Il rinvio presidenziale delle leggi

Redazione 02/10/04
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di Daniela Assenza

 

CAPITOLO I: FORME DI INTERVENTO DEL CAPO DELLO STATO NEL PROCESSO LEGISLATIVO.

1. Considerazioni generali e comparate.
2. La sanzione regia nelle monarchie parlamentari.
3. Il veto legislativo. Il veto sospensivo negli Stati Uniti d’America.
4. Il potere di rinvio in Francia.
5. Attribuzione al Presidente della Repubblica italiana del potere di rinviare la legge alle Camere nei lavori dell’assemblea costituente.
6. La figura e il ruolo del Presidente della Repubblica nella Costituzione italiana.

CAPITOLO II: LA PROMULGAZIONE.

1. Premessa.
2. La funzione legislativa e il Presidente della Repubblica.
3. La promulgazione e il problema della partecipazione del Presidente della Repubblica alla funzione legislativa.
4. Promulgazione e controfirma.
5. Termine di promulgazione.

CAPITOLO III: IL POTERE DI RINVIO

1. Il potere presidenziale di rinvio della legge in generale.
2. Motivi del potere di rinvio.
3. Il rinvio per motivi di incostituzionalita’.
4. Il rinvio presidenziale e le posizioni della dottrina.
5. Le indicazioni ricavabili dalla prassi dei messaggi di rinvio.
6. Il rinvio delle leggi di iniziativa governativa.
7. Il rinvio delle leggi di conversione dei decreti legge.
8. Leggi dichiarate urgenti.
9. Dubbi in ordine alla possibilità di rinvio delle leggi costituzionali e di revisione costituzionale.
Il messaggio di rinvio e la nuova deliberazione delle Camere.
11. Il rinvio in periodo di scioglimento delle Camere.

BIBLIOGRAFIA

CAPITOLO I
FORME D’INTERVENTO DEL CAPO DELLO STATO NEL PROCESSO LEGISLATIVO.

1. CONSIDERAZIONI GENERALI E COMPARATE.

In ogni ordinamento statale uno dei punti di maggiore importanza è quello che attiene alla formazione delle leggi, in particolare ciò che concerne gli organi cui appartiene il potere di legiferare.
Già con la rivoluzione francese, la ‘separazione dei poteri’, accennata da Locke e teorizzata da Montesquieu, fa il giro del mondo e troverà attuazione in larga misura, se pur con i diversi adattamenti, nelle forme di governo degli Stati contemporanei. Secondo tale teoria, nell’ambito di un ordinamento statale, ciascun organo esercita la sua competenza in via tendenzialmente esclusiva, senza condizionamento degli altri organi. Un esempio di rigida applicazione del principio della separazione dei poteri è dato dalla Costituzione americana, dove Congresso (organo legislativo) e Presidente (orano esecutivo) non sono legati da alcuna relazione fiduciaria. Diversamente accade nelle forme di governo parlamentare dove sono previsti strumenti di collegamento e coordinamento tra i vari organi, in base ad un’applicazione attenuata della separazione dei poteri. Nelle forme di governo parlamentare vediamo quindi che l’Esecutivo e il Legislativo sono raccordati da un rapporto di fiducia che presuppone l’esistenza o la creazione di una maggioranza parlamentare d’appoggio politico al Governo; accanto ai due poteri si colloca il Capo dello Stato (monarchico e repubblicano) escluso dalla funzione di governo e investito invece di funzioni di controllo non giurisdizionale e anche d’intervento attivo ai fini di garanzia costituzionale. È necessario rilevare l’importanza fondamentale del riconoscimento di un diritto di partecipazione, in qualsiasi forma, al Capo dello Stato nel processo legislativo. “Il riconoscimento di un tale diritto, infatti, consente di valutare la posizione del Capo dello Stato, corrispondendo di solito ad un rafforzamento della sua posizione costituzionale un aumento della sua influenza nella legislazione e, viceversa, importando l’indebolimento della sua posizione una minor efficacia di quella sua prerogativa.”1 Nell’esame delle forme d’intervento del Capo dello Stato nel processo legislativo, è utile trattare innanzi tutto la sanzione regia,tipica della monarchia parlamentare britannica, in seguito il veto sospensivo adottato nel sistema presidenziale degli Stati Uniti e, infine, il sistema di rinvio con richiesta di una seconda deliberazione, tipica del semi-presidenzialismo francese e del sistema parlamentare italiano.

2. LA SANZIONE REGIA NELLE MONARCHIE PARLAMENTARI.

Uno dei caratteri utili alla distinzione fra forma monarchica e forma repubblicana di governo è dato dalla partecipazione del Capo dello Stato al processo legislativo, che generalmente si manifesta propriamente solo nelle monarchie mediante la sanzione, mentre nelle repubbliche si ha una specie di veto. La distinzione è passibile d’eccezioni e deroghe.2 La sanzione è l’atto giuridico attraverso cui il Monarca partecipa all’attività legislativa, trasformando il progetto di legge in legge. Il rifiuto dell’approvazione comporta la caduta del progetto. Quindi, in caso di rifiuto di sanzione, vi è un progetto di legge che non si perfeziona per la mancanza del concorso della volontà del Monarca. Questo carattere d’atto legislativo della sanzione regia serve per distinguere l’istituto in esame da un altro similare quale il veto legislativo. Infatti, con veto legislativo, il Capo dello Stato non partecipa all’attività legislativa; la legge esiste ed è perfetta, indipendentemente dalla sua volontà, che non può porre nel nulla le decisioni delle Assemblee, anche se può differirne o impedirne l’efficacia. La sanzione, a differenza del veto, è partecipazione diretta e piena all’attività legislativa; usando le celebri formule del Montesquieu, la sanzione è Facultè de statuer, facoltà cioè di “ordinare per se stessi o di correggere ciò che è stato ordinato da altri”, mentre il veto rientra nella Facultè d’empecher cioè diritto di opporsi ad una decisione altrui. Per ciò che riguarda la sanzione regia, vediamo che una tipica applicazione dell’istituto si ritrova in Inghilterra. La forma di governo adottata dalla Costituzione inglese è di tipo parlamentare, attualmente è caratterizzata da una netta prevalenza del Governo, rientrando pertanto nello schema del c.d. parlamentarismo maggioritario. La Costituzione inglese, nella sua evoluzione, ha mantenuto il carattere monarchico dello Stato. Gli Organi principali sono la Corona, il Parlamento e il Governo. Il Parlamento è composto dalla Corona, dalla Camera dei Comuni, e dalla Camera dei Lords, ma si fonda essenzialmente sulla Camera dei Comuni. La Corona presenta valore simbolico dell’identità nazionale e i poteri riconosciuti ai titolari sono essenzialmente formali ed esercitati dal Governo. Una delle principali manifestazioni dei poteri riconosciuti al Monarca (Royal prerogative) riguarda il suo intervento nel processo legislativo (Royal assent). Poiché il Monarca è uno dei tre organi legislativi, costituendo un ramo del Parlamento, vediamo che la legge è perfetta quando il Monarca è intervenuto con l’atto di sanzione. Da un punto di vista della procedura, ricordiamo che la sanzione regia si concretizza nella formula tradizionale, nell’antica lingua Franco-normanna “Le Roy-la Reine le veult” che normalmente non è pronunciata nemmeno dal Monarca, ma per tramite di Lords Commissioners nominati a tal scopo. Occorre ricordare che l’ultimo caso di rifiuto di sanzione risale al 1707, quando la Regina Anna si oppose allo Scottish Militia Bill. Per questo motivo alcuni, tra cui il Bompard o il Dicey, hanno negato valore attuale alla sanzione regia tranne che di mera formalità. Secondo altri, invece, appare eccessivo parlare di venir meno dell’istituto della sanzione regia per desuetudine. Piuttosto, il Cuoculo sostiene che tale disuso sia causato dal fatto che dal 1707 in poi il sistema parlamentare è divenuto effettivo ed è cresciuta anche l’importanza del Governo, attraverso il quale il Monarca esercita grande influenza sulle Camere. Proprio nell’evoluzione costituzionale deve trovarsi il motivo del disuso del rifiuto di sanzione, e cioè nella concordanza di interessi tra Monarca e Parlamento. Ne consegue che tale rifiuto potrebbe rivivere ove se ne ripresentasse l’occasione. L’istituto della sanzione è adottato nella quasi totalità delle monarchie parlamentari moderne.

3. IL VETO LEGISLATIVO. IL VETO SOSPENSIVO NEGLI STATI UNITI D’AMERICA.

Accanto alla sanzione regia si pone il veto legislativo. Il veto è lo strumento con il quale i Presidenti della Repubblica, almeno in via di principio, partecipano all’attività legislativa. Infatti, tale istituto è maggiormente conciliabile con una forma repubblicana, visto che non implica la diretta partecipazione del Capo dello Stato al processo legislativo; la legge esiste ed è perfetta indipendentemente dalla sua volontà che può solamente esplicarsi in una seconda fase, nella fase cioè della promulgazione, prima di effettuare la quale può essere opposto il veto. Il veto quindi si manifesta in un momento successivo rispetto alla formazione della legge, ponendosi come strumento formale di condizionamento da parte del Capo dello Stato rispetto al Parlamento. Infine il veto, a differenza della sanzione, che è una manifestazione della volontà del Sovrano che non richiede motivazione, esige l’esposizione dei motivi in base ai quali è opposto. Un tipico esempio di applicazione dell’istituto del veto, precisamente del veto sospensivo, si trova nella Costituzione degli Stati Uniti d’America. Tale Costituzione disciplina una forma di governo che è definita “presidenziale”. Con tale formula si suole indicare una forma di governo in cui il principio classico della separazione dei poteri è stato applicato in modo rigido, tenendo ben distinti il potere legislativo dal potere esecutivo. L’Esecutivo è rappresentato dal Presidente, capo di stato e capo di governo allo stesso tempo, eletto senza mediazione del parlamento (Congresso) e senza previsione di un vincolo fiduciario nei confronti di questo. Il Congresso non può provocare le dimissioni del Presidente revocandogli la fiducia, e al Presidente non è riconosciuto il potere di scioglimento del parlamento. Entrambi traggono legittimazione direttamente dalla collettività nazionale per cui si verifica un delicato equilibrio, trovandosi i due organi in posizione assolutamente paritaria, a differenza di ciò che avviene in un sistema parlamentare in cui solo il Legislativo è scelto dall’elettorato. Il Presidente, capo dell’esecutivo, gioca un ruolo di massima importanza anche in materia legislativa sia al momento iniziale sia al momento finale del procedimento. Per quanto riguarda l’iniziativa legislativa, vediamo che la Costituzione degli Stati Uniti affida tale potere esclusivamente ai membri del Congresso. Tuttavia, di fatto, le cose si svolgono diversamente. Attraverso il potere di raccomandazione, riconosciuto dall’art. 2 della costituzione, che consiste nella possibilità di informare e raccomandare al Congresso quei provvedimenti che ritiene necessari e convenienti, il Presidente esercita un potere di iniziativa legislativa. Sotto un profilo puramente formale, resta il fatto che, per dar vita al procedimento legislativo, un membro del Congresso deve far propria la proposta legislativa del Presidente. Per queste ragioni una parte di dottrina italiana ha adottato l’espressione di “potere di impulso legislativo presidenziale”.3 I giuspubblicistici d’oltreoceano definiscono il Presidente come legislative Leader. E’ invece la Costituzione a prevedere all’art. 1, sezione VII, l’intervento presidenziale a conclusione dell’iter legislativo: “Qualsiasi progetto di legge che abbia ottenuto l’approvazione della Senato e della Camera dei Rappresentanti deve essere presentato, prima di diventare legge, al Presidente degli Stati Uniti…”.
Quando viene presentato un progetto di legge, il Capo dello Stato può:
a) firmare il progetto, che in tal caso diventa senza dubbio legge;
b) esercitare il potere di veto sospensivo, rinviandolo con le proprie osservazioni alla Camera in cui ha avuto origine.
c) astenersi dal prendere posizione in merito al progetto: in tal caso diventerà legge, decorsi dieci giorni, dalla presentazione, pur senza la firma del Presidente. Se però, in tale periodo, il Congresso si aggiorna (impedendo il rinvio), quest’effetto non si produce ed il silenzio del Presidente vale ad impedirne la trasformazione in legge: è questo il così detto pocket veto.4
Per quanto riguarda il rinvio, questo può essere motivato da ragioni di illegittimità costituzionale o da semplici valutazioni di opportunità politica. Qualora il Presidente non intenda approvare il progetto, lo rinvia alla Camera in cui ha avuto origine, con le sue osservazioni. Se, dopo questa discussione, due terzi dei membri della Camera si dichiarano favorevoli al progetto, questo è inviato, sempre con le osservazioni presidenziali, all’altra camera che deve ridiscuterlo. Qualora anche questa approvi il progetto con maggioranza qualificata dei due terzi, il procedimento legislativo si conclude senza che sia necessaria la sottoscrizione presidenziale.
Infine, si noti che il Presidente deve consentire od opporsi all’intero progetto, non potendosi effettuare un rinvio parziale. Il sistema in esame è risultato, negli Stati Uniti, molto efficace, affermandosi come fattore di equilibrio nei complessi rapporti tra l’esecutivo e il legislativo.

