art. 2729 cod. civ.), atteso che anche gli eventi ritenuti “episodici” implicavano la necessità di relazionarsi con una pluralità di persone, da cui una serie di attività tipiche della “socializzazione”, mentre gli attestati di frequenza scolastica provenienti da enti pubblici o pubbliche amministrazioni (artt. 2700 cod. civ.) costituivano piena prova, fino a querela di falso, della veridicità dei fatti riferiti (quarto motivo).
Le censure sono prive di fondamento.
Il sindacato della Corte di Cassazione sulla sentenza del giudice di rinvio, gravata di ricorso per infedele esecuzione dei compiti affidati con la precedente pronunzia di annullamento, si risolve nel controllo dei poteri propri di detto giudice per effetto di tale affidamento, e dell’osservanza dei relativi limiti la cui estensione varia a seconda che l’annullamento stesso sia avvenuto per violazione di norme di diritto, ovvero per vizi della motivazione in ordine a punti decisivi della controversia. Nella seconda ipotesi, il giudice di rinvio, nel rinnovare il giudizio, è tenuto a giustificare il proprio convincimento secondo lo schema esplicitamente o implicitamente enunciato nella sentenza di annullamento, in sede di esame della coerenza logica del discorso giustificativo, evitando di fondare la decisione sugli stessi elementi del provvedimento annullato, ritenuti illogici, e con necessità, a seconda dei casi, di eliminare le contraddizioni e sopperire ai difetti argomentativi riscontrati (cfr. Cass. S.U. n. 10598 del 28 ottobre 1997; conf. Cass. nn. 9811, 12304 del 1998; nn. 1245, 5217, 8068 e 11290 del 1999; nn. 9244 e 10975 del 2000; nn. 5029, 10983, 11118 del 2001; nn. 11395 del 2002; nn. 1402 e 7635 del 2003; n. 14134 del 2004 e n. 9617 del 2009).
Parte ricorrente opera una scissione dei passaggi argomentativi e degli elementi valorizzati dal giudice di rinvio per contestarne in relazione a ciascuno la concludenza, trascurando di considerare che la censura del vizio di motivazione deve attenere non già ad una questione o un punto, ma ad un “fatto controverso e decisivo per il giudizio”, alla stregua della nuova formulazione del n. 5 del primo comma dell’art. 360 ad opera dell’art. 2 d.lgs. 2 febbraio 2006 n. 40. Ove il convincimento del giudice di merito si sia realizzato attraverso una valutazione dei vari elementi probatori acquisiti, considerati nel loro complesso, il ricorso per cassazione deve evidenziare l’inadeguatezza, l’incongruenza e l’illogicità della motivazione, alla stregua degli elementi complessivamente utilizzati dal giudice, e di eventuali altri elementi di cui dimostri la decisività, onde consentire l’apprezzamento dell’incidenza causale del vizio di motivazione sul “decisum”, non potendo limitarsi, in particolare, ad inficiare uno solo degli elementi della complessiva valutazione (Cass. n. 15156 dell’11 luglio 2011).
Il giudizio espresso dal giudice di rinvio si è basato su una pluralità di elementi interpretativi, utilizzati ai fini della ponderazione degli effetti positivi (efficacia della terapia limitata al periodo della pratica terapeutica) nel raffronto con quelli negativi (durata e gravosità della cura) al fine di potere esprimere, conclusivamente, quel giudizio richiesto dal Giudice di legittimità nella sentenza n. 10692 del 2008.
L’indagine sul pregiudizio alla vita di relazione e sulle possibilità di socializzazione non è stata omessa, ma il giudice di rinvio ha valutato le risultanze documentali; si è avvalso delle conclusioni rassegnate dai consulenti d’ufficio nominati nei precedenti gradi di giudizio; ha utilizzato argomenti anche di ordine presuntivo per formulare il proprio conclusivo giudizio.
La valutazione compiuta dal giudice di rinvio si muove nell’alveo tracciato dalla sentenza rescindente ed è coerente con il principio di diritto ivi espresso; le censure mosse al percorso argomentativo si risolvono non nella individuazione di vizi logici, ma nella ricerca di un diverso apprezzamento degli elementi acquisiti al giudizio, inammissibile in questa sede.
In tema di valutazione delle risultanze probatorie in base al principio del libero convincimento del giudice, la violazione degli artt. 115 e 116 cod. proc. civ. è apprezzabile, in sede di ricorso per cassazione, nei limiti del vizio di motivazione di cui all’art. 360, primo comma, numero 5, cod. proc. civ., e deve emergere direttamente dalla lettura della sentenza, non già dal riesame degli atti di causa, inammissibile in sede di legittimità (Cass. n. 14267 del 2006; cfr. pure Cass. n. 2707 e n. 12912 del 2004).
