Anche l’auto aziendale entra nel calcolo del Tfr (Cass. n. 16636/2012)

Redazione 01/10/12
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Svolgimento del processo

1. Con un primo ricorso al Tribunale di Parma, quale Giudice del Lavoro l’ing. S.R. conveniva in giudizio la società Impresa Pizzarotti & C. spa esponendo di essere stato assunto da tale società nell’anno 1977 come impiegato tecnico; di essere divenuto dirigente a far tempo dal 1 febbraio 1993 e dal mese di aprire 1993 direttore generale di tale società. Il rapporto di lavoro si era risolto in data 31 gennaio 1997.

Specificava che il suo compenso era costituito da quanto previsto dal CCNL per i dirigenti delle imprese industriali, ma era stato convenuto un sistema di integrazione della retribuzione (usato per la generalità dei dirigenti della Pizzarotti) sotto forma di emolumenti connessi alle cariche attribuitegli quale amministratore delle società del gruppo, con corrispettivi che venivano erogati indipendentemente dalla sua partecipazione alle riunioni dei consigli di amministrazione di tali società o dallo svolgimento di altri incarichi (ad esempio di liquidatore).

Ricordava, inoltre, che a fare tempo dal 1983 aveva sempre avuto a disposizione una autovettura aziendale.

Poichè tali compensi non erano stati inseriti nella base di calcolo del trattamento di fine rapporto, cosi come non era stato considerato il beneficio rappresentato dall’uso di tale autovettura, proponeva una prima domanda volta ad ottenere le differenze di T.F.R. sulla base della effettiva retribuzione percepita con il sistema suddetto.

Proponeva poi una seconda domanda con la quale chiedeva il pagamento dello stipendio del mese di gennaio 1997 sulla base del compenso annuo concordato tra le parti con scrittura del 5 agosto 1995.

Proponeva infine una ulteriore domanda con la quale deduceva che al momento della risoluzione del contratto aveva accumulato 166 giorni di ferie. Chiedeva, quindi, la condanna di controparte al pagamento della corrispondente indennità nonchè al computo della stessa nel T.F.R..

Proponeva, infine, un’altra domanda con la quale deduceva le prestazioni libero professionali rese in favore del gruppo Pizzarotti a fare tempo dal 1984 in avanti, quale direttore dei lavori di varie opere pubbliche e private. Chiedeva, quindi, la condanna di controparte al pagamento di tali prestazioni professionali.

2. Si costituiva in giudizio la Impresa Pizzarotti & C. s.p.a. che contestava integralmente la fondatezza di tutte le domande di controparte.

Con riferimento ai compensi aggiuntivi percepiti dal ricorrente quale amministratore o liquidatore di società del gruppo, eccepiva il suo difetto di legittimazione passiva, contestando nel merito la fondatezza della domanda.

Quanto alla indennità sostitutiva delle ferie, specificava che tale somma era già stata corrisposta al ricorrente in sede transattiva (pari all’importo di L. 80.000.000) al momento della cessazione del rapporto, eccependo, comunque, in subordine la compensazione con quanto erogato.

Circa i c.d. compensi professionali, contestava la fondatezza di tale domanda in quanto l’attività di direttore dei lavori svolta dal ricorrente aveva costituito il più peculiare dei contenuti della qualifica dirigenziale rivestita, con conseguente infondatezza della domanda di controparte.

Proponeva domanda riconvenzionale con la quale chiedeva ia condanna del ricorrente al risarcimento dei danni causati dalla condotta negligente e colposa dell’ing. S. con riferimento a tre specifici episodi (licenziamento del dipendente V.; cantiere Hotel de Police a Parigi; cantiere dell’aereoporto Charles De Gaulle sempre a Parigi).

3. Il ricorrente decedeva in corso di causa; si costituivano gli eredi R.D., S.V., S.L. e S.F.. Il Giudice del lavoro di Parma decideva la causa con sentenza n. 581/05. Accoglieva parzialmente il ricorso proposto e per l’effetto condannava la parte convenuta al pagamento delle seguenti somme: Euro 13.987,37 a titolo di compenso aggiuntivo mese di gennaio 1997; Euro 71.244,66 a titolo di differenze TFR per compensi aggiuntivi; Euro 7,804,76 a titolo di differenze TFR per controvalore autovettura; Euro 113.663,08 per indennità sostitutiva ferie; Euro 11.479,98 a titolo di differenze TFR per indennità sostitutiva ferie. Il tutto oltre accessori su tali somme dal di del dovuto al saldo. Condannava parte convenuta alla regolarizzazione della posizione previdenziale dell’ing. S.. Respingeva le ulteriori domande di parte ricorrente e le domande riconvenzionali di parte convenuta ad eccezione di quella di compensazione relativa alla somma di L. 80.000.000 che accoglieva.

