Riforma Gelli-Bianco: rivoluzione o ennesima occasione mancata?

Magda Irato 24/08/17
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La responsabilità medica, così come delineata dalla innovativa legge n. 24/2017[1] (c.d. Riforma Gelli-Bianco) rappresenta il risultato di una travagliata e tortuosa evoluzione normativa e giurisprudenziale in cui si intrecciano numerose istanze di tutela provenienti da una pluralità variegata di interessi confliggenti.

Non potendosi, in questa sede, ripercorrere tutte le tappe di un percorso lungo e controverso si cercherà di individuare le più significative novità e conseguenti criticità del nuovo intervento legislativo.

Si reputa opportuna una premessa; la riforma è sicuramente mossa dall’intento di neutralizzare il pericoloso fenomeno di medicina difensiva che degrada la professione del sanitario, paralizzando la ricerca scientifica, nonché di deflazionare il contezioso giudiziario attraverso l’introduzione di una serie di istituti, tutti, finalizzati alla sicurezza delle cure, prevenzione e gestione del rischio, le tre linee direttrici lungo le quali si muove la nuova normativa.

 

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Come si evince già dall’incipit della novella (art. 1), la sicurezza delle cure, perseguita nell’interesse dell’individuo e della collettività, viene identificata quale elemento costitutivo del diritto alla salute, conquistando, in tal modo, dignità e consistenza di un diritto fondamentale attorno al quale orbita l’attività sanitaria.

La sua realizzazione è affidata ad una serie di attività di prevenzione e risk management anche mediante il coinvolgimento di organi ed istituzioni locali quali il Difensore Civico Regionale o Provinciale, con funzione di garante per il diritto alla salute, ovvero attraverso l’istituzione di Centri regionali per la gestione del rischio sanitario e la sicurezza del paziente con il compito di raccogliere le informazioni sui rischi sanitari registrati a livello locale.

Venendo ai profili di responsabilità che rappresentano il novum della riforma l’approccio che si vuole assumere è quello di un’analisi critica dei punti di forza e di debolezza della nuova disciplina che tenga conto dei risvolti sul versante, principalmente, civilistico, ma anche, per ragioni di completezza, penalistico.

Al riguardo si impone sin da subito una doverosa precisazione; alla riforma, pur con le sue criticità, si deve senz’altro riconoscere il merito di aver eliminato alcuni dei più problematici profili di incertezza che si annidavano nella precedente disciplina contenuta nel decreto Balduzzi (d.l. 158/2012)

Più precisamente, tra i più dirompenti mutamenti atti a rimuovere le zone d’ombra della precedente normativa non può trascurarsi

1) Canalizzazione della responsabilità civile del sanitario nell’alveo dell’illecito aquiliano;

2) Positivizzazione delle linee guida;

3) Eliminazione della distinzione tra colpa lieve e colpa grave con l’introduzione di una fattispecie penale ad hoc responsabilità colposa per morte o lesioni in ambito sanitario” ex art. 590 sexies cp;

Si ritiene conveniente individuare dapprima le principali novità in ambito civilistico[2] in cui si ravvisano i cambiamenti più rivoluzionari e per alcuni aspetti anche più problematici.

Cuore della riforma è senza dubbio l’innovativo e non da tutti condiviso sistema del cd doppio binario.

Di fronte ad un danno cagionato dal medico nell’esercizio della sua professione, il paziente ha la duplice possibilità di rivolgersi sia nei confronti della struttura sanitaria, a titolo di responsabilità contrattuale, che dello stesso medico secondo il diverso statuto dell’illecito aquiliano.

Emblematico al riguardo è l’art. 7 rubricato “responsabilità civile della struttura e dell’esercente la professione sanitaria”.

Appare, dunque, opportuno, analizzare più da vicino le due forme di responsabilità.

Quanto alla prima, il comma I del citato articolo 7 prevede che “la struttura sanitaria o sociosanitaria pubblica o privata che, nell’adempimento della propria obbligazione, si avvalga dell’opera di esercenti la professione sanitaria, anche se scelti dal paziente e ancorchè non dipendenti della struttura stessa, risponde ai sensi degli artt. 1218 c.c. e 1228 c.c. delle loro condotte dolose o colpose.”

In merito alla responsabilità dell’ente ospedaliero la riforma non sembra avere una portata innovativa essendosi limitata a recepire il granitico orientamento giurisprudenziale formatosi sul punto.

La Suprema Corte, difatti, ha da sempre pacificamente ricondotto tale responsabilità nell’alveo dell’illecito contrattuale ex art. 1218 c.c. sull’assunto che l’accettazione del paziente in ospedale per ragioni di ricovero o visita ambulatoriale determinerebbe la conclusione del contratto atipico di spedalità avente ad oggetto la prestazione principiale rappresentata dal trattamento sanitario nonché prestazioni accessorie quali assistenza vitto e alloggio in ospedale[3].