4. IL POTERE DI RINVIO IN FRANCIA.

Abbiamo visto come l’istituto del veto sia, in linea di principio, caratteristico dei sistemi repubblicani. Ciò si verifica essenzialmente perché con il veto non si attribuisce al Capo di stato un potere di piena e diretta partecipazione al processo legislativo. Un altro tipo di intervento nella formazione delle leggi tipico di sistemi repubblicani è il potere di rinvio. Tale istituto esiste nel sistema costituzionale francese e in quello italiano, con la sola differenza di un termine di promulgazione più ampio previsto nel nostro ordinamento: esattamente il doppio. La Costituzione francese, risalente al 1958, disciplina una forma di governo parlamentare con un rafforzamento della posizione del Presidente della Repubblica. Per quanto riguarda l’intervento del Capo dello Stato nel processo legislativo, la Costituzione prevede: “ Il Presidente della repubblica promulga le leggi entro 15 giorni dalla trasmissione al Governo del testo definitivamente approvato. Può, prima della scadenza del termine, chiedere al Parlamento una nuova deliberazione della legge o di alcuni suoi articoli. La nuova deliberazione non può essere rifiutata”. Si tratta del normale potere di promulgazione riconosciuto Capo dello Stato e, in relazione allo stesso, dell’eventuale rinvio alle Camere del testo già approvato.

5. ATTRIBUZIONE AL PRESIDENTE DELLA REPUBBLICA ITALIANA DEL POTERE DI RINVIARE LE LEGGI ALLE CAMERE NEI LAVORI DELL’ASSEMBLEA COSTITUENTE.

Il 2 giugno 1946 costituisce una data fondamentale della storia costituzionale italiana. In tale giorno si svolse, infatti, la votazione con cui fu scelta la forma repubblicana e furono eletti i deputati all’Assemblea costituente. L’Assemblea cominciò i suoi lavori il 22 giugno 1946 e procedette ad eleggere Enrico De Nicola alla carica di capo provvisorio dello Stato. Occorre sottolineare che l’elezione dell’Assemblea costituente non segnò subito la restaurazione della forma di governo parlamentare. Se, infatti, fu restaurato il meccanismo di fiducia e responsabilità politica fra un organo rappresentativo e il Governo, quest’ultimo continuò ad esercitare la funzione legislativa, mentre solo in singoli casi si ebbero leggi approvate dalla Costituente, la quale concentrò il suo lavoro sulla redazione della nuova Costituzione.5
Si affidò il progetto di Costituzione ad una Commissione interna all’Assemblea stessa, la c.d. Commissione dei Settantacinque; tale commissione a sua volta si suddivise in tre sottocommissioni, competenti rispettivamente per i diritti civili, i rapporti economici e sociali, l’organizzazione dello Stato.6 Il progetto fu sottoposto all’Assemblea nel gennaio del 1947; la Costituzione fu approvata nel successivo dicembre, per essere poi promulgata dal capo di Stato provvisorio il 27 dicembre ed entrare in vigore il I gennaio 1948. La forma di governo adottata dalla Costituzione fu quella parlamentare affiancata da correttivi.7 Per ciò che concerne l’intervento del Capo dello Stato nel processo legislativo, vediamo che la posizione di questo risulta strettamente collegata con la forma di governo adottata dalla Costituzione, che, come appena detto, è quella parlamentare. Questo implica che la posizione del Presidente della Repubblica Italiana non può essere equiparata a quella del Presidente della Repubblica di ordinamenti con altre forme di governo. Ciò non significa però che esso non sia titolare di una serie di funzioni rilevantissime. Il problema del ruolo del Capo dello Stato nella formazione delle leggi fu studiato inizialmente nell’ambito di quella sottocommissione, cui si è accennato, competente alla riorganizzazione dello Stato. All’interno della sottocommissione, la maggioranza sosteneva una partecipazione diretta del Capo dello Stato all’atto legislativo, mediante la sanzione, la minoranza optava invece per il veto. Entrambe erano concordi nel ritenere che, sia nel caso di sanzione sia nel caso di veto, l’opposizione del Capo dello Stato dovesse avere come conseguenza la restituzione dell’atto legislativo alle Camere per un riesame. Qualora queste avessero confermato le loro deliberazioni con la maggioranza qualificata, la legge avrebbe acquistato definitiva validità. La questione relativa alla partecipazione del Capo dello Stato alla formazione della legge fu decisa definitivamente dall’Assemblea plenaria. Nelle discussioni dell’Assemblea Costituente emergevano essenzialmente due posizioni. Da un lato la sinistra, che si opponeva al riconoscimento di poteri effettivi al Presidente della Repubblica, votava favorevolmente all’enunciazione del I comma dell’art. 87 per cui il Presidente della Repubblica è il Capo dello Stato e rappresenta l’unità nazionale, formula di mero prestigio, ma che si oppone al riconoscimento di potere effettivo e in particolare al potere di scioglimento e a quello di rinviare le leggi per una seconda deliberazione. Questa teoria contraddiceva però l’intenzione di realizzare un sistema parlamentare di governo, visto che l’equilibrio era rotto a vantaggio dell’Assemblea. Accanto a questa posizione ce n’era un’altra che vedeva il Capo dello Stato partecipe in maniera diretta del potere legislativo e titolare del diritto di sanzione. Esponenti principali di tale teoria erano gli onorevoli Orlando, Bozzi e Codacci-Pisanelli. I fautori di questa tesi sostenevano che il trapasso dalla forma monarchica alla forma repubblicana doveva avere come unica conseguenza la caduta della species re, ma non del genus Capo dello Stato, al quale pertanto dovevano continuare ad essere attribuiti tutti i poteri spettanti al Re.8 Tale proposta fu ripudiata dall’Assemblea che accolse la proposta di attribuire al Capo dello Stato il potere di rinviare le leggi alle Camere per una nuova deliberazione.
Questa possibilità era stata prospettata dall’onorevole Mortati in sede di Sottocommissione e dall’On. Bozzi che aveva ripiegato su questa dopo che era stata respinta la proposta di concedere il diritto di sanzione. Fu ripresa dagli onorevoli Baronia e Aldisio con un emendamento che avrebbe dovuto costituire il IV comma dell’art. 83 del progetto (art. 87 Cost.). Fu accolta dalla Commissione dei settantacinque che, per bocca dell’On. Tosato, ne propose una diversa formulazione. Dopo la discussione alla quale si è accennato, era approvata la I parte del II comma dell’art.71 del progetto, nell’emendamento presentato dall’On. Bozzi che ritirò peraltro la parte finale di tale comma che richiedeva la maggioranza assoluta nella seconda deliberazione.9 Tale comma diviene, nella stesura definitiva, l’art. 74 Cost. che recita testualmente: “Il Presidente della Repubblica, prima di promulgare la legge, può, con messaggio motivato alle Camere, chiedere una seconda deliberazione. Se le Camere approvano nuovamente la legge, questa deve essere promulgata”. Il Capo dello Stato, quindi, non sarebbe stato partecipe della funzione legislativa, configurandosi il potere presidenziale come congegno stabilizzatore che avrebbe aiutato a fronteggiare i pericoli di una forma parlamentare pura.10