Compensava per 1/3 le spese di causa con condanna della società Pizzarotti alla rifusione degli restanti 2/3.

4. Ha proposto appello principale la Impresa Pizzarotti & C. spa deducendo plurimi motivi di appello.

Si sono costituiti in giudizio gli eredi dell’ing. S. contestando integralmente la fondatezza di tutti i motivi dell’appello principale della società Impresa Pizzarotti e proponendo appello incidentale.

La Corte d’appello di Bologna con sentenza del 22 dicembre 2009 – 1 febbraio 2010 ha respinto l’appello principale e, in parziale accoglimento dell’appello incidentale, ha dichiarato che l’indennità sostitutiva delle ferie ammontava ad Euro 154.979,69, da cui detrarre la somma di lire 80 milioni (Euro 41 mila 316,55) e quindi condannava la società al pagamento della differenza pari ad Euro 113.663,14.

Compensava le spese del grado per un terzo e condannava per il resto la parte appellante principale alle rifusione in favore degli appellanti incidentali.

3. Avverso questa pronuncia ricorre per cassazione la società con nove motivi.

Resistono con controricorso le parti intimate.

Entrambe le parti hanno depositato memoria.

Motivi della decisione

1. Il ricorso è articolato in nove motivi.

Con il primo motivo la ricorrente denuncia la violazione e/o falsa applicazione degli artt. 100, 101 e 102 c.p.c. in relazione all’eccezione di legittimazione passiva e omessa, insufficiente e/o contraddittoria motivazione circa un punto decisivo della controversia. Erroneamente la Corte d’appello ha rigettato l’eccezione preliminare di carenza di legittimazione passiva della società per le domande relative ai compensi per cariche societarie a suo tempo rivestite dall’ingegner S. in altre società del gruppo.

Con il secondo motivo la ricorrente denuncia omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione nonchè violazione dell’art. 116 c.p.c. ed erronea ed illogica valutazione del materiale probatorio in ordine al ruolo di dirigente e amministratore in società controllate rivestito dall’ingegner S.. Erroneamente la corte d’appello ha accolto la domanda proposta dall’originario ricorrente, secondo cui una parte del compenso dovutogli a titolo di corrispettivo delle prestazioni a titolo di lavoro subordinato sarebbe stata erogata sottoforma di emolumenti connessi alle cariche allo stesso attribuite come amministratore di società del gruppo.

Con il terzo motivo la società ricorrente denuncia omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione e vizio logico in punto alla valutazione del materiale probatorio in ordine alla richiesta avanzata dalla ingegner S. per l’anno 1997. Infondata era la pretesa dell’originario ricorrente che ha rivendicato una mensilità (1/12 di lire 325 milioni) a titolo di corrispettivo per l’opera svolta nella gennaio 1997. In ogni caso l’importo dovuto era da calcolarsi al netto e non al lordo delle imposte.

Col quarto motivo la ricorrente denuncia omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione e falsa applicazione dell’art. 116 c.p.c. e art. 23 del contratto collettivo nazionale di lavoro (per dirigenti di aziende industriali) in punto alla valutazione del materiale probatorio della domanda relativa alle ferie non godute. Il dirigente che non goda delle ferie non per imposizione del datore di lavoro ma per sua libera scelta non ha diritto ad alcuna indennità.

Con il quinto motivo la società ricorrente denuncia omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione e falsa applicazione dell’art. 116 c.p.c. in punto alla valutazione del materiale probatorio in ordine all’uso dell’autovettura.

Con sesto motivo la ricorrente denuncia omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione e vizio logico in punto all’eccezione di prescrizione con riferimento al calcolo del TFR e alla liquidazione delle ferie non godute.

Col settimo motivo la ricorrente denuncia omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione e falsa applicazione dell’art. 116 c.p.c. in punto alla valutazione del materiale probatorio in ordine alla domanda riconvenzionale relativa al licenziamento del dottor V..

Con l’ottavo motivo la ricorrente denuncia omessa, insufficiente contraddittoria motivazione e falsa applicazione dell’art. 116 c.p.c. in punto alla valutazione del materiale probatorio in ordine alla domanda riconvenzionale relativa alla responsabilità per le opere relativa all’Hotel de Police in Parigi.