Dalla pluralità di prestazioni discende che la struttura sanitaria risponde sia nel caso di c.d. danni da disorganizzazione direttamente ascrivibili all’ente ospedaliero dovuti, dunque, a deficit gestori- organizzativi, sia qualora il pregiudizio sia imputabile alla prestazione sanitaria eseguita dal medico. Quest’ultimo, infatti, rappresenta l’ausiliario necessario della cui opera la struttura sanitaria si serve nell’attuazione del rapporto obbligatorio secondo il principio cuius commoda eius et incommoda scalfito dall’art. 1228 c.c. non a caso richiamato dal medesimo art. 7 della l. 24/2017.

Sempre lo stesso principio giustifica la responsabilità dell’ente ospedaliero per l’illecito commesso dal medico ausiliario a prescindere dall’esistenza di un rapporto di lavoro subordinato, ma per il semplice fatto che la struttura si avvalga dell’opera del sanitario anche se scelto dal paziente e ancorchè non dipendente dalla struttura stessa.

Tuttavia, la nuova normativa non manca di riconoscere all’ente ospedaliero un’azione di rivalsa nei confronti del medico ausiliario (proponibile davanti al giudice civile se si tratta di una struttura privata, se pubblica dinnanzi alla Corte dei Conti), iniziativa giudiziaria sottoposta ad un duplice limite.

L’art. 9 della l. 24/2017 stabilisce, infatti, che una tale azione possa essere esperita solo nelle ipotesi di dolo o colpa grave del medico e che la quantificazione del danno “in caso di colpa grave non può superare una somma pari al valore maggiore della retribuzione lorda o del corrispettivo convenzionale conseguiti nell’anno di inizio della condotta causa dell’evento o nell’anno immediatamente precedente o successivo, moltiplicato per il triplo”.

Alla responsabilità dell’azienda ospedaliera fa da contraltare il sistema assicurativo di cui agli artt. 10 e ss. tutto incentrato nell’ottica di rafforzare e garantire la tutela del paziente.

Le strutture sanitarie e sociosanitarie pubbliche e private dovranno essere provviste di una copertura assicurativa o di analoghe misure per la responsabilità civile verso terzi e per la responsabilità civile verso prestatori d’opera, per danni cagionati dal personale a qualunque titolo operante presso le strutture sanitarie o sociosanitarie pubbliche e private, compresi coloro che svolgono attività di formazione, aggiornamento nonché di sperimentazione e di ricerca clinica.

Sulla stessa scia si colloca la previsione di un’azione diretta del paziente nei confronti dell’impresa assicuratrice che presta la relativa copertura alla struttura sanitaria.

La vittima di mala sanità, dunque, può agire direttamente nei confronti dell’impresa assicuratrice entro i limiti delle somme per le quali è stato stipulato il contratto di assicurazione ed entro lo stesso termine cui soggiace la relativa azione risarcitoria nei confronti della struttura sanitaria.

Sempre nella prospettiva di assicurare un ristoro certo al paziente si inserisce l’istituzione di un fondo in favore delle vittime di mala sanità mediante “la previsione nel bilancio delle strutture di un fondo rischi e di un fondo costituito dalla messa a riserva per competenza dei risarcimenti relativi ai sinistri denunciati” (art. 10, comma 6).

Se rispetto alla responsabilità della struttura sanitaria, eccezion fatta per il versante assicurativo, non vi sono particolari novità lo stesso non può dirsi riguardo alla responsabilità del medico per i danni cagionati al paziente affidato alle sue cure.

Ed invero, l’art. 7 comma III della l. 24/2017 ha esplicitamente ricondotto tale responsabilità nell’alveo dell’illecito aquiliano rinviando, per l’appunto, all’art. 2043 c.c. e sconfessando così tutta la precedente giurisprudenza in materia di responsabilità da contatto sociale.

Prima ancora della legge Balduzzi la giurisprudenza[4] era presocchè pacifica nel qualificare la responsabilità del medico nell’ambito della responsabilità da contatto sociale sull’assunto che il sanitario nel momento in cui prende in cura un paziente diviene titolare di obblighi di protezione e di assistenza in ragione della relazione che si viene ad instaurare con il medesimo, anche in assenza di un contratto o di un qualsiasi vincolo giuridico strictu sensu inteso.

In altri termini, il contatto sociale rappresenta uno di quegli altri fatti o atti idonei a creare le obbligazioni in conformità dell’ordinamento giuridico secondo la clausola aperta prevista dall’art. 1173 del c.c.

