Ritorsivo il licenziamento del dipendente che ironizza sull’azienda in chat

Eleonora Contu 08/02/17
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È stata pubblicata lo scorso 31 gennaio la sentenza della Corte di Cassazione (sez. lavoro) n.2499/17 che ha considerato illegittimo il licenziamento di un dipendente aziendale assunto a tempo indeterminato (in seguito ad una vertenza giudiziaria) poiché ritenuto ritorsivo nei confronti di quest’ultimo. L’addebito disciplinare contestato al  lavoratore consisteva  infatti nell’aver pubblicato su una chat privata del social network Facebook –durante una conversazione con altri colleghi circa gli incontri per il rinnovo del contratto integrativo- una vignetta satirica che rappresentava un coperchio di vasellina cui era sovrapposta una immagine ed il marchio aziendale.

 

VICENDA

 

Il dipendente aveva quindi presentato ricorso presso il Tribunale di Firenze in data 13/03/13, impugnando il licenziamento disciplinare intimatogli dalla società L.G.O. srl per aver appunto offeso gravemente l’immagine aziendale attraverso la pubblicazione su una chat privata di Facebook di una vignetta   satirica lesiva del noto marchio societario. Il Giudice del lavoro- con ordinanza del 07.08.13- aveva quindi annullato il licenziamento sotto il profilo della “mancanza di proporzionalità” tra l’addebito disciplinare contestato e la sanzione imposta. Inoltre con sentenza del giorno 07.01.14, il Tribunale rigettava l’opposizione proposta dalla società ritenendo si configurasse, nel caso di specie, l’ipotesi d’insussistenza del fatto disciplinare (ex art. 18, co.4., l. 300/70) per essere invece stato esercitato il diritto di critica e satira. Anche il reclamo promosso dall’azienda alla Corte d’Appello di Firenze veniva rigettato e si confermava la nullità del licenziamento ritenuto ritorsivo ex art. 18, co.1, l. 300/70. Quindi, secondo la Corte territoriale, il licenziamento sarebbe stato provocato da motivo illecito determinante ai sensi  dell’ art. 1345 c.c.. Dunque l’unico motivo che giustificherebbe il licenziamento sarebbe quello ritorsivo, poiché l’addebito disciplinare avrebbe rappresentato soltanto un pretesto per allontanare nuovamente il dipendente dalla realtà aziendale alla quale aveva fatto ritorno da poco più di un anno in seguito alla vittoria del precedente contenzioso (impugnazione giudiziaria dell’apposizione del termine contrattuale). Inoltre la Corte rigettava l’eccezione-mossa dalla società- di “aliunde perceptum” (consistente nella sottrazione-dal risarcimento del danno dovuto in caso di licenziamento illegittimo-della retribuzione che il lavoratore avrebbe eventualmente percepito da altri datori nel periodo successivo al licenziamento). Difatti pur non trattandosi di un’eccezione in senso stretto ma essendo comunque rilevabile d’ufficio  non poteva essere accolta per mancanza di specificità delle allegazioni e delle richieste di prova del datore. La società L.G.O. s.r.l. ricorreva quindi in Cassazione deducendo i seguenti motivi:

 

–                          Ai sensi dell’ art. 360, co.1, n. 3 c.p.c.,  la violazione dei consolidati principi in tema di oneri probatori del licenziamento ritorsivo poiché nella impugnata  sentenza della Corte territoriale non era presente alcun riferimento a situazioni o elementi di fatto  da cui era possibile trarre la prova del carattere ritorsivo del licenziamento dato che la precedente controversia tra le parti era comunque stata conciliata; inoltre il licenziamento veniva considerato sanzione proporzionata rispetto alla grave lesione dell’immagine aziendale provocata dalla vignetta satirica pubblicata.

 

–                          Ai sensi dell’art.360, co.1, n.5, il secondo motivo di ricorso afferisce al rigetto dell’eccezione di aliunde perceptum. Difatti la Società sosteneva di aver ritualmente richiesto alla giurisdizione adita- sin dalla fase iniziale del giudizio- l’assunzione di informazioni dall’INPS e presso l’Agenzia delle entrate, nonché l’interrogatorio formale del dipendente stesso; tali richieste istruttorie rappresentavano, secondo parte ricorrente, l’unico mezzo di prova dell’aliunde perceptum.

 

La sez. lavoro presso la S.C. riteneva dunque inammissibile il primo motivo di ricorso poiché la proporzione tra la “potenziale” lesione dell’immagine aziendale e la sanzione disciplinare del licenziamento era stata esclusa dalla Corte d’Appello proprio sulla base della limitata divulgazione della vignetta, la cui visione restava riservata ai soli componenti della chat e non aveva avuto nessuna diffusione all’esterno di questa. Per quanto concerne invece il difetto di prova circa il carattere ritorsivo del licenziamento, secondo la S.C., questo si risolverebbe nella deduzione di una insufficienza della motivazione. La Cassazione riteneva altresì infondato il secondo motivo poiché grava sul datore di lavoro l’onere di provare l’aliunde perceptum da detrarre all’ammontare del risarcimento del danno dovuto, e non può esonerarsi da tale incombenza chiedendo il reperimento di informazioni generiche o l’attivazione di poteri istruttori all’organo giudicante adito.

Il ricorso veniva quindi respinto.

Sentenza collegata

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