Con il nono motivo la ricorrente denuncia omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione e falsa applicazione dell’art. 116 c.p.c. in punto alla valutazione del materiale probatorio in ordine alla domanda riconvenzionale relativa alla responsabilità per le opere relative all’aeroporto Charles de Gaulle.

2. Va innanzitutto esaminata l’eccezione di inammissibilità del ricorso proposto dalla parte contro ricorrente, che ha dedotto che la società ha reiterato il primo ricorso con un secondo ricorso senza revocare il primo.

L’eccezione di inammissibilità infondata.

Questa corte (Cass., sez. 2, 26 maggio 2010, n. 12898) ha affermato – e qui ribadisce – che nel caso in cui una sentenza sia stata impugnata con due successivi ricorsi per cassazione, il primo dei quali non sia stato depositato o lo sia stato tardivamente dal ricorrente, è ammissibile la proposizione del secondo, anche qualora contenga nuovi e diversi motivi di censura, purchè la notificazione dello stesso abbia avuto luogo nel rispetto del termine breve decorrente dalla notificazione del primo, e l’improcedibilità di quest’ultimo non sia stata ancora dichiarata, dal momento che la mera notificazione del primo ricorso non comporta la consumazione del potere d’impugnazione. Peraltro, all’ammissibilità del secondo ricorso non osta nemmeno la contestuale declaratoria d’improcedibilità del primo che abbia avuto luogo su iniziativa del controricorrente, il quale abbia sopperito ai mancato deposito dell’originate del ricorso, provvedendo ad allegare la copia a lui notificata.

3. Nel merito il ricorso – i cui plurimi motivi possono essere esaminati congiuntamente – è infondato.

Il ripetuto ed insistito richiamo che la difesa della società ricorrente fa all’art. 116 c.p.c. sulla valutazione delle prove tradisce che le censure mosse alla sentenza impugnata sono essenzialmente in fatto, e non già in diritto, ed esprimono un dissenso nell’apprezzamento delle risultanze processuali piuttosto che la denuncia di una contraddittorietà della motivazione.

4. La denuncia di difetto di legittimazione passiva si salda alla contestazione in merito alla spettanza dei compensi aggiuntivi.

E’ indubitabile in diritto che in caso di gruppo societario ogni società risponde distintamente e autonomamente delle obbligazioni assunte in ragione del conferimento di incarichi professionali (amministratore, liquidatore). Ma nella specie i giudici di merito di primo e secondo grado hanno conformemente verificato che in concreto i compensi erogati dalle società del gruppo Pizzarotti non erano altro che erogazioni aggiuntive a carattere retributivo della società datrice di lavoro. Si tratta di una valutazione di merito assistita da motivazione sufficiente e non contraddittoria, che quindi resiste alle censure della ricorrente. In particolare la Corte d’appello ha riscontrato un accordo tra le parti secondo cui l’ingegner S., nell’adempimento degli obblighi derivanti dal contratto di lavoro, doveva svolgere anche attività come amministratore o liquidatore delle società del gruppo e che per tale complessiva attività avrebbe ricevuto un compenso in parte imputato come corrispettivo del vero proprio rapporto di lavoro e in parte imputato alle cariche societarie di volta in volta ricoperte. Quindi era stata la società ricorrente ad impegnarsi a corrispondere i cosiddetti compensi aggiuntivi talora direttamente, talaltra per il tramite delle società del gruppo.

La Corte d’appello, che in questa prospettazione ha correttamente escluso il litisconsorzio necessario con le altre società del gruppo, ha accertato, in punto di fatto che i compensi aggiuntivi in questione traevano origine, con fondamento solo ed esclusivamente nella circostanza che l’ingegner S. era dipendente e dirigente di massimo livello della società ricorrente, con la conseguenza che le somme erogate quale componente del consiglio di amministrazione o liquidatore delle società del gruppo in realtà costituivano corrispettivo proprio del suo rapporto di lavoro subordinato dirigenziale essendo correlate, con nesso sinallagmatico, al rapporto di lavoro.