Inoltre, secondo un principio ripetutamente affermato da questa Corte, il ricorso per cassazione, con il quale si facciano valere vizi di motivazione della sentenza impugnata a norma dell’art. 360 c.p.c., n. 5, deve contenere – in ossequio al disposto dell’art. 366 c.p.c., n. 4 che per ogni tipo di motivo pone il requisito della specificità sanzionandone il difetto – la precisa indicazione di carenze o lacune nelle argomentazioni sulle quali si basano la decisione o il capo di essa censurato, ovvero la specificazione d’illogicità, consistenti nell’attribuire agli elementi di giudizio considerati un significato fuori dal senso comune, od ancora la mancanza di coerenza fra le varie ragioni esposte, quindi l’assoluta incompatibilità razionale degli argomenti e l’insanabile contrasto degli stessi. Ond’è che risulta inidoneo allo scopo il far valere la non rispondenza della ricostruzione dei fatti operata dal giudice del merito all’opinione che di essi abbia la parte ed, in particolare, il prospettare un soggettivo preteso migliore e più appagante coordinamento dei molteplici dati acquisiti, atteso che tali aspetti del giudizio, interni all’ambito della discrezionalità di valutazione degli elementi di prova e dell’apprezzamento dei fatti, attengono al libero convincimento del giudice e non ai possibili vizi dell’”iter” formativo di tale convincimento rilevanti ai sensi della norma in esame. Diversamente, si risolverebbe il motivo di ricorso per cassazione ex art. 360 c.p.c., n. 5 in un’inammissibile istanza di revisione delle valutazioni effettuate ed, in base ad esse, delle conclusioni raggiunte dal giudice del merito; cui, per le medesime considerazioni, neppure può imputarsi d’aver omesso l’esplicita confutazione delle tesi non accolte e/o la particolareggiata disamina degli elementi di giudizio ritenuti non significativi, giacché né l’una né l’altra gli sono richieste, mentre soddisfa l’esigenza di adeguata motivazione che il raggiunto convincimento risulti da un esame logico e coerente di quelle, tra le prospettazioni delle parti e le emergenze istruttorie, che siano state ritenute di per sé sole idonee e sufficienti a giustificarlo (Cass. 23 maggio 2007 n. 12052).
Nel ricorso in esame, sebbene si identifichi il fatto decisivo (che si assume omesso) nel mancato accertamento della effettività del pregiudizio alla possibilità di socializzazione, in realtà si allude a quanto dalla parte ricorrente prospettato come valida interpretazione dei dati documentali acquisiti agli atti. Ciò che si assume decisivo e trascurato dal giudice di rinvio non è tanto un preciso “fatto” quanto la rappresentazione che di esso scaturisce dalla ricostruzione interpretativa offerta e contrastante con quella accreditata nella sentenza rescissoria.
Nel tentativo di opporre alla valutazione degli elementi di prova operata dal giudice di rinvio quella ritenuta dalla parte ricorrente maggiormente convincente, il ricorso in esame sollecita, nella forma apparente della denuncia di error in iudicando e di vizi di motivazione, un riesame dei fatti, inammissibile in sede di legittimità.
Non è utilmente invocabile la sentenza di questa Corte n. 17541 del 2011. In quel giudizio la Corte di appello era giunta a conclusioni diverse sulla base delle indicazioni offerte dai consulenti medici nominati nei gradi di merito, i quali avevano espresso l’opinione che non esistessero nel caso esaminato controindicazioni alla prosecuzione della terapia, e si era potuto accertare nel processo che l’impegno terapeutico consentiva al paziente di svolgere una proficua attività lavorativa, oltre a consentire una soddisfacente vita di relazione. Il precedente muove, dunque, da presupposti di fatto e processuali del tutto diversi, da cui non è possibile estrarre regole valide per casi diversi. In detta sentenza questa Corte non ha disatteso, ma ha fatto applicazione del principio di cui alla pronuncia n. 10692 del 2008, espressamente richiamato, sulla considerazione che l’apprezzamento delle risultanze processuali operato dal giudice di merito era coerente con il principio di appropriatezza.
Il ricorso va dunque respinto.
Considerati gli opposti esiti che la vicenda ha avuto nel suo svolgimento processuale, si ravvisano giusti motivi per compensare le spese del presente giudizio di legittimità, ai sensi dell’art. 92, secondo comma, cod. proc. civ., nel testo anteriore alle modifiche apportate dall’art. 2 legge 28 dicembre 2005 n. 263, con decorrenza 1 marzo 2006.

 

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso e compensa le spese del giudizio.

Redazione