6. LA FIGURA E IL RUOLO DEL PRESIDENTE DELLA REPUBBLICA NELLA COSTITUZIONE ITALIANA.

Prima di affrontare l’esame dell’intervento del Capo dello Stato nel processo legislativo, a mio avviso, è opportuno cercare di ricostruire il ruolo che questo assume nel sistema parlamentare italiano. Nella dottrina italiana è divenuta dominante la configurazione garantistica del Presidente della Repubblica, secondo cui il Capo dello Stato viene ad assumere la figura e il ruolo di supremo garante della Costituzione. A tale concezione si oppone quella che vede il Capo dello Stato come struttura, in via normale o in via eccezionale, governante. La ricostruzione della figura e del ruolo del Presidente della Repubblica come struttura di garanzia costituzionale risale, nella sua prima formulazione, all’entrata in vigore della Costituzione. Tale funzione di garanzia costituzionale è individuata nell’attività esercitata dal Presidente della Repubblica in sede di promulgazione della legge e anche in occasione dell’esercizio d’altre sue attribuzioni. Per ciò che concerne la promulgazione (secondo i lavori preparatori alla Costituzione), l’attività svolta dal Presidente della Repubblica appariva strutturalmente come attività accessoria e integratrice rispetto a quella del Governo, perché sopravveniva sull’atto governativo già formato in tutti i suoi elementi. L’istituto della promulgazione presentava tutte le caratteristiche di una funzione di controllo; di un controllo giuridico, non libero, vincolato dal diritto, e più precisamente dalla Costituzione. Tale funzione si riproduceva non solo in sede di promulgazione della legge, come appena rilevato, ma anche nell’attività esercitata dal Presidente della Repubblica in occasione dell’esercizio delle altre sue attribuzioni. Il ruolo di controllo costituzionale diviene caratteristica fondamentale di tale organo già nei primi anni successivi alla promulgazione della Costituzione, tuttora ben presente nella dottrina, è stato portato avanti con raffinamenti teorici e ulteriori argomentazioni dal Galeotti. Tale concezione però, nella sua prima formulazione ancorata al meccanismo della proposta-controfirma (di cui all’art.89 Cost.), confinava la funzione di controllo costituzionale del Capo dello Stato ad un ruolo soltanto negativo. Il tempo e la prassi servirono alla revisione di tali meccanismi. Già in occasione del primo esercizio del potere di rinvio (di cui art. 74 Cost.) della presidenza Einaudi nel 1949, si avverte l’esigenza inderogabile di superare l’assolutezza di un’univoca interpretazione dell’art. 89 Cost. Per le attribuzioni che si rifacevano, per loro natura, al ruolo di garanzia tipico del Capo dello Stato, s’imponeva un’interpretazione diversa del meccanismo proposta – controfirma che facesse escludere in quei casi una proposta governativa, lasciando al Ministro controfirmante solo un ruolo formale di riscontro e d’autenticazione per la validità dell’atto.11 Si apriva così la strada per la configurazione di un ruolo di controllo non più soltanto negativo.
Secondo il Galeotti, fu soprattutto merito di Guarino sviluppare e proporre la ricostruzione della posizione costituzionale del Presidente della Repubblica come garante della Costituzione. L’autore sottolineava soprattutto l’imparzialità del Capo dello Stato e in particolare l’estraneità dalla funzione di governo. Il Guarino distingueva, da un lato, i decreti presidenziali che sono frutto dell’indirizzo governativo (rispetto ai quali l’attività presidenziale si esplica come controllo negativo e per i quali vale il tradizionale meccanismo previsto dall’art.89 Cost.), dall’altro lato, gli atti tipicamente presidenziali, dove l’iniziativa appartiene al Presidente della Repubblica, sicchè il ruolo dei due organi s’inverte, diventando determinante il ruolo del Presidente, mentre al Ministro controfirmante viene a spettare solo un ruolo di controllo, con esclusione d’ogni proposta governativa, poiché qui l’art. 89 s’impone solo per l’obbligo della controfirma.
Secondo il Galeotti, cui spetta il merito di aver elaborato e raffinato tale concezione, nella ricostruzione del Guarino residuavano elementi contraddittori in relazione alla configurazione della funzione di garanzia. Il Guarino precisava che il Capo dello Stato “ è garante della Costituzione, intendendo l’espressione in senso politico”; aveva parlato “d’atti autonomi presidenziali come d’atti che esorbitano dalla funzione politica del Governo, e sono invece espressione dell’indirizzo politico del Presidente”, aveva del resto osservato che “Presidente e Governo esercitano due funzioni politiche e che queste funzioni politiche sono distinte”. Secondo il Galeotti tale categoria d’atto politico, cioè d’atto libero nel fine, non risulta appropriata e non può applicarsi correttamente al caso della funzione di garanzia del Capo dello Stato, che non è mai libera ma vincolata al diritto e, nella specie, alla Costituzione. Ad esempio, a proposito dell’esercizio del potere di rinvio (art.74 Cost.) e dell’eventuale rifiuto di promulgare (implicito nell’art. 73 Cost.), il Galeotti sostiene che in questi casi il Capo dello Stato esercita un controllo che non è mai libero, ma vincolato ai principi che reggono la posizione e la funzione dell’ufficio presidenziale.
Come prima già sottolineato, attualmente, nella dottrina italiana è dominante la configurazione garantistica del Presidente della Repubblica. Il Rossano, ad esempio, riconosce al Presidente della Repubblica una posizione prevalentemente di controllo, che si esprime anche con la possibilità del rinvio della legge alle Camere o con l’eventuale richiesta di riesame dei propri atti rivolta al Governo, in una visione garantistica che si traduce in un bilanciamento tra i poteri in un reciproco condizionamento. Quando il Capo dello Stato esercita il potere di rinvio di una legge, svolge essenzialmente una funzione di controllo. Infatti, la legge, il decreto legge ed il decreto legislativo sono posti in essere rispettivamente dal Parlamento e dal Governo nell’esercizio del potere legislativo. Sono essi a determinarne il contenuto; segue poi la volontà del Presidente che si manifesta, a seconda dei casi, nella promulgazione o nell’emanazione. La volontà del Presidente presuppone quindi già formati gli atti da promulgare o da emanare. E ciò in coerenza, del resto, con le previsioni costituzionali che attribuiscono la funzione legislativa al Parlamento (art.70 Cost.) e, soltanto in via di delega o in casi eccezionali, al Governo (art. 76- 77 Cost.) e mai al Presidente della Repubblica, privo anche di potere d’iniziativa legislativa. Per il Rossano, in definitiva, il Presidente della Repubblica esercita sempre poteri che sono suoi propri che non possono essere fatti rientrare nei poteri che spettano ad altri organi siano essi esecutivi o legislativi. Si tratta di poteri d’esecuzione costituzionale, connessi con la particolare posizione che assume il Presidente nell’ambito del potere esecutivo, inteso in senso ampio.12 Anche Rizza, in un saggio sulla “rivisitazione del ruolo del Presidente della Repubblica nel sistema parlamentare”, ritiene fondata la concezione ormai classica del Capo dello Stato come organo di controllo e anche d’intervento attivo a fini di garanzia costituzionale.
Alla concezione “garantistica” si oppone quella sostenuta dall’Esposito L’Autore muoveva contro le tesi del Presidente della Repubblica configurato come “garante della Costituzione” definendole polemicamente “concezioni mistiche”. Il principale bersaglio della critica dell’Esposito era proprio la configurazione del Capo dello Stato come organo imparziale, su cui praticamente si fondava l’opposta concezione del Presidente come garanzia costituzionale. Di conseguenza, secondo tale autore, nel regime parlamentare italiano, il Capo dello Stato “non differisce dalle altre istituzioni per la qualità del potere esercitato, ma è una delle istituzioni politiche che, come le altre, ma in via subordinata, ha la possibilità di far valere le proprie direttive, tendenze, opinioni e orientamenti”. L’Esposito riconosce un ruolo del Presidente della Repubblica di struttura politica in via subordinata e passa poi ad affermarlo come preminente e decisivo nei casi eccezionali. Alla carica di Capo dello Stato inerirebbe, infatti, la possibilità di elevarsi in periodo di crisi a reggitore dello Stato. Secondo tale dottrina, il Capo dello Stato avrebbe la possibilità di trasformarsi, in periodo di crisi, da Capo formale in Capo effettivo dello Stato. L’Esposito sostiene che solo “questa possibilità del Capo dello Stato parlamentare di trasformarsi, in caso di crisi, da capo formale in capo sostantivo dello Stato” legittima l’appellativo di custode della Costituzione, opponendosi così al Galeotti secondo il quale, invece, il Presidente è “custode della Costituzione” nel senso che egli debba controllare la conformità alla Costituzione dei singoli atti ai quali partecipa. Alla concezione definita garantistica si oppone un’altra tesi, che muovendo da una delle molteplici interpretazioni della teoria del “potere neutro” del Capo dello Stato, finisce per confluire in una concezione politicizzante del Presidente della Repubblica. Secondo tale opinione, sostenuta da Baldassarre, il Capo dello Stato è “potere neutro” non nel senso che prende decisioni fondamentali (come invece sostenuto da Esposito, Schmitt), ma nel senso che “è un potere che sta in mezzo ai poteri attivi per moderarli”; secondo tale concezione, il Capo dello Stato adempirebbe funzioni di moderazione, di relativizzazione delle contrapposizioni politiche, nonché di superamento di conflitti politici che potrebbero impedire il buon funzionamento del sistema costituzionale.

CAPITOLO II

LA PROMULGAZIONE.

1. PREMESSA.

Il Presidente della Repubblica nel sistema di governo attuale non ha l’estensione di poteri che, secondo lo Statuto Albertino, spettavano al Re. Il sistema parlamentare tende a realizzare un equilibrio fra i tre organi costituzionali politici, per questo non può affermarsi che esista netta prevalenza di uno di essi sugli altri. Tuttavia una spiccata rilevanza è affidata al Parlamento. La Costituzione, per realizzare l’equilibrio tra i tre organi costituzionali, affida al Presidente della Repubblica un’altissima posizione nella vita dello Stato. Infatti, egli assume spesso un ruolo di “equilibratore” nella delicata sfera dei rapporti tra le autorità statali. Il peso della sua autorità è evidente, oltre che nei momenti di crisi, anche nello svolgimento fisiologico dell’attività statuale, attraverso l’esercizio di talune facoltà di controllo e indirizzo. Il compito essenziale del Presidente della Repubblica è di assicurare la difesa dei fondamentali interessi dello Stato che risultano dalla Costituzione e di favorire l’adeguamento dell’azione degli organi costituzionali politici alle istanze unitarie della società nazionale.13 Il Capo dello Stato, come risulta dall’art. 87 Cost., è individuato come l’unico organo abilitato ad avere una visione superiore e coordinata degli interessi costituzionali e dello Stato, valori questi intangibili del sistema democratico.

2. LA FUNZIONE LEGISLATIVA E IL PRESIDENTE DELLA REPUBBLICA.

Il potere legislativo spetta istituzionalmente al Parlamento che, secondo la formula democratica, è l’organo più idoneo ad esprimere fedelmente la volontà del paese. Tale funzione solo eccezionalmente è delegata al Governo, ma ciò non incide in maniera sostanziale sulla potestà legislativa delle Camere. Da ciò deriva che il Parlamento è essenzialmente libero, in linea di principio, di fissare il contenuto dei suoi atti, sulla base di un’ampia e discrezionale valutazione degli interessi nazionali. Può accadere, tuttavia, che il Parlamento crei delle norme in contrasto con la Costituzione; può darsi che, pur essendo le norme conformi alla Costituzione, contrastino con gli interessi fondamentali della società o con manifestazioni della coscienza collettiva. Nel sistema vigente un correttivo contro i pericoli denunciati esiste in forma eventuale e condizionata. Tale rimedio consiste nella concessione ex art. 74 Cost. del potere di rinvio. Tale atto non incide nel processo di formazione della legge, pur impedendone, per forza estrinseca, l’efficacia; il risultato positivo di tale controllo, infatti, dipende dalla volontà delle Camere che sono le sole che possono determinare il contenuto della legge. Tale momento di controllo presidenziale va distinto dalla promulgazione. La promulgazione della legge e il potere di rinvio sono disciplinati nella Costituzione, rispettivamente, dagli art. 73-74. Il primo tratta la fase finale del procedimento legislativo, il secondo è tutto incentrato sulla struttura e sulla misura del potere attribuito al Presidente. Risulta evidente che tale potere, comunque, è definito da entrambi gli articoli; ovviamente, rimangono concettualmente distaccate la pubblicazione e l’entrata in vigore della legge, alle quali si riferisce il solo art. 73. Il potere del Capo dello Stato è individuato come potere di veto sospensivo. Quindi il Presidente della Repubblica non è partecipe del potere legislativo, ma svolge una funzione stabilizzatrice dei poteri dello Stato.

3. LA PROMULGAZIONE E IL PROBLEMA DELLA PARTECIPAZIONE DEL PRESIDENTE DELLA REPUBBLICA ALLA FUNZIONE LEGISLATIVA.

La promulgazione della legge è disciplinata, nel nostro ordinamento, dalla Costituzione, esplicitamente dagli art. 73, 74 e 87 comma 5, in modo implicito dall’art.89, 2 comma. Mentre l’art.87 comma 5 si limita ad attribuire al Presidente della Repubblica il potere di promulgare le leggi, l’art. 73, oltre ad affermare la medesima attribuzione, contiene la disciplina per l’esercizio di tale potere. Disciplina che attiene, innanzitutto, alla fissazione del termine di promulgazione e alla collocazione della promulgazione come fase intermedia tra l’approvazione parlamentare della legge e la sua successiva pubblicazione.
L’art. 74 attribuisce al Presidente della Repubblica uno specifico potere, da esercitare entro il termine previsto per la promulgazione (30 giorni), e comunque in alternativa a quest’ultima: il potere di chiedere alle Camere, con messaggio motivato, una nuova deliberazione della legge, al cui eventuale esercizio consegue però l’obbligo di promulgazione, se le Camere approvano nuovamente la legge. Tuttavia, l’attenzione che vi dedica il testo della Costituzione non chiarisce appieno tutti gli aspetti ad essa correlati, soprattutto in ordine al rapporto tra la promulgazione e le deliberazioni delle due Camere.
Non poche sono le questioni sollevate dall’interpretazione delle citate disposizioni costituzionali. Venuto meno, con l’entrata in vigore della Costituzione, l’istituto della sanzione della legge, per effetto dell’attribuzione esclusiva della funzione legislativa alle Camere, è rimasto in piedi l’atto di promulgazione da parte del Presidente della Repubblica; il che ha suscitato l’incertezza se la promulgazione abbia mantenuto, oppure no, natura legislativa. I sostenitori della tesi affermativa pervengono a questa conclusione, sottolineando che la deliberazione delle Camere sarebbe ancora un progetto di legge fino a quando non è promulgata dal Capo dello Stato; e tale resterebbe allorché questi la rinviasse alle Camere per una nuova deliberazione. Dagli studi sul potere presidenziale deriva una valorizzazione del potere del rinvio nel quadro generale della promulgazione. Infatti, si può affermare che la possibilità di rinvio contribuisce in modo determinante alla definizione della promulgazione. Alla tesi che sostiene il carattere legislativo della promulgazione va, poi, opposto l’argomento testuale secondo cui le “leggi” sono promulgate dal Presidente, che resterebbe fuori dall’esercizio della funzione legislativa nel promulgare la legge, non avendo in ogni caso il potere di impedire definitivamente alla deliberazione delle Camere di produrre effetti propri, come testimoniano, tanto la doverosità della promulgazione (art. 73 comma 1), quanto la conseguenza dell’approvazione da parte delle Camere del testo a queste rinviato dal Capo dello Stato (art. 74 comma 2).
Come sostiene il Galeotti, la promulgazione non attiene alla fase di perfezione dell’atto legislativo, bensì a quella dell’integrazione dell’efficacia, fase che serve ad attribuire alla legge i requisiti indispensabili perché essa si trasformi in precetto in grado di essere applicato. La legge, una volta deliberata da entrambe le Camere – cioè definita nel suo contenuto normativo – è oggetto d’interventi di diversa natura, tutti convergenti ad imprimere alla medesima efficacia propria, perché entri nell’ordinamento giuridico.
Nella dottrina corrente la formula della promulgazione come atto dovuto è diffusissima.
Secondo Grottanelli De’ Santi la possibilità del rinvio presidenziale, sia pure motivatamente e per una sola volta, fa sì che sopravviva nella promulgazione un elemento di partecipazione alla funzione legislativa. Si tratterebbe di una forma di collaborazione, seppure attenuata ed eventuale, al processo di formazione della legge da parte del Capo dello Stato. L’Autore non sostiene che il Presidente della Repubblica sia titolare della funzione legislativa e che la promulgazione di conseguenza sia atto legislativo, tuttavia sottolinea che se manca la promulgazione, nonostante sia “perfetta”, la legge non può essere pubblicata e non può produrre gli effetti per i quali è stata creata.
Sempre secondo l’Autore, il Presidente “partecipa” alla funzione legislativa nel senso che concorre all’eventuale riforma di una volontà già formata, prospettando le proprie opinioni, potendo soltanto condizionare e ritardare comunque la validità dell’atto.
Dall’esame delle norme costituzionali e dall’esame del ruolo che il Presidente della Repubblica assume nel nostro sistema di governo, la promulgazione si configura come atto tipicamente presidenziale, che si aggiunge alle conformi deliberazioni delle Camere per conferire alla legge – già perfetta – la qualità di atto che, proprio ad opera del Capo dello Stato, si depura del processo politico, assurgendo ad oggettiva espressione di composizione degli interessi e, come tale, capace di essere osservato ed imparzialmente applicato fino al momento della perdita d’efficacia delle legge.
Per ciò che concerne il rifiuto di promulgare, si è affermato che tale ipotesi sussiste e si giustifica quando si venga a configurare responsabilità penale del Presidente (ex art. 90 Cost.), quando esso si trovi a dover scegliere tra dovere di promulgare e obbligo di fedeltà alla Repubblica.