Correttamente la corte d’appello ha ritenuto che nella nozione di retribuzione deve farsi rientrare qualsiasi utilità corrisposta al lavoratore dipendente che proviene dal datore di lavoro se causalmente collegata al rapporto di lavoro anche ove si tratti di somme materialmente erogate da un soggetto diverso dalla datore di lavoro. In proposito questa corte (Cass., sez. lav., 24 novembre 2004, n. 22165) ha affermato, seppur ai fini della base imponibile della contribuzione previdenziale, che rientra nella nozione di retribuzione qualsiasi utilità economicamente valutabile corrisposta al dipendente che provenga soggettivamente dal datore di lavoro se, sotto il profilo oggettivo o causale sia collegata al rapporto di lavoro e ricevuta in dipendenza dello stesso, non rilevando il fatto che le somme siano materialmente erogate da soggetto diverso del datore di lavoro. Conf. Cass., sez. lav., 23 marzo 2001, n. 4262, nel precisare che qualora l’attribuzione patrimoniale costituisca la prestazione di un contratto diverso da quello di lavoro, il giudice di merito deve accertare se tale contratto costituisca lo strumento per conseguire il risultato pratico di arricchire il patrimonio del lavoratore in correlazione con lo svolgimento del rapporto di lavoro subordinato.

La Corte d’appello ha fatto proprio questo accertamento pervenendo alla stessa valutazione del giudice di primo grado: le prestazioni rese dall’ingegner S. quale amministratore o liquidatore di società del gruppo erano da ascriversi al rapporto di lavoro subordinato, quale dirigente, in essere con la società attualmente ricorrente.

La Corte d’appello è pervenuta a questo convincimento sulla base della risultanze documentali di causa.

Ha considerato in particolare la dichiarazione di manleva del 29 gennaio 1997 con cui la società Pizzarotti, datrice di lavoro, si assumeva qualsiasi obbligo da responsabilità civile verso terzi per eventuali azioni o fatti commessi od omessi dall’ingegner S. nell’esercizio delle funzioni di amministratore o liquidatore delle società del gruppo. Tale dichiarazione veniva fatta ai sensi dell’art. 15 del contratto collettivo per dirigenti di aziende industriali, disposizione questa che riguarda la responsabilità civile e/o penale connessa alla prestazione lavorativa. In tale dichiarazione, proprio per in riferimento all’art. 15 citato, può ravvisarsi – secondo la Corte d’appello – un espresso riconoscimento che l’attività dell’ingegner S., quale amministratore e/o liquidatore di 43 società del gruppo indicate nel documento, era direttamente riconducibile al rapporto di lavoro subordinato come dirigente instaurato con la società Pizzarotti. Solo tale riconoscimento, infatti, giustificava l’assunzione di responsabilità della società datrice di lavoro con riferimento a condotte che l’ingegner S. poneva in essere nell’esercizio delle funzioni di amministratore e/o liquidatore della società del gruppo.

La Corte d’appello ha poi richiamato la scrittura privata del 10 giugno 1995 intercorsa tra l’ingegner S. e il dott. P. in rappresentanza della società datrice di lavoro. Le parti convenivano che al ingegner S. spettasse, oltre allo stipendio quale dirigente della società Pizarotti, anche un compenso aggiuntivo (di lire 200 milioni l’anno) che sarebbe stato fatturato alle società del gruppo quale compenso per l’attività svolta quale consigliere di amministrazione. Ciò confermava che il trattamento retributivo dell’ingegner S. era sostanzialmente unitario ed era composto dalla retribuzione in senso stretto come dirigente e dal compenso aggiuntivo come amministratore e/o liquidatore delle società del gruppo.

La Corte d’appello ha poi richiamato anche un ulteriore documento, un protocollo d’accordo in cui si definivano i compensi totali che la società avrebbe dovuto corrispondere al ingegner S. in qualità di dirigente e consigliere di amministrazione della stessa società per gli anni 1996 e seguenti.

La Corte d’appello poi ha posto in rilievo che le risultanze documentali trovavano conferma anche nell’esame delle prove orali consistite nelle deposizioni testimoniali di altri dirigenti; i quali parimenti hanno riferito del meccanismo dei compensi aggiuntivi che integrava il trattamento retributivo come dirigenti.

4. Infondata è anche la censura avente ad oggetto l’indennità sostitutiva per ferie non godute. La Corte d’appello, in sintonia col giudice di primo grado, ha accertato che il mancato godimento di ferie per il dirigente era dipeso da necessità aziendali che erano ostative alla loro fruizione. L’ingegner S., preso dalle numerose incombenze, derivante gli dalla sua posizione apicale, era stato costretto a rinviare il godimento di gran parte delle ferie annuali spettantigli con richiesta al datore di lavoro di provvedere alla corresponsione della relativa indennità sostitutiva. La Corte d’appello ha anzi accertato una prassi aziendale secondo cui le ferie che si accumulavano nell’anno erano destinate ad essere retribuite alla fine del rapporto.

