Rosenzweig – Weil

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Abbiamo considerato finora l’essere umano in termini materiali, gli stesi diritti acquistano un valore di esclusiva materialità non essendo riusciti a fornire nel corso del ‘900 un valore etico positivo all’agire, la violenza è sempre riemersa come qualcosa di antropologicamente presente nell’uomo senza che tuttavia vi sia stata alcuna profonda riflessione, tutto si è affrontato con l’esaltazione della violenza stessa o con un buonismo che non ha fatto che esaltare un ritorno di violenza, passata dal piano materiale a quello psicologico, ma la materialità dell’essere umano non è totale, non può in esso negarsi l’aspetto del sentimento, della ricerca di un senso che non si esaurisce nel pur necessario possedere, fenomeni aberranti nascondono la ricerca di un futuro assoluto, di una speranza seppure deviata e mistificata, manipolata con sottile violenza da altri esseri umani in uno stretto intreccio tra ricerca di un senso e violenza, autori non troppo conosciuti hanno affrontato da diverse angolazioni la ricerca su temi che risultano di per sé facce di uno stesso monolite.

Rosenzweig contrappone al pensiero malato dell’essenza il “nuovo pensiero” sano del buon senso, la filosofia dell’essenza è una tentazione totalitaria che nasce dall’idealismo unidimensionale quale nemico della realtà vivente, che deve precedere qualsiasi conoscere e pensare, si viene a rifiutare una unità sistematica del mondo secondo il pensiero hegeliano, si supera pertanto la rigidità del sistema in favore di una conoscenza della soggettività, la quale comporta la permanenza sulla terra e in questo la paura della propria fine quale risultato dell’essere singolo, questo tuttavia comporta un dovere prendere cura di se stesso e quindi un’assunzione di responsabilità, in contrapposizione alla concezione di Heidegger dove la morte è una semplice manifestazione della frammentazione temporale.

Vi è un “avere bisogno dell’altro” nella inomologabilità della pluralità originaria di Dio, uomo, mondo, la filosofia fin dalle sue origini greche ha un’ottica totalizzante che viene a disprezzare l’universalmente umano, occorre pertanto riconciliare vita e pensiero con una logica sana, riformulando il rapporto tra fede e sapere dove la fede precede il sapere, viene meno la possibilità di una fuga nell’ideale dovendo vivere espressamente, deve quindi ricostituirsi il rapporto tra vita-realtà e un intelletto sano, Rosenzweig recupera il pensare ebraicamente nel volere il buon senso di un sano intelletto umano, è la Legge che costituisce il popolo ma anche il suo destino, essa è “legge religiosa” che presuppone e impone un discorso su Dio, come inversamente non può esservi discorso su Dio senza la legge, questo per Rosenzweig è la discriminante tra la legge ebraica e ogni altra legge.

Obiettivo ultimo è riconciliare la vita con il pensiero oltrepassando la logica fondata sulla diffidenza tra concetto e realtà, l’essenza è superata dalla forma ossia dalla Legge che diventa la via della riunificazione in Dio, essa è esigenza di eternità che nel non soffocare la temporalità più piena fa sì che la legge viva nell’istante, d’altronde la libertà è scelta nella temporalità della realtà la cui creazione è un’autocontraddizione di Dio, che abbandona l’eternità quale massima espressione della libertà nell’istante della creazione, ma la volontà che in essa si esprime contiene già in sé la forma della legge necessaria a plasmare la realizzazione, la via del ritorno per la riunificazione, le nostre leggi umane risultano pertanto frammenti della forma della realtà originariamente plasmata e le scelte che su esse si compiono diventano “destino” della scelta avvenuta.

La fede si rafforza nella violenza subita, che diventa nell’uomo necessità, Weil ci ricorda che la violenza è sempre presente “ in” e “fuori” di noi, una violenza che può assumere forme diverse materiali e immateriali ma tuttavia sempre incipiente, quello che Weil definisce come il “senso dell’uomo” non è un elemento dato, garantito dall’evoluzione, vi è sempre la possibilità di scegliere il male quale violenza quotidiana, una perdita di innocenza che restando nell’uomo ne modifica le qualità senza comprometterne la normalità, quella che è stata definita la “banalità del male” (Arendt), solo il riconoscimento etico di sé e degli altri rende l’animale uomo ragionevole fornendone un senso in una possibile comunità umana, così esso non è uomo di per sé ma lo diviene, senza tuttavia esserlo totalmente, in quanto la violenza nella condizione umana risulta essere onnipresente e pervasiva, la razionalità umana non può quindi ridursi al semplice calcolo delle risorse senza indicare un “fine”, un orientamento morale, si rischia tuttavia di rimanere invischiati nel discorso senza riuscire a spingersi oltre, nella impurità del tempo.

La violenza propria dell’uomo è dallo stesso volta nell’affermazione di una compattezza sociale quando da individuale diventa collettiva, abbiamo bisogno di un nemico in cui riconoscerci e compattarci, un deliberato tentativo di sfruttare la brama di violenza modulandola, la stessa ritualizzazione delle battaglie classiche greche, combattute secondo norme codificate tra cittadini opliti con cadenza annuale, come descritto da Hanson in “L’Arte Occidentale della guerra”, sembra nascondere l’aspirazione a rinsaldare l’unità delle “polis” attraverso il sacrificio ed il pericolo a cui esporre i migliori dei suoi cittadini, vi è l’esternalizzazione della violenza e la sua proiezione nella creazione di un nemico esterno contro cui marciare e lottare affiancati, rinsaldando i nostri legami e dovendo comunque contenere le perdite in un equilibrio precario tra vita e morte, tra individuo e comunità, dove il labile precario confine tra fede e violenza si fonda su una Legge superiore nella quale il divino si riflette nell’individuo, la fede diventa il ragionevole senso dei diritti umani che nel superare un freddo illuminismo è posta tra gli estremi della loro negazione e di un manipolato assoluto individualismo da valutarsi e riassorbire totalmente nel solo aspetto economico, che diventa l’unica realtà dimensionale dell’individuo.

Dott. Sabetta Sergio Benedetto

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