4. PROMULGAZIONE E CONTROFIRMA.

L’art. 89, comma 1, della Costituzione afferma: “Nessun atto del Presidente della Repubblica è valido se non è controfirmato dai ministri proponenti, che ne assumono la responsabilità.
Un’interpretazione strettamente letterale di questo articolo porterebbe a richiedere che ogni atto presidenziale debba essere preceduto da una proposta ministeriale, e perciò, dato anche il valore condizionante che la proposta assume nel procedimento di formazione degli atti pubblici, che ogni atto presidenziale sia predeterminato nel suo contenuto dall’esecutivo.
La promulgazione e il potere di rinvio sono atti “tipicamente presidenziali”; priva di senso sarebbe la tesi secondo cui tali poteri apparterrebbero al Governo e al Presidente spetterebbe solo un ruolo strettamente formale; ne risulterebbe svuotata la funzione di tutela e di garanzia costituzionale affidata al Capo dello Stato in quanto organo super partes.
In dottrina è perciò prevalsa un’interpretazione sistematica dell’art. 89, per la quale si distinguono tre categorie di atti presidenziali, a secondo del ruolo che spetta nella loro formazione rispettivamente al Presidente e al Governo, e tre corrispondenti valenze della controfirma; si è inoltre individuata una categoria di atti che si ritengono esentati dall’obbligo della controfirma. La tripartizione si riferisce anche al diverso modo di atteggiarsi della responsabilità politica del controfirmante, corrispondente al diverso grado di partecipazione alla determinazione dell’atto.
Una prima categoria concerne gli atti (formalmente presidenziali) c.d. ministeriali; il loro contenuto è predeterminato dal Governo attraverso la proposta, e la controfirma sta ad indicare la piena responsabilità politica governativa per l’atto. Rispetto a questo tipo di atti il Presidente ha una funzione di controllo che comprende un controllo preventivo di legittimità dell’atto Al polo opposto si collocano i c.d. atti tipicamente presidenziali che non sono preceduti da proposta governativa, ma sono determinati nel loro contenuto dal Capo dello Stato stesso; in questo caso, con la controfirma, il Governo, oltre ad attestare l’autenticità della sottoscrizione presidenziale, controlla la legittimità dell’atto, garantendo l’autonomia delle sue attribuzioni rispetto ad eventuali interferenze del Presidente e, limitatamente a questi profili, assume la responsabilità politica dell’atto. Infine, la categoria intermedia riguarda i c.d. atti “duumvirali”, detti così perché si ritiene che alla determinazione del contenuto debbano concorrere la volontà governativa e quella presidenziale14.
Se la dottrina non avesse elaborato queste tre categorie di atti, la previsione della controfirma, riferita ad istituti come la promulgazione, il rinvio delle leggi ed altri ancora, sarebbe risultata illogica.
Infatti, è stato rilevato, dal Galeotti e dal Motzo, come la controfirma, nel caso della promulgazione, sembrerebbe addirittura irrazionale e contraddittoria15, qualora fosse ammessa la possibilità di una proposta governativa in relazione a tale atto. Vi sarebbe una vera e propria contraddizione logica e giuridica tra il compimento dell’atto e l’ammissibilità di una proposta ministeriale.16
Nel caso della promulgazione, ci si trova di fronte ad un preciso dovere del Presidente, ad esso preventivamente imposto dalla Costituzione, e non si vede quindi come possa atteggiarsi la proposta ministeriale. Ci si trova di fronte (nel caso in cui decida di non rinviare o nel caso in cui abbia rinviato e le Camere abbiano riapprovato la legge) ad un preciso obbligo costituzionale del Capo dello Stato di firmare e del Governo di controfirmare, obbligo la cui violazione potrebbe concretare gli estremi dell’attentato alla Costituzione.
Tutto questo ovviamente non toglie che, di fatto, il Presidente del Consiglio e con lui i ministri che controfirmano possano fare valere le proprie opinioni e che il Presidente della Repubblica possa accogliere quest’ultime e farle proprie o possa, viceversa, rimanere fermo nella sua decisione di promulgare o di chiedere una nuova deliberazione. Analogamente, nell’ambito di un potere incontestabilmente governativo, ben può il Presidente manifestare il suo pensiero contrario, quando autorizza la presentazione alle Camere dei disegni di legge o quando emana i decreti legge.
Infine, la contraddittorietà della formula costituzionale sarebbe da sostenersi per tutti quegli atti che rientrano nelle specifiche competenze presidenziali, per le quali sarebbe certamente contraddittorio riferirsi ad una preventiva proposta ministeriale. Tali atti sono: a) la nomina del Presidente del Consiglio dei Ministri (ex art. 92); b) la promulgazione delle leggi ( art. 87 comma 5); c) la nomina di cinque senatori a vita (art. 59); d) la nomina di un terzo dei membri della Corte Costituzionale (art. 135); e) i messaggi alle Camere (art. 87 comma 2); f) lo scioglimento delle Camere ( art. 88 ); g) il rinvio di una legge alle Camere.

5. IL TERMINE DI PROMULGAZIONE

L’art. 73, comma 1, Cost., dispone che le leggi sono promulgate dal Presidente della Repubblica entro un mese dalla loro approvazione; tuttavia il comma 2 aggiunge che se le Camere, ciascuna a maggioranza dei propri componenti, ne dichiarano l’urgenza, la legge è promulgata nel termine da essa stabilito. Il termine di promulgazione risulta quindi variabile alla duplice condizione che ciascuna Camera deliberi a maggioranza assoluta l’urgenza della legge e che nel testo di quest’ultima sia inserita la disposizione che fissa un termine diverso da quello generale fissato dal I comma dell’art.73. La determinazione concreta del periodo durante il quale deve procedersi alla promulgazione – o al rinvio, ai sensi del combinato disposto degli art. 73 e 74 Cost. – pone il problema dell’individuazione del dies a quo di tale periodo.
Al riguardo vi è chi sostiene che tale termine decorra dall’approvazione comunicata al Presidente della Repubblica. Tale interpretazione del I comma dell’art. 73 si basa sull’esigenza di assicurare sempre al Presidente della Repubblica il tempo sufficiente per studiare e valutare la legge, per decidere se promulgarla o rinviarla. Si basa, cioè, sulla premessa secondo cui il termine fissato dagli art. 73 – 74 Cost., rispettivamente per la promulgazione e per il rinvio, ha l’esclusiva funzione di garantire l’esercizio dei poteri attribuiti al Capo dello Stato dalle citate disposizioni costituzionali. A tale interpretazione si oppone quella di chi sostiene che la circostanza secondo cui solo le Camere possano abbreviare tale termine di promulgazione, che tale abbreviazione riduca di fatto o quantomeno renda più difficile il potere di rinvio della legge, costituiscono argomenti di un certo peso per concludere che il termine di promulgazione rappresenta una garanzia nei confronti delle Camere e soltanto accessoriamente ed eventualmente nei confronti del Presidente della Repubblica. Quindi, secondo tale dottrina, il dies a quo coincide sempre con il giorno di approvazione della legge da parte della Camera che interviene per ultima. Di conseguenza, il termine di promulgazione, per il fatto di costituire soprattutto strumento di garanzia per le Camere, ha valore perentorio. Il Presidente della Repubblica, indipendentemente dal periodo di tempo rimasto a sua disposizione, sarà tenuto a promulgare la legge entro il termine stabilito in generale dall’ art.73 o entro quello eventualmente più breve stabilito dalle Camere.
Per ciò che concerne invece le leggi di conversione dei decreti legge (ex art. 77 Cost.), secondo parte della dottrina, il termine di promulgazione non può essere quello generale di trenta giorni. Se così fosse le Camere avrebbero sempre 60 giorni effettivi a disposizione per convertire, e il Presidente avrebbe sempre 30 giorni a disposizione per promulgare. Tale teoria si fonda soprattutto sui dati forniti dalla prassi, secondo la quale il Presidente della Repubblica promulga sempre le leggi di conversione entro il termine di 60 giorni fissato dall’art. 77 Cost., senza mai pretendere di avvalersi aggiuntivamente del termine di trenta giorni ex art. 73 Cost.
L’argomento sarà affrontato, in maniera più approfondita, nell’esame relativo al rinvio delle leggi di conversione dei decreti legge.

CAPITOLO III

IL POTERE DI RINVIO.

1. IL POTERE PRESIDENZIALE DI RINVIO DELLA LEGGE, IN GENERALE.

L’art. 74 Cost. attribuisce al Presidente della Repubblica, prima della promulgazione, il potere di chiedere con messaggio motivato alle Camere una nuova deliberazione della legge. Il comma 2 della stessa disposizione stabilisce inoltre che, se le Camere approvano nuovamente la legge, questa deve essere promulgata.
Dal I comma dell’art. 74 si ricavano le modalità essenziali per l’esercizio del potere di rinvio: da un lato esso non può mai essere un rinvio in bianco, privo in altre parole della motivazione; dall’altro esso è cronologicamente collegato alla promulgazione, nel senso che il rinvio è in linea di massima possibile finché non sia scaduto il termine per promulgare.
Carattere formale e presidenziale in senso stretto ha il messaggio con cui il Presidente può rifiutarsi di promulgare la legge, rinviandola alle Camere per una nuova deliberazione; secondo gli orientamenti prevalenti, il Presidente ha il dovere di rinviare la legge quando ravvisi un contrasto fra leggi e norme costituzionali, mentre ha una facoltà d’apprezzamento discrezionale nella più sfumata ipotesi di contrasto con gli interessi supremi e permanenti del Paese.17 Comunque, se poi le Camere riapprovano la legge senza tener conto dei rilievi presidenziali, il Capo dello Stato è tenuto a promulgarla (art. 74 comma 2), salvo la remota ipotesi che la promulgazione della legge costituisca “attentato alla Costituzione”, cioè una delle due fattispecie di reato per le quali il Presidente della Repubblica può essere incriminato ex art. 90 Cost.
Nella prassi, la maggior parte dei messaggi ex art. 74 Cost. è stata collegata all’esigenza di copertura finanziaria delle leggi di spesa, ex art. 81 Cost.; complessivamente non si può affermare che questo tipo d’intervento sia pervenuto a livelli di significativa incisività.
Il rinvio costituisce un tipico atto presidenziale, con il quale il Capo dello Stato esercita anche una funzione di controllo costituzionale sulla legittimità dell’atto legislativo approvato dalle Camere e sulla regolarità del procedimento seguito.

