Risarcibilità del danno da “perdita di chance”: il caso del paziente oncologico sottoposto ad intervento viziato da imperizia che ne riduca le prospettive di sopravvivenza.

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Sommario       1. Premessa      2. Disamina delle circostanze di fatto: il caso dell’intervento viziato da imperizia su paziente affetto da patologia oncologica.          3. Risarcibilità del danno da perdita di chance.           4. Relazioni tra “danno ingiusto” e “perdita di chance”: struttura del nesso causale e rilevanza dell’entità della perdita ai fini della liquidazioni.

 

  1. 1.      Premessa.

La Cassazione civile, sez. III, nella sentenza 27.03.2014 n°  7195 ha chiarito la struttura ontologica della particolare fattispecie di “danno derivante da perdita di chance”.

Grazie alla recentissima pronuncia hanno trovato stabile sistemazione alcuni profili problematicamente suscettibili di estrinsecarsi nelle più policrome interpretazioni.

Nell’economia della presente disamina si darà conto degli importanti principi di diritto cristallizzati nella prosa della Giudice di legittimità, contestualizzandoli nel panorama giurisprudenziale contemporaneo. 

2. Disamina delle circostanze di fatto: il caso dell’intervento viziato da imperizia su paziente affetto da patologia oncologica.

Al fine di non equivocare sul reale perimetro del diritto al risarcimento per come risultante dalla pronuncia in esame occorre precisare alcuni necessari presupposti di fatto.

Si considera certo e non contestato, tanto nella prosa della Corte quanto nelle risultanze di fatto, che la moglie del ricorrente era paziente affetta da tumore ovarico e si era pertanto sottoposta ad apposito intervento per  l’asportazione di un’ovaia presso un Centro di Riferimento Oncologico.

Non grava alcun dubbio sulla circostanza che tale primo intervento presentava un rilevante vizio d’imperizia.

Il team chirurgico aveva infatti prediletto un intervento di chirurgia conservativa, asportando il solo ovaio “sede del tumore primitivo”, senza procedere alla istero-annessectomia bilaterale, operazione certamente più complessa ma atta a garantire un completo isolamento dell’area tumorale ed a prevenire futuri fenomeni di ricomparsa della patologia.

Tale condotta poteva trovare spiegazione nella necessità di preservare l’apparato genitale, circostanza di rilievo opinabile (con le riserve del buon senso) nel caso in esame, trattandosi di paziente cinquantenne.

L’omissione dell’intervento di asportazione completa aveva offerto alla patologia tumorale la possibilità di ripresentarsi, come si evince dai fatti successivi che condussero alla morte della donna ed al ricorso in giudizio del marito contro il Centro Riferimento Oncologico.

Sta a margine, ma non merita oblio, la riflessione circa le prospettive di vita della paziente oltre il quinquennio, risultanti, salvo l’accoglimento di non decisive pirotecnie statistiche, concretamente indeterminabili.

3. Risarcibilità del danno da perdita di chance.

Affinché il personale medico possa essere chiamato in sede di risarcimento del danno risulta imprescindibile un nesso eziologico tra la condotta professionale ed il danno venutosi a produrre.

Ricade dunque nella competenza della corte stabilire an e quantum il comportamento dei sanitari debba configurarsi come concausa del danno.

Si contesta invece, tra le parti, quale debba considerarsi il “danno”.

Il Centro per il Riferimento Oncologico si riferisce alla “morte della donna” stricto sensu e ricusa la responsabilità del personale medico in servizio stante la natura fatalmente incurabile della patologia, mentre controparte deduce come danno il mancato “rallentamento dell’evento morte”, circostanza sussumibile nella fattispecie di perdita di possibilità di sopravvivenza (c.d. chance).

La Corte accoglie questa seconda interpretazione e, nel riesaminare le pronunce dei gradi di giudizio precedenti, accoglie la definizione di chance  quale circostanza funzionale alla realizzazione potenziale di un “risultato utile”.