Questa valutazione di merito dalla Corte d’appello è in piena sintonia col principio di diritto affermato da questa corte (Cass., sez. lav., 16 giugno 2009, n. 13953) secondo cui il dirigente, avendo egli il potere di attribuirsi il periodo di ferie senza alcuna ingerenza del datore di lavoro, ove non eserciti il potere medesimo e non usufruisca quindi del periodo di riposo annuale, non ha il diritto all’indennità sostitutiva delle ferie non godute, a meno che non provi la ricorrenza di necessità aziendali assolutamente eccezionali ed obiettive ostative alla suddetta fruizione.

5. Infondata è poi la censura concernente il controvalore dell’uso dell’autovettura aziendale ai fini del calcolo del trattamento di fine rapporto.

Questa Corte (Cass., sez. lav., 22 giugno 2000, n. 8496) ha affermato in proposito che il concetto di retribuzione recepito dall’art. 2118 c.c., comma 2, (ai fini del calcolo dell’indennità di preavviso in caso di licenziamento) e art. 2120 cod. civ. (ai fini del calcolo del trattamento di fine rapporto) è ispirato al criterio dell’onnicomprensività, nel senso che in detti calcoli vanno compresi tutti gli emolumenti che trovano la loro causa tipica e normale nel rapporto di lavoro cui sono istituzionalmente connessi, anche se non strettamente correlati alla effettiva prestazione lavorativa, mentre ne vanno escluse solo quelle somme rispetto alle quali il rapporto di lavoro costituisce una mera occasione contingente per la relativa fruizione, quand’anche essa trovi la sua radice in un rapporto obbligatorio diverso ancorchè collaterale e collegato al rapporto di lavoro. In base al suddetto principio questa corte ha ritenuto di ricomprendere nel calcolo degli emolumenti citati il controvalore dell’uso dell’autovettura di proprietà del datore di lavoro utilizzata anche per motivi personali, le relative spese di assicurazione e accessorie nonchè le polizze assicurative stipulate dal datore di lavoro a favore del lavoratore.

A questo principio si è correttamente attenuta la Corte d’appello.

6. Infondato è anche il motivo attinente alla eccezione di prescrizione sollevata dalla società nei gradi di merito con riferimento al calcolo del trattamento di fine rapporto e alla liquidazione delle ferie non godute.

Va ribadito che la prescrizione del diritto al trattamento di fine rapporto comincia a decorrere al termine del rapporto di lavoro in quanto il relativo diritto si matura al momento della cessazione del rapporto stesso. Conf. Cass., sez. lav., 18 febbraio 2010, n. 3894, che ha affermato che il diritto al trattamento di fine rapporto sorge, a norma dell’art. 2120 cod. civ., al momento della cessazione del rapporto ed in conseguenza di essa, essendo irrilevante, al fine di ipotizzare una diversa decorrenza, l’accantonamento annuale della quota del trattamento, che costituisce una mera modalità di calcolo dell’unico diritto che matura nel momento anzidetto, ovvero l’anticipazione sul trattamento medesimo, che è corresponsione di somme provvisoriamente quantificate e prive del requisito della certezza, atteso che il diritto all’integrale prestazione matura, per l’appunto, solo alla fine del rapporto lavorativo. Ne consegue che la prescrizione del diritto al t.f.r. decorre soltanto dalla cessazione del rapporto lavorativo.

La corte d’appello ha poi respinto l’eccezione di prescrizione con riferimento all’indennità sostitutiva delle ferie per essere generico il motivo di appello; nè questa carenza di specificità è colmata dal relativo motivo del ricorso per cassazione.

7. I motivi di ricorso che attengono al rigetto dell’appello incidentale recano tutti censure di mero fatto afferenti a pretese condotte negligenti dell’ingegner S. in due circostanze: il licenziamento del dipendente V. e la realizzazione delle opere in Francia e segnatamente presso l’aeroporto Charles de Gaulle.

La Corte d’appello ha verificato che in occasione del licenziamento del dipendente suddetto l’ingegner S. aveva agito senza discostarsi dalle direttive dei vertici aziendali.

Anche con riferimento alle opere realizzate in Francia, che avevano visto l’ingegner S. svolgere la funzione di direttore dei lavori, non era risultata alcuna condotta negligente o colposa di quest’ultimo.

8. Il ricorso va quindi rigettato.

Alla soccombenza consegue la condanna della ricorrente al pagamento delle spese processuali di questo giudizio di cassazione nella misura liquidata in dispositivo.

 

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso; condanna la ricorrente al pagamento delle spese di questo giudizio di cassazione liquidate in Euro 50,00, oltre Euro 7.000,00 (settemila) per onorario d’avvocato ed oltre IVA, CPA e spese generali.

Redazione