2. MOTIVI DEL POTERE DI RINVIO.

La circostanza che l’art. 74 Cost. preveda l’obbligo di motivazione per il rinvio della legge apre il problema di definire quali possano essere tali motivi; problema che è stato variamente risolto in dottrina affermandosi che il rinvio può essere esercitato per motivi di legittimità o di merito, come sostiene la maggior parte degli autori; altri (tra cui Guarino, Martines, Paladin) sostengono che tale rinvio può essere esercitato per motivi di legittimità e merito costituzionale; infine, c’è chi sostiene che tale rinvio può essere esercitato solo per motivi di legittimità. Appare evidente come gli Autori siano concordi nell’ammettere il potere di rinvio per motivi di legittimità; le divergenze si riscontrano sulla possibilità del rinvio per motivi di merito e sull’eventuale misura di un rinvio così motivato.
L’art. 74 si limita a prescrivere l’obbligo della motivazione per il rinvio della legge alle Camere senza ulteriori specificazioni in ordine ai motivi adducibili; da ciò si potrebbe dedurre che la norma costituzionale non esclude motivazioni basate sul merito. Ciò potrebbe essere sostenuto anche sulla base dei lavori preparatori, nel corso dei quali la possibilità di un rinvio sia per motivi di legittimità che di merito era stata esplicitamente affermata. Un altro argomento, sostenuto da coloro che ammettono il rinvio per motivi di merito, è dato dal fatto che, mentre la Costituzione in varie disposizioni tiene conto della distinzione tra legittimità e merito, all’art. 74 mantiene un silenzio che appare molto significativo.
Tuttavia le ragioni di merito che possono indurre il Presidente ad esercitare il potere di rinvio sono state limitate in dottrina, anche sulla base del ruolo che assume il Capo dello Stato nella Costituzione. Sulla base della concezione del Presidente “potere neutro” od organo super partes (Schmidt), si è sostenuto come esso non possa essere portatore di un proprio indirizzo politico o rivelarsi sostenitore dell’indirizzo politico di maggioranza o di minoranza. Infatti, è stato affermato che il rinvio della legge è ammissibile anche per motivi di merito ma alla condizione che le osservazioni non sottintendano in realtà scelte politiche di parte.
Non sembra si possa affermare che singole richieste di nuove deliberazioni possano apparire costituzionalmente inammissibili se motivate da idee e prese di posizione che sono proprie di un partito politico e non di un altro; l’argomento porterebbe ad estreme conseguenze e, se si esclude l’ipotesi di Assemblee unanimi e che solo esprimono la loro volontà in forma di ratifica, dovrebbe indurre, per ragioni di coerenza, ad escludere in toto il rinvio per la difficoltà di distinguere quando una legge sia stata approvata per motivi di partito.
E’ stata sostenuta, da Guarino, la tesi secondo la quale il controllo di merito dovrebbe essere ristretto al così detto merito costituzionale. Per alcuni questa tesi non sembrerebbe condivisibile, a meno di affermare che il Presidente, essendo organo costituzionale, può solo muoversi in una sfera qualificata da tale aggettivo.
Infine, sulla base di tali considerazioni, gran parte della dottrina ammette il rinvio motivato dalla contestazione che esistano ragioni di urgenza perché le Camere abbrevino il termine di un mese per la promulgazione della legge. Per tali Autori appare chiaro come la valutazione dell’urgenza appartenga per definizione all’ordine delle valutazioni di merito. A tale teoria si oppone il Cicconetti in quanto sostiene che l’art. 73, comma 2 Cost., riserva in via esclusiva, e dunque insindacabilmente, alle Camere il giudizio sull’opportunità di deliberare o no l’urgenza della legge.
Bisogna, comunque, sottolineare un uso moderato del rinvio per motivi di merito. L’auspicio di buona parte della dottrina a favore di un uso “parsimonioso” del potere di rinvio ha trovato una certa conferma nella prassi.

3. IL RINVIO PER MOTIVI DI INCOSTITUZIONALITA’.

La richiesta alle Camere di una nuova deliberazione può essere motivata, come si è detto, da considerazioni di costituzionalità oltre che di opportunità.
La dottrina, nel caso di legge ritenuta dal Capo dello Stato incostituzionale, non ha prospettato le tendenze riduttive e limitatrici che ha invece avanzato in tema di inopportunità della legge.
E’ dominante, infatti, l’assunto che il rinvio possa essere motivato dal contrasto con qualsiasi norma costituzionale, che il Presidente riscontri nella legge da promulgare.
La possibilità di un rinvio alle Camere per motivi di incostituzionalità ha spinto parte della dottrina ad immaginare Capo dello Stato e Corte Costituzionale nella funzione di tutori della Costituzione, attraverso il controllo sulle leggi che si svolge, in maniera preventiva, da parte del primo e, successiva, da parte della seconda.
Ma le differenze appaiono di tutta evidenza. Appare fondata, infatti, l’opinione di chi sostiene che, tra il potere di controllo esercitato dal Presidente della Repubblica, e quello esercitato dalla Corte Costituzionale, non esiste nessuna correlazione giuridica: si tratta di poteri con autonomo fondamento, modalità d’uso distinte, effetti diversi. Infatti, mentre il controllo del Presidente determina l’effetto di impedire l’efficacia della legge, il sindacato della Corte estingue la legge dichiarata incostituzionale. Inoltre, il controllo della Corte può essere svolto, tanto nel caso in cui il Presidente si sia avvalso del potere di rinvio, quanto nel caso contrario; e che le conclusioni alle quali la Corte può giungere possono essere contrarie a quelle addotte nella motivazione dell’atto di rinvio della legge alle Camere.
L’unico profilo sotto il quale resta valido l’accostamento tra Presidente della Repubblica e Corte Costituzionale, sta in ciò che lo stesso controllo presidenziale sulle leggi da promulgare, là dove si svolga con esiti negativi, deve essere ancorato a parametri costituzionali

4. IL RINVIO PRESIDENZIALE E LE POSIZIONI DELLA DOTTRINA.

A norma dell’art. 74 Cost., il Presidente della Repubblica, prima di promulgare una legge, può, con messaggio motivato alle Camere, chiedere una seconda deliberazione. Con tale disposizione i Costituenti introdussero nel nostro ordinamento il c.d. veto sospensivo. Un istituto della cui struttura, in realtà, l’articolo in esame non sostanzia tanto il carattere impeditivo, ma piuttosto il carattere “riflessivo”, che traspare dal mero onere, posto a carico delle Camere, di riportare l’attenzione sulla legge appena esaminata; nulla ostando alla sua riapprovazione, se non la volontà di tenere nel dovuto conto le osservazioni del Capo dello Stato nel suo messaggio.
D’altra parte, la norma in questione, proposta quale ripiego all’introduzione della sanzione, non ne attinse alcun elemento distintivo e fu poi accolta quale balance, attribuito al Capo dello Stato nella veste di supremo moderatore ed equilibratore del sistema a questi riconosciuta. Anche se poi, nel breve dibattito che ne precedette l’approvazione, non rimase del tutto chiarita, né la consistenza del potere medesimo (e cioè i profili della sua applicazione, se relativi alla sola legittimità o anche al merito) e perfino, a causa del requisito della controfirma, la sua stessa titolarità (e cioè se il suo esercizio dovesse essere ricondotto alla sola volontà del Capo dello Stato o anche a quella del Governo, quale soggetto promanante l’atto medesimo).
Perplessità e incertezze tutte fugate dalla Presidenza di Einaudi il quale rivendicò subito l’esclusiva titolarità del potere in questione e ne caratterizzò l’esercizio in maniera significativa. Infatti, con i due rinvii esercitati dal Presidente Einaudi – mediante i due contemporanei messaggi del 9 aprile 1949 – entrò in crisi l’assunto per cui gli atti presidenziali dovevano essere tutti preceduti dalla proposta ministeriale, secondo la nota formula dell’art. 89 Cost. Si avvertì, infatti, tra gli studiosi che la controfirma del rinvio di una legge si riduceva ad “inutile ingombro”, giustificabile solo alla stregua di un “mero requisito formale di validità del messaggio presidenziale” con la conseguenza che per esso è strutturalmente impossibile immaginare che debba esservi stata una proposta.
Subito si affermò la tesi che il rinvio presidenziale rientrava nella figura del controllo mediante richiesta di riesame, al pari dei controlli governativi sulle leggi e sui provvedimenti regionali, di cui agli art. 127 e 127 Cost.
Su tale fondamento la funzione presidenziale di controllo delle leggi, inizialmente concepita in termini cauti e limitativi, fu progressivamente estesa.
Nel quadro di quest’impostazione, dunque, liberato il Capo dello Stato dal vincolo della controfirma si disegnava un arco di applicazione di assai ampia portata. Un’autorevole corrente dottrinale inclina a ritenere che la funzione presidenziale di controllo coinvolga le leggi statali di ogni tipo, comprese quelle costituzionali e di revisione della Costituzione, nonostante l’art.74 Cost. si collochi fra le disposizioni concernenti le leggi ordinarie: in entrambe le ipotesi, infatti, varrebbe l’esigenza che siano preventivamente sindacati gli eventuali vizi delle leggi, poco importa se già deliberate dalle Camere per due volte consecutive, come nel caso dell’art.138. Più discusso appare il caso delle leggi di conversione dei decreti-legge. Ma, anche per esse, la prevalente opinione dottrinale si orienta ben presto nel senso che il rinvio non possa escludersi a priori, specialmente in considerazione del fatto che le leggi in questione modificano e integrano spesso le disposizioni dei decreti-legge convertiti.
Ben oltre il primitivo riferimento ai soli gravissimi vizi implicanti “attentato alla Costituzione”, diviene dominante l’assunto che il rinvio possa essere motivato dal contrasto con qualsiasi norma costituzionale che il Presidente riscontri nella legge da promulgare.
Si aggiunge che il rinvio potrebbe trarre spunto anche da considerazioni di merito. Le prime impostazioni dottrinarie si limitavano a ragionare di un “merito che potrebbe dirsi costituzionale” mirante pur sempre ad evitare conseguenze negative per il buon funzionamento della Costituzione. Tale barriera è comunque scavalcata da una dottrina di poco successiva; tanto è vero che, oggi, una larga parte dei costituzionalisti ritiene che non si possa distinguere, là dove la Carta Costituzionale non introduce precisazioni di sorta, e che si debba consentire al rinvio comunque motivato.
Si sostiene, comunque, che il Presidente della Repubblica qualora rinvenga un contrasto tra la legge da promulgare e una norma costituzionale, sia sottoposto ad un vero e proprio dovere di rinvio. Meno univoche, invece, le posizioni, nel caso di rinvio per motivi di merito. Se, infatti, da parte di alcuni autori si è sostenuta la pienezza del potere anche per i vizi relativi all’opportunità delle leggi, non di rado la dottrina si è dimostrata restia ad ammettere un tanto ampio esercizio. Così, pur non escludendo la possibilità del rinvio per motivi di merito, ci si è preoccupati di limitarne i casi, non ammettendone alcuni in ragione della loro marcata politicità ovvero ci si è richiamati a limiti impliciti, ricollegabili all’asserita estraneità dell’organo all’indirizzo politico di Governo e Parlamento. Ancora, è stata circoscritta la discrezionalità del Presidente, restringendone il giudizio al “merito costituzionale” (cioè alle implicazioni negative, anche indirette, sul funzionamento della Costituzione derivanti dall’applicazione della legge).
In ogni caso, anche da chi si è dimostrato più propenso a riconoscere nella funzione del Presidente maggiori spazi di intervento, non si è mancato di esprimere l’auspicio di un uso “prudente e “moderato” del potere a favore del rispetto dell’autonomia delle Camere e delle scelte da queste poste in essere all’atto dell’approvazione della legge.