La chance si atteggia come “entità patrimoniale a sé stante” con propria rilevanza indipendente ed autonoma.

È imprescindibile rammentare che il danno viene a configurarsi anche nel caso di semplice diminuzione delle possibilità di conseguire il risultato, anche qualora questo non si sarebbe realizzato comunque.

La Suprema Corte ricusa le argomentazioni dei giudici di appello, secondo i quali si sarebbe in presenza di  una “perdita consistente” di chance solo quando la probabilità di conseguire il risultato utile sia compromessa per un valore statistico almeno quantificabile nel 50%.

In realtà, in tal caso, si dovrebbe più correttamente parlare di  perdita di “probabilità”, nozione certamente più rilevante ed incisiva rispetto alla più blanda “possibilità” richiesta per la risarcibilità.

Secondo questa linea interpretativa, respinta dal giudice di ultima istanza, nel caso di specie le prospettive di “rallentamento della morte” non sarebbero state inficiate in misura tale da soddisfare il requisito di cui sopra (le affermazioni del Consulente Tecnico d’Ufficio determinano il pregiudizio misurabile nel 41%).

Sta a margine un presunto errore di stima che, attenendo a questioni di fatto e non integrando la fattispecie di vizio di motivazione, rifugge la competenza del giudice di legittimità.

 

4. Relazioni tra “danno ingiusto” e “perdita di chance”: struttura del nesso causale e rilevanza dell’entità della perdita ai fini della liquidazione.

Merita menzione l’ orientamento pregresso della stessa Corte di Cassazione, che in precedente pronuncia aveva ritenuto risarcibile il danno da perdita di chance derivante da intervento chirurgico tardivo, se l’operazione si presentava quale necessaria per evitare l’esito definitivo di un processo morboso mortale.

Nella sentenza n. 23846 del 2008 il giudice di legittimità aveva persino aperto uno spiraglio per individuare la necessaria consistenza del tempo sottratto, per l’imperizia, alla vita del paziente, riferendosi specificatamente ad “alcune settimane” o “mesi”.

 Il facile fraintendimento, imputabile al giudice di merito, risulta dalla sovrapposizione tra il particolare caso del risarcimento per perdita di chance e la più generale nozione di responsabilità aquiliana ex art. 2043.

Si prescrive infatti che, con riferimento alla categoria generale dell’illecito civile per come regolato nel Codice, sussista un necessario nesso causale tra condotta dell’obbligato al risarcimento e danno prodottosi.

Tale nesso causale obbedisce al principio del “più probabile che non” ed, in questa fattispecie generale, ben si inserisce la soglia del 50% alla quale si è fatta menzione nelle premesse argomentazioni.

Non così per il danno derivante dalla perdita di chance, il quale si produce innegabilmente quando vengano ridotte le possibilità di accedere ad un risultato utile, senza che sia effettivamente richiesta una incidenza percentuale minima sul nesso eziologico.

In realtà la consistenza del pregiudizio recato alle possibilità in termini statistici non resta dato inerte, considerata la sua rilevanza ai fini della determinazione del quantum del risarcimento.

Il nesso causale resta un elemento costitutivo fondamentale del fatto illecito, ma si sposta su un diverso livello interpretativo: è necessario che la condotta crei, e qui interviene il “più probabile che non”, una riduzione delle possibilità di qualsiasi entità o natura (fattori questi rilevanti solo per la quantificazione del danno).

Una riflessione semplificativa richiama alla mente che il “danno” è la “perdita di chance” e quindi è sufficiente che il fatto o l’atto abbia una significativa probabilità (in tale ottica si inserisce il nesso di causalità e, forse, quella percentuale indicativa di cui si discorreva) di comprimere le chance.

L’entità della riduzione di chance patita, se ne conclude, si risolve unicamente in criterio generico ai fini della liquidazione del danno.

 

Avv. Gambetta Davide

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