5. LE INDICAZIONI RICAVABILI DALLA PRASSI DEI MESSAGGI DI RINVIO.

La prassi dei messaggi di rinvio si rivela quanto mai mutevole e irregolare. Da parte dei vari Presidenti non vi è stato, infatti, un esercizio costante e uniforme del potere previsto dall’art. 74 Cost. Dopo il moderato ma significativo uso del rinvio, effettuato in quattro casi da Einaudi ed in tre casi da Gronchi, nel biennio compreso fra il 1962 e il 1964 Segni non ha esitato ad inviare ben otto messaggi alle Camere, per chiedere il riesame di altrettante leggi ordinarie dello Stato. Ma proprio a questo punto, quando poteva sembrare che siffatti messaggi fossero ormai destinati a moltiplicarsi, l’applicazione dell’art. 74, si è interrotta con la presidenza Saragat; mentre la presidenza Leone ha dato luogo ad un caso del tutto sui generis, sia sul piano delle motivazioni sia su quello delle conseguenze immediate. Ed è solo nella parte centrale della presidenza Pertini che i due contemporanei messaggi del 1981 hanno segnato un ritorno allo stile einaudiano.
Se si considerano i contenuti dei messaggi sopra richiamati, va sottolineato che essi hanno per lo più riguardato profili di legittimità e, più in particolare, questioni relative alla mancata copertura finanziaria della legge approvata, in violazione dell’art.81 Cost. Assai più rari i rinvii relativi alla violazione di altre norme costituzionali.
Pressoché uniche, invece, le eccezioni sul merito delle leggi. Infatti, dopo il noto messaggio con il quale Einaudi (21 novembre 1953) impugnò la legge sui “diritti causali”, Pertini motivò, sotto tale profilo, il rinvio di una legge sulla concessione di un contributo a favore della società Dante Alighieri (20 aprile 1983). Ugualmente, ma solo in via subordinata, motivazioni di merito caratterizzarono il messaggio (30 ottobre 1975) di Leone sulla composizione ed elezione del C.S.M.
Sembra quasi si fosse determinata nell’ordinamento una vera e propria consuetudine, nel senso di un’auto-limitazione del potere da parte del Capo dello Stato, proprio in riferimento al rilievo che, in questi casi, assume il suo intervento.
Rimane l’impressione che tale potere, ben lontano dall’avere avuto una qualche importanza nella caratterizzazione della forma di governo vigente in Italia, abbia finito per assumere, al suo interno, un ruolo minore; aggiungendosi allo scarso numero di rinvii effettuati, una rara applicazione in riferimento all’approvazione di leggi di un qualche rilievo.
Al contrario, si è notato come, proprio allorquando ci si è trovati di fronte ad atti di particolare importanza, il Capo dello Stato abbia preferito o non impugnare o ricorrere a procedure informali attraverso le quali manifestare il proprio dissenso.
La presidenza Cossiga ha riproposto la questione in termini nuovi e stimolanti, rimettendo in discussione conclusioni già largamente condivise in dottrina in riferimento ad una prassi che, solo qualche anno prima, appariva consolidata e poco aperta ad ulteriori sviluppi.
Vero è che, prima ancora di Cossiga, Pertini aveva già dato avvio ad un processo di recupero delle attribuzioni presidenziali che si rifaceva alle interpretazioni più sostanzialistiche del potere in esame18.
La presidenza Cossiga ha lasciato una traccia che, sia pure contraddittoria e discutibile, rimane significativa nel senso di una più efficace collocazione del potere in esame nel nostro sistema. E ciò, sia in riferimento al numero e alla qualità delle leggi impugnate, sia poi, soprattutto, al modo di esercizio del potere medesimo.
Come si è detto, ben 21 sono i rinvii operati in questo settennato dal Capo dello Stato, che ha così impugnato un numero di leggi quasi pari a quello complessivamente raggiunto dagli altri presidenti.
Inoltre, egli è intervenuto su scelte, tutt’altro che secondarie, poste in essere dalle Camere nell’esercizio della funzione legislativa. Tutti interventi che per il rilievo della materia trattata hanno avuto ampia eco nell’opinione pubblica.
Il mandato di Cossiga rimane importante per gli aspetti che hanno riguardato soprattutto le modalità del potere in esame.
Al riguardo, il primo dato da evidenziare è che i rilievi operati circa i vizi di legittimità delle leggi hanno riguardato le sole norme di organizzazione e, fra queste, in primo luogo l’art. 81 Cost. Un dato questo che sembra confermare la tendenza, espressa da tutti i presidenti, a privilegiare impugnative che, ben lontane dal riguardare l’intero sistema dei principi costituzionali, si sono attestate sulla parte relativa all’organizzazione dello Stato. Con ciò dando conferma a quell’autorevole opinione espressa in dottrina, la quale, nel sottolineare la differenza dei ruoli svolti dal Presidente e dalla Corte Costituzionale, ha affermato la necessaria specificazione in tal senso della competenza del Capo dello Stato19. Secondo Paladin, infatti, il Presidente, quale “garante politico della Costituzione”, valuta liberamente la possibilità di un’eventuale richiesta di riesame, tenendo conto non solo dell’esigenza di far rispettare la Costituzione, ma anche e soprattutto dei riflessi che il fatto di esercitare o non esercitare il potere in questione potrebbe produrre sul complessivo funzionamento delle istituzioni. Ed è proprio in questo senso che la Corte Costituzionale appare collocata su un piano assai diverso, in quanto il suo agire è sempre doveroso, con il solo limite concernente i tempi delle decisioni da adottare, in ordine ai quali il collegio ed il suo presidente conservano incontestabili margini di scelta20.
Ciò che caratterizza maggiormente la presidenza Cossiga è il rinvio per motivi di merito. Infatti, proprio negli ultimi anni del suo mandato, il Presidente ha inaspettatamente dato avvio ad una serie di impugnative che hanno, sotto tale profilo, riguardato le scelte delle Camere, le quali sono state costrette a ritornare su decisioni appena raggiunte, anche non senza difficoltà e contrasti. E ciò perfino in momenti delicati, qual è senza dubbio il periodo di prorogatio.
Bisogna affermare che Cossiga ha assunto subito una posizione chiara e decisa. Egli ha subito circoscritto l’ambito di applicazione di tali interventi al c.d. “merito costituzionale”, al quale egli ha ricondotto la tutela di “interessi e valori”, non solo riferiti al mero rispetto dei principi costituzionali, ma, più in generale, a valutazioni di “coerenza e correttezza costituzionale”, “congruità costituzionale”, “coerenza dell’ordinamento giuridico”, ai quali il Capo dello Stato ha poi puntualmente ricondotto l’esercizio del potere. In relazione a tali criteri di giudizio, individuati dal Presidente Cossiga, è stato osservato come questi appaiono ampliare, piuttosto che restringere, quell’ambito di discrezionalità insito in concetti come quello del c.d. “merito costituzionale”; con il rischio di esporre il Capo dello Stato ad operazioni dirette a sovrapporre, a presunti indirizzi costituzionali, veri e propri indirizzi presidenziali, del tutto estranei al nostro sistema.
Sebbene la dottrina prevalente sia concorde nell’ammettere i rinvii per ragioni di merito, vediamo che questi non trovano dunque e non dovrebbero trovare posto nella prassi, qualora ispirata ad una corretta visione delle attribuzioni presidenziali. Non a caso, tutte le volte che i Presidenti si sono serviti in tal senso di valutazioni sconfinanti nell’opportunità, ciò a dato luogo ad aperte polemiche. Nel sistema attuale di governo, dove la funzione legislativa è attribuita alle Camere e non al Capo dello Stato, non potrebbe trovare ingresso la pretesa presidenziale di rimettere in discussione scelte politiche operate dalle Camere, in mancanza di qualsiasi aggancio di ordine costituzionale che venga a sorreggere il rinvio.
Qualunque sia la causa del rinvio, non va dimenticato che al Capo dello Stato spetta assicurare la funzionalità del sistema e non l’osservanza di ogni singola norme costituzionale. Sotto quest’aspetto, è lecito affermare che nel c.d. merito costituzionale consista un complesso di elementi e di valutazioni latu sensu politici, atti a giustificare le stesse richieste di riesame per motivi di legittimità. Solo così può spiegarsi che tutti i rinvii presidenziali abbiano tratto spunto dalla violazione di precetti contenuti nella seconda parte della Costituzione, relativa all’ordinamento della Repubblica. Il che non esclude messaggi tendenti a garantire il rispetto di altre norme costituzionali: ma alla condizione che gli effetti lesivi del vizio oltrepassino lo specifico ambito di applicazione delle norme stesse, per compromettere o squilibrare gli assetti delle istituzioni o dei rapporti governanti-governati21.
In ogni caso, sebbene non sia facile indicare in materia regole precise, certo è che il messaggio ex art.74 Cost. non può diventare la regola del procedimento legislativo. E tutti i titolari della Presidenza sembrano essere consapevoli: scarsa o nessuna è risultata l’incidenza delle richieste in esame delle leggi, relativamente alle discipline considerate essenziali, dalle forze di maggioranza, per concretare i programmi di governo.
Sembra sia stata soddisfatta l’esigenza “di evitare che il rinvio presidenziale appaia espressione di un indirizzo politico del Presidente, o possa interpretarsi come preferenza per una fra le posizioni contrastanti manifestatasi in Parlamento o nel paese in ordine alla legge in contestazione” per fare invece “uso molto moderato della Potestà in questione”22.

6. IL RINVIO DELLE LEGGI DI INIZIATIVA GOVERNATIVA.

Il potere di rinvio può essere esercitato nei confronti della legge ordinaria votata dal Parlamento. Vediamo cosa accade, invece, per i progetti di legge presentati dal Governo.
La dottrina dominante ammette la possibilità del rinvio nei confronti di tali progetti di legge; tuttavia non è mancato chi ha avanzato dubbi in ordine all’ipotesi del rinvio relativo a progetti di legge approvati dalle Camere senza emendamenti23.
Secondo il Cuoculo è impossibile che in quest’ipotesi il Presidente usi il suo potere di rinvio. Infatti il Capo dello Stato, in base all’art. 87 comma 4 della Costituzione, deve autorizzare la presentazione alle Camere dei progetti di legge di iniziativa del Governo. Se il Presidente avesse avuto intenzione di esercitare il suo sindacato su un progetto che riteneva costituzionalmente scorretto o politicamente inopportuno, avrebbe potuto farlo in questa fase preliminare.
L’Autore ritorna ad ammettere l’uso del rinvio in relazione a progetti di legge presentati dal Governo ma modificati dal Parlamento.
Altri autori ammettono la possibilità senza limiti dell’esercizio del rinvio per quanto riguarda le leggi di iniziativa governativa.
Secondo tali Autori non è possibile considerare scorretto l’esercizio del rinvio né quando il disegno di legge sia approvato dalle Camere senza modifiche, né quando nessun’obiezione sia stata sollevata nei confronti dell’atto di iniziativa da parte del Presidente in sede di autorizzazione alla presentazione.
In relazione alla prima ipotesi osservano come non sia per niente da escludere che il Presidente avesse concesso l’autorizzazione alla presentazione senza obiezioni confidando nell’eventualità che le Camere avrebbero apportato modifiche, talché, qualora non si fosse realizzata tale opportunità, non si vede perché si debba negare al Capo dello Stato la possibilità di far valere quelle esigenze sulle quali aveva ritenuto di soprassedere nella fase iniziale dell’autorizzazione alla presentazione.
In relazione alla seconda ipotesi, osservano, che il rinvio può essere giustificato dal fatto che le Camere abbiano approvato il disegno di legge apportandovi rilevanti modifiche, in modo che in questo caso la circostanza che il Presidente della Repubblica non avesse mosso alcun rilievo nei confronti dell’originario disegno di legge non preclude né rende scorretto l’eventuale rinvio della legge.

7. IL RINVIO DELLE LEGGI DI CONVERSIONE DEI DECRETI LEGGE.

Per quanto riguarda le leggi di conversione dei decreti legge, bisogna sottolineare che il potere di rinvio non incontra limitazioni di ordine costituzionale, come del resto accade anche per gli altri atti di iniziativa governativa. Tuttavia, si è sostenuta l’inammissibilità del rinvio delle leggi di conversione dei decreti legge in generale, sulla base dell’argomento secondo cui il controllo presidenziale si risolverebbe in un doppione del controllo parlamentare24; inoltre, si è sostenuta l’inammissibilità quando ciò comporti la scadenza del termine di sessanta giorni fissato dall’art.77 Cost.25
La dottrina dominante ammette l’eventualità del rinvio in relazione a tali atti. La tesi secondo la quale il controllo presidenziale si risolverebbe in un doppione del controllo parlamentare non è presa in considerazione in quanto la legge di conversione, oltre a conservare gli effetti prodotti dal decreto legge, stabilisce anche l’ulteriore efficacia delle disposizioni di quest’ultimo, per non parlare del caso in cui la legge di conversione, a seguito di emendamenti, contenga disposizioni nuove rispetto a quelle del decreto legge26.
La ragione principale, nel senso dell’esclusione, è sostanzialmente individuata nella difficoltà che il rinvio possa aver luogo nei sessanta giorni di vita del decreto legge.
Per quanto concerne le difficoltà di ordine temporale, queste sembrerebbero facilmente rilevabili, e poste chiaramente in luce, dall’ipotesi estrema della conversione, da parte delle Camere, al sessantesimo giorno dalla pubblicazione del decreto.
Ma anche tale argomento non sembra molto convincente e idoneo a scartare la possibilità materiale del rinvio. Si sono dati dei casi in cui l’iter parlamentare si è dimostrato estremamente rapido; ciò a riprova del fatto che il termine di sessanta giorni potrebbe risultare in concreto del tutto congruo per l’esercizio del potere di rinvio.

8. LEGGI DICHIARATE URGENTI.

Non sembra avere fondamento la tesi delineata da alcuni autori27, secondo cui il potere di rinvio verrebbe ad essere “compromesso e neutralizzato” dalla dichiarazione d’urgenza deliberata dalle Camere a norma del secondo comma dell’art.73 Cost.
Infatti, come sostiene la dottrina dominante28, la dichiarazione d’urgenza si limita stabilire un termine più breve rispetto a quell’ordinario previsto per la promulgazione delle leggi; sarebbe davvero eccessivo dedurne, nel silenzio della norma, un effetto tanto grave che turberebbe l’ordine dei rapporti tra i poteri, voluto dalla Costituzione, privando il Presidente della potestà generale del controllo sulle leggi in forza di un atto del Parlamento, cioè dell’organo sulla cui attività il controllo deve essere effettuato29.
L’art. 74 Cost. pone un termine entro il quale deve essere esercitato il potere di rinvio: prima della promulgazione. Il dovere che deve essere adempiuto comporta che il rinvio sia esercitato o entro il termine stabilito in via generale dalla Costituzione o in via particolare dal Parlamento.

9. DUBBI IN ORDINE ALLA POSSIBILITA’ DI RINVIO DELLE LEGGI COSTITUZIONALI E DI REVISIONE COSTITUZIONALE.

Incerta appare la soluzione per quanto riguarda il potere di rinvio presidenziale nei confronti delle leggi di revisione e delle leggi costituzionali. Gli atti dell’Assemblea costituente non contengono esplicite indicazioni al riguardo, se non quelle relative al ritiro di un emendamento diretto a stabilire un esplicito divieto di rinvio.
La dottrina sul punto è assai divisa e varie sono le tesi prospettate.
Alcuni escludono la possibilità del rinvio, in relazione a tali atti, in base al fatto che il messaggio presidenziale, dovendo essere rivolto ex art.74 cost., non potrebbe essere indirizzato all’elettorato nell’ipotesi in cui si dia luogo al referendum previsto dall’art. 138. A tale teoria si oppone la concezione di chi afferma l’esclusiva titolarità del potere di revisione alle Camere per la natura meramente facoltativa dell’intervento dell’elettorato e per la sua espressa esclusione quando sia stata raggiunta la maggioranza dei due terzi e alla quale si aggiunge l’argomento di ordine testuale per il quale l’art.138 parla di “leggi” che sono sottoposte a referendum30.
Altri negano la possibilità, per il Presidente, di valutare le leggi costituzionali sotto il profilo della loro costituzionalità o opportunità31.
L’Autore innanzi tutto sostiene che il problema si pone per il rinvio fondato su motivi di merito, non per quello fondato su motivi di illegittimità costituzionale, poiché le leggi costituzionali e di revisione, creando un ius novum che va collocato al primo grado della gerarchia delle fonti di produzione giuridica, implicano l’introduzione di una normativa costituzionale, che si aggiunge a quella esistente o la modifica. Interessante appare la replica di chi sostiene l’ammissibilità del rinvio fondato su motivi di illegittimità, qualora una legge, formata secondo la procedura prevista dall’art. 138, si ponga in contrasto con lo spirito fondamentale che alimenta la Costituzione, la formula politica e democratica che ne sta alla base32.
Tale Autore (Bozzi) nega la possibilità del rinvio per motivi di merito, sostenendo ragioni tutte fondate sulla struttura del procedimento di formazione delle stesse leggi costituzionali e di revisione. L’Autore sostiene, infatti, che l’art. 74 Cost. si riferisce, anche nella formulazione letterale, alle leggi votate dal Parlamento, ossia all’ipotesi normale in cui, secondo l’art. 70 cost., la funzione legislativa è esercitata collettivamente dalle due Camere; non anche alle ipotesi in cui il procedimento di formazione è più complesso e implica l’intervento, seppure mediato, d’un organo diverso quale il corpo elettorale.
Inoltre, si sostiene che, quando vi è una manifestazione di volontà del popolo (titolare della sovranità ex art. 1 Cost.), non è facile individuare la possibilità di contrasto tra la legge e la coscienza collettiva, e l’intervento del Capo dello Stato potrebbe non apparire rivolto alla tipica funzione di intermediazione33.
Molti autori escludono il rinvio in relazione alle leggi di revisione. Sostengono, infatti, che in ordine a tali atti il potere di eccitare e esprimere il controllo spetti ai soggetti o organi legittimati a promuovere ed infine a decidere sul referendum d’approvazione. Non ritengono infine ammissibile in ordine a tale figura legislativa un potere del Capo dello Stato di chiedere una nuova deliberazione, che si sovrapponga, come ulteriore e superiore potere di controllo, a quello attribuito alla collettività politica dei cittadini, cioè al Popolo che è il titolare della sovranità.
Altri autori pur negando l’ammissibilità del rinvio per motivi di illegittimità costituzionale (ammettendone però l’esercizio qualora si tratti di accertare il rispetto della procedura speciale fissata, per le leggi costituzionali e di revisione, dall’art. 138 cost.), affermano invece la possibilità del rinvio fondato su motivi di merito. Vediamo ad esempio come Cuoculo affermi la possibilità del rinvio per motivi di merito. L’Autore considera compreso nella parola “deliberazione”, usata dal primo comma dell’art. 74, l’intero procedimento, più o meno complesso, e ricomprendendo in esso anche l’eventuale referendum, nel caso di leggi costituzionali, attraverso il quale la legge appare perfetta, onde, in caso di rinvio, il procedimento stesso deve aprirsi nella sua interezza.
Vi è poi chi sostiene l’ammissibilità del rinvio sia in relazione ai motivi di merito che di legittimità (a condizione che esso sia limitato solo al caso di vizi attinenti al procedimento seguito per l’approvazione)34.
Secondo tale concezione35, “non potrebbe tale controllo essere negato al Presidente che secondo la Costituzione lo esercita nei confronti delle leggi ordinarie e riconosciuto alla Corte in assenza, anche per quest’ultima, di un’attribuzione espressa di competenza, quasi si trattasse, per quanto appunto riguarda il Presidente di un controllo di rango minore. Non sembra infatti che le differenziazioni dei due tipi di controllo, rispettivamente presidenziale e della Corte, possano essere fondate sulla natura del vizio rilevabile nelle leggi.
In linea teorica sembrerebbe doversi affermare il potere di rinvio delle leggi costituzionali sia per ragioni di costituzionalità sia per ragioni di merito. Tuttavia, ciò non toglie che molti argomenti, pur non sembrando idonei ad escludere il potere, chiaramente esercitano la loro influenza nel senso della notevole improbabilità del suo esercizio.
Infatti, pur non potendosi escludere l’esercizio del potere di rinvio in base al dettato costituzionale, sembra che il concreto esercizio del potere sia estremamente improbabile sul piano politico.
La situazione, in assenza di prassi costituzionale in proposito, a meno di interpretare in tale assenza di prassi il formarsi di una consuetudine, appare ancora aperta.

10. IL MESSAGGIO DI RINVIO E LA NUOVA DELIBERAZIONE DELLE CAMERE.

L’art.74 Cost. stabilisce che la nuova deliberazione delle Camere deve essere richiesta attraverso un “messaggio motivato”. La motivazione risulta, quindi, elemento costitutivo del messaggio di rinvio. Dato tale valore costitutivo della motivazione, ci si chiede quale sarebbe la sorte di un messaggio che ne fosse assolutamente carente. Il riesame, come già accennato, non è atto spontaneo del parlamento; questo vi procede su richiesta di un altro organo, la cui volontà può produrre l’effetto del riesame se l’atto che la manifesta è conforme al precetto costituzionale. Le Camere, di fronte ad un messaggio del tutto privo della motivazione, e però giuridicamente inesistente, potrebbero non entrare nell’esame del merito; e il Capo dello Stato dovrebbe o rinnovare il messaggio (se il termine per la promulgazione non è decorso), motivandolo, o promulgare la legge già votata36. Identico discorso vale per le altre ipotesi di invalidità formale dell’atto presidenziale, come, ad. es., quella in cui esso fosse carente della controfirma ministeriale. La motivazione del messaggio, oltre a costituire parte essenziale di esso, condiziona l’eventuale successiva attività delle Camere. Il riesame quindi da parte delle Camere, ove abbia luogo, e la possibile nuova approvazione della legge, avvengono essenzialmente in chiave di quei vizi o di quelle perplessità individuati dal Presidente; fermo restando che trattandosi di un potere di arresto limitato e configurandosi nei confronti delle Camere un mero onere, il messaggio di rinvio può costituire l’occasione per una ripresa in esame del testo della legge, con o senza adozione di emendamenti, e che prescinda del tutto dai rilievi presidenziali. Oggetto della seconda deliberazione delle Camere, chiaramente, risulta essere la legge e non il messaggio. Tuttavia, entrambi possono essere considerati in maniera unitaria ai fini di un possibile secondo rinvio. Infatti, la possibilità del secondo rinvio è ammessa se le Camere approvano un testo che sia solo parzialmente identico al primo e se i mutamenti introdotti non sono nel senso indicato dal Presidente37.
Dopo la deliberazione delle Camere, sollecitata dal messaggio, si pone per il Presidente il dovere di promulgare. Al riguardo sono necessarie alcune precisazioni. Infatti, il Capo dello Stato non può rifiutare la promulgazione se il testo della nuova deliberazione accoglie i motivi del messaggio, salvo però il caso di vizi, attinenti ad elementi essenziali, nei quali fosse incorso il Parlamento nell’iter di formazione della legge. Se, invece, il nuovo testo deliberato, pur accogliendo i motivi del messaggio, affronta, con norme nuove, aspetti della stessa materia non considerati nel precedente testo legislativo e quindi non sindacabili dal Presidente, questi potrebbe esercitare nuovamente il potere di rinvio, trovandosi di fronte ad un “ ius novum”, almeno in parte.
Se il messaggio aveva indicato motivi di illegittimità costituzionale e il Parlamento non li accoglie, il Presidente di regola non può rifiutare la promulgazione della legge, il cui contrasto con la Costituzione verrà caso mai accertato successivamente dalla Corte Costituzionale. In un solo caso, eccezionale, il Capo dello Stato potrebbe avvalersi della facoltà di non promulgare la legge, di cui il Parlamento ha respinto i motivi di incostituzionalità: quando l’incostituzionalità è tale da sconvolgere il sistema democratico e le istituzioni a base della Costituzione. In tal caso un’acquiescenza del Capo dello Stato, sia pure in sede di promulgazione, potrebbe comportare una sua responsabilità penale per alto tradimento o attentato alla Costituzione ( art. 90 secondo comma, Cost.).

11. IL RINVIO IN PERIODO DI SCIOGLIMENTO DELLE CAMERE.

Lo scioglimento del Parlamento del 1992 ha riproposto in termini assolutamente nuovi la disciplina del rinvio presidenziale delle leggi alle Camere, scadute per fine legislatura, anticipatamente sciolte, o quando l’immediatezza della loro cessazione naturale non consentirebbe, di fatto, l’esaurimento della seconda approvazione.
La questione si pose con i rinvii della legge sull’obiezione di coscienza al servizio militare armato – reso dal Presidente Cossiga il giorno precedente a quello di emanazione del decreto di scioglimento delle Camere – e, successivamente, di ulteriori provvedimenti legislativi al Parlamento, ormai in prorogatio di poteri. Il dibattito che ne seguì fu tale da porre in evidenza un’incertezza procedurale mai verificatasi prima e che ebbe l’effetto di dividere le stesse forze politiche e parlamentari, dal cui larghissimo consenso era derivato il varo della legge. Il Presidente Cossiga sosteneva l’incompetenza delle Camere a riesaminare, in regime di prorogatio, le leggi rinviate; le Assemblee, invece, rivendicavano la pienezza delle attribuzioni. La singolarità della vicenda sta nel fatto che, diversamente, i problemi che impedirono l’approvazione della legge sull’obiezione di coscienza nella X legislatura, non suscitarono il clamore registrato a proposito di essa in ordine ad un altro dei provvedimenti legislativi rinviati, concernente la cessazione dell’impiego dell’amianto, che, anzi, non trovò ostacoli di sorta in Parlamento38.
Sul piano concreto ci si chiede se il riesame da parte delle Camere possa avvenire in regime di prorogatio. Da un punto di vista costituzionale non sembra si possano rinvenire limiti al potere di rinvio39; sia perché tale limitazione non risulta desumibile dalla Carta fondamentale; sia perché si offrirebbe alle Camere un momento “franco” di produzione normativa40; sia perché in un momento così delicato, quale il concludersi di una legislatura, sarebbe necessario da parte del Capo dello Stato un controllo molto più attento sull’attività normativa. Occore, dunque, sciogliere il dubbio se le Camere abbiano la pienezza di poteri in regime di prorogatio, ovvero se la loro attività è limitata agli atti di ordinaria amministrazione41. In merito non vi è uniformità in dottrina.
Tra coloro che hanno sostenuto la competenza del riesame della legge alle Camere “prorogate” vi è stato chi ha fatto appello all’art. 85, terzo co., che, sottraendo al Parlamento “prorogato” la sola funzione di eleggere il Capo dello Stato, costituirebbe argomento inoppugnabile sulla pienezza dei poteri camerali fino alla prima riunione del nuovo Parlamento. In tal senso si è precisato che la nuova deliberazione richiesta dall’art.74 deve presentarsi come un riesame, alla luce dei rilievi presidenziali, da parte degli stessi parlamentari, che hanno discusso e approvato il provvedimento normativo; altrimenti le nuove Camere saranno tenute a riprendere ex novo il procedimento di approvazione della legge rinviata42. Contrariamente, si è ritenuto che debba valere il “principio della continuità della funzione legislativa” e, che le “nuove Camere non perdono il potere-dovere di procedere al riesame dell’atto”43. Alle stesse conclusioni giunge chi sostiene che alle Camere sciolte vada negata la possibilità di esprimere “atti di indirizzo”44. La dottrina ha cercato di individuare il fondamento costituzionale su cui poggiare ogni conclusione in merito al problema in esame, facendo appello al principio della discontinuità dei lavori parlamentari, ovvero a quello della continuità di essi, e, altre volte, a espresse disposizioni costituzionali ( art. 85 secondo co., Art.77 ) dalle quali non sembrano trarsi indicazioni univoche.
Bisogna forse riconoscere, come è stato sostenuto45, che, come in altri casi, siamo dinanzi ad una questione ancora aperta.
La soluzione prospettata, secondo l’interpretazione suggerita dalla Giunta per il regolamento della Camera nella seduta dell’11 marzo 1992, è stata quella di affidare l’esame delle leggi rinviate alla fine della X legislatura alle nuove Camere, facendo sopravvivere l’iniziativa legislativa dei medesimi parlamentari, che se ne erano fatti promotori nella precedente legislatura dei relativi progetti46. Viene, in pratica, affermato il principio della sopravvivenza oltre la chiusura della legislatura del provvedimento rinviato, secondo una logica che tende a soddisfare la garanzia delle prerogative camerali e l’effettività dei poteri del Presidente della Repubblica a Camere sciolte, in maniera che, nell’impossibilità di pervenire alla seconda approvazione da parte dell’Assemblee sciolte, non si potesse configurare il rinvio alla stregua di un veto senza appello47.
La soluzione, chiaramente, mira ad evitare l’acuirsi della contrapposizione tra Presidente della Repubblica e Parlamento. La regola fissa “punti di equilibrio tra più linee di tensione” ; nel caso in esame la soluzione adottata ha risolto la questione relativa alla spettanza dell’approvazione della legge rinviata, senza pregiudizio per le attribuzioni camerali, né per quelle del Capo dello Stato ai sensi dell’art.74 Cost.48. Il fondamento di tale soluzione è stato rinvenuto nell’analogia, fondata sul principio della continuità dei lavori camerali, posta con la disciplina prevista dai regolamenti camerali a proposito dei progetti di iniziativa popolare e che conferisce ultrattività ai medesimi nella successiva legislatura senza bisogno di nuova presentazione.
Alcuni autori, pur condividendo la soluzione adottata dalla Giunta, ne criticano il fondamento; concludono che il rinvio della legge da parte del Capo dello Stato è la sola circostanza che costituisce il fondamento dell’ultrattività della medesima oltre la legislatura appena cessata49. Si è affermato che la soluzione del problema in esame sta, non tanto nella risposta se la facoltà di approvazione della legge rinviata possa o no essere esercitata in regime di prorogatio, quanto nella verifica della compatibilità della soluzione prescelta col tipo di forma di governo parlamentare vigente, e con il momento in cui esso si esprime, siccome segnato da prassi e convenzioni instaurate tra gli organi costituzionali e, nel caso in esame, tra Parlamento e Capo dello Stato50.

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19. Motzo, Il potere presidenziale di esternazione e di messaggio, in <Arch. Giur.>, 1957, 20.
20. L. Paladin, voce “Presidente della Repubblica”, in Enciclopedia del diritto, Giuffrè, 1986.
21. S. Pertini, Un messaggio presidenziale sulla copertura finanziaria delle leggi che impegnano spese future, in Foro italiano, 1983, fasc. 2 (febbraio), pt. 5, pagg. 25-27.
22. Rizza, Il Capo dello Stato nella forma di governo parlamentare: una rivisitazione, in <Dir. e soc.>, 1992.
23. Rossano, voce “Presidente della Repubblica”, in <Enc. Giuridica>, Roma, 1991.
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25. Schmitt, Il custode della costituzione, tr.it., Milano, 1981.
26. A. Spadaro, Prime considerazioni sul Presidente della Repubblica quale garante preventivo della Costituzione ed eventuale parte passiva in un conflitto per interposto potere, in Politica del diritto, 1993, fasc. 2 (giugno), pag. 219-230.
27. P. Tabarro, L’ attività di esternazione del Presidente della Repubblica: Spunti evolutivi in una recente decisione giurisprudenziale, in Rassegna Parlamentare, 1998, fasc. 2 (giugno), pagg. 455-465.
28. M.G. Tosoni, I messaggi liberi del Presidente della Repubblica, in Tribunali amministrativi regionali, 1982, fasc. 1 (gennaio), pt. 2, pagg. 33-47.
29. G. Zagrebelsky, Convenzioni costituzionali, in <Enc. Giuridica>, Roma, Treccani, 1988, p. 7.

Daniela Assenza
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NOTE
1 Maier, Le veto législatif du Chef de l’état, Genevè, 1947, pag. 9
2 F. Cuoculo.pag.47
3 Pier Giorgio Lucifredi, in Appunti di diritto costituzionale comparato, Milano, Giuffrè, 1993
4 Pier Giorgio Lucifredi, op. cit., pag.
5 G. Rizza, Istituzioni di diritto pubblico, Monduzzi, Bologna.
6 Idem, G. Rizza.
7 Grottanelli De’ Santi, in Commentario della Costituzione a cura di G. Branca, Zanichelli, Bologna, 1985.
8 Cfr. interventi dell’on. Orlando: seduta del 22 ottobre 1947.
9 Cuoculo, Il rinvio presidenziale nella formazione delle leggi, Giuffrè, Milano, 1955.
10 Grottanelli De’ Santi.
11 Galeotti, in Il Presidente della Repubblica: struttura garantistica o struttura governante?…..
12 Rossano, in <enc. Giurid.> Volume XXIV, 1991, Roma.
13 Bozzi A., Note sul rinvio presidenziale di una legge, in Riv. Trim. dir. pubbl., 1958,747.
14 idem
15 Grottanelli de’ santi, La formazione delle leggi, in Commentario della Costituzione, a cura di G. Branca, Zanichelli, Bologna, 1985.
16 Cuoculo, Il rinvio presidenziale nella formazione delle leggi.
17 Rizza, Istituzioni di diritto pubblico, Monduzzi, Bologna, 1997, pag.405.
18 Paladin, op.cit.
19 Paladin, op. cit.
20 Paladin, op. cit.
21 Paladin, op.cit.
22 Mortati, Istituzioni, 9 ed., 755.
23 Cuoculo, op. cit.
24 Mortati, op. cit.
25 Esposito, op. cit.
26 Cicconetti, op. cit.
27 Balladore Pallieri, Diritto costituzionale, 1950, p.195
28 Mortati, Istituzioni di diritto pubblico, p.355.; Cuoculo, Il rinvio presidenziale nella formazione delle leggi, op. cit., p.139., Galeotti, Il rinvio presidenziale delle leggi, in Rassegna di dir. pubbl., 1950, p.51, nota 4-bis.
29 A. Bozzi, op. cit.
30 In tal senso v. Cicconetti, La promulgazione delle leggi costituzionali, in Studi per il XX ann. Dell’Ass. cost., V, p. 181.
31 Bozzi, op. cit.
32 Biscaretti di Ruffia, I limiti della revisione costituzionale, in Annali dell’Università di Catania, 1949, p. 122.
33 Esposito, La Costituzione Italiana, 1954, p.1.
34 Cicconetti, op. cit.
35 G. Grottanelli de’ Santi, op. cit.
36 A. Bozzi, op. cit.
37 Grottanelli de’ Santi. Op. cit.
38 E. Castorina, Considerazioni sulla prorogatio delle Camere sciolte e fondamento dell’ultrattività del rinvio presidenziale nei lavori della nuova legislatura, in < 1989> Rivista di dir. Pubbl. e scienze politiche

39 Grottanelli de’ Santi, op. cit., pag.216.
40 E. Castorina, op. cit.
41 Elia, La continuità nel funzionamento degli organi costituzionali, I, Milano, Giuffrè, 1958, p.65.
42 P. Biscaretti di Ruffia, Il rinvio presidenziale delle leggi, op. cit.
43 Bozzi, Note sul rinvio presidenziale della legge, op. cit.

44 C. Mortati, Istituzioni di diritto pubblico, II, Padova, Cedam, !976, p. 756.
45 Grottanelli De’ Santi, op. cit.
46 E. Castorina, op.cit.
47 E. Castorina, op. cit.
48 G. Zagrebelsky, Convenzioni costituzionali, in “Enciclopedia giuridica”, Roma, Treccani, 1988, p.7.
49 E. Castorina, op. cit.
50 E. Castorina, op. cit., L’Autore rinvia, sul punto allo studio più recente di Zagrebelsky, op.cit.

Redazione

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