In caso di inadempimento, dunque, trova applicazione il relativo regime giuridico della responsabilità contrattuale di cui agli artt. 1218 e ss cc., regime, certamente più favorevole per il paziente in quanto prevede un onere probatorio più agevole ed un termine prescrizionale più lungo.

Questo indirizzo ermeneutico è sopravvissuto anche in seguito all’entrata in vigore del decreto 158/2012.

Secondo il prevalente orientamento formatosi all’indomani del decreto Balduzzi, il richiamo all’art. 2043 c.c. contenuto nel vecchio art. 3, lungi dal manifestare una voluntas legis a favore della natura extracontrattuale dell’illecito del medico avrebbe avuto la funzione di delimitare l’area del penalmente rilevante escludendo la punibilità in caso di colpa lieve e prevedendo “in tali casi” la responsabilità aquiliana quale istituto civilistico corrispondente alla responsabilità derivante da reato cui fa riferimento l’art. 185 c.p[5].

Con la riforma Gelli- Bianco non è più possibile una siffatta ricostruzione.

La nuova normativa, infatti, è cristallina nel qualificare la responsabilità in termini extracontrattuali laddove all’art. 7 comma 3 prevede espressamente che “l’esercente la professione sanitaria di cui ai commi 1 e 2 risponde del proprio operato ai sensi dell’art. 2043 c.c., salvo che abbia agito nell’adempimento di un’obbligazione contrattuale assunta con il paziente.”

La legge 24/2017 ha, quindi, messo la parola fine al dibattito sulla natura della responsabilità del sanitario quasi cancellando con un colpo di spugna il granitico orientamento sulla responsabilità da contatto sociale ed eliminando, altresì, ogni rischio di nostalgico ritorno al passato o dubbio ermeneutico considerando che l’ultimo comma dell’articolo 7 attribuisce il carattere dell’imperatività alle disposizioni in esame.

Indubbiamente la scelta del legislatore è coerente con la ratio dell’intera riforma che poggia sull’intento di alleviare la posizione del medico, prevenire il rischio del ricorso ad una medicina difensiva e dunque, ridurre il contenzioso, atteso che per il paziente è certamente più oneroso lo statuto della responsabilità civile rispetto a quello contrattuale sia sul piano probatorio sia in ordine al più breve termine prescrizionale.

Tuttavia, fermo il nobile intento, il risultato che ne deriva è una forzatura delle categoria giuridiche.

Sembra, infatti, difficile conciliare la scelta a favore della natura aquiliana con il nostro sistema giuridico in cui l’art. 2043 c.c. trova applicazione qualora tra danneggiato e danneggiante non ci sia alcun precedente rapporto giuridico qualificato.

Orbene, il medico non può considerarsi alla stregua di un quisque de populo rispetto al paziente che ha preso in cura. Al riguardo sembra certamente più coerente con la nostra tradizione giuridica ravvisare un contatto sociale tra medico e paziente con tutte le relative conseguenze e risvolti.

Da qui le prime criticità e perplessità.

A ciò si aggiunge che, introdotto il sistema del doppio binario, si può verificare il rischio di una commistione di diversi titoli di responsabilità giacchè l’illecito aquiliano del medico incrocia la responsabilità contrattuale della struttura con tutte le non trascurabili ripercussioni in relazione al diverso atteggiarsi dell’onere probatorio e del regime prescrizionale, soprattutto ove si consideri che trattandosi di un unico fatto dannoso scatta il regime della solidarietà di cui all’art. 2055 c.c.

Sembra, inoltre, che il medico non possa cantare vittoria nonostante la riforma militi in suo favore; i presunti benefici dell’onere probatorio, più gravoso per il paziente, e del termine prescrizionale più breve si traducono in vantaggi più formali che sostanziali.

Non si può negare che per il paziente sarà di gran lunga più difficile dimostrare la responsabilità del medico dovendo provare tutti gli elementi costitutivi del 2043 c.c., tuttavia l’esperienza delle aule giudiziarie ci insegna che queste cause si combattono a colpi di consulenza tecnica.

Resta il vantaggio del termine prescrizionale più breve, è vero, ma difficilmente il paziente vittima di un trattamento medico chirurgico perderà tempo prima di adire le vie giudiziarie.

Infine, altro nodo problematico è la delimitazione del danno risarcibile.

L’art. 7, comma 4, rinvia, alle tabelle di cui agli artt. 138/139 del codice delle assicurazioni questo consente da un lato di individuare con precisione i criteri alla stregua dei quali effettuare la liquidazione, tuttavia è noto che i primi dei due indici normativi è ancora in via di definizione in assenza di una tabella unica nazionale per le lesioni di non lieve entità.

Si presenteranno, dunque, gli stessi problemi che orbitano attorno alla quantificazione del danno biologico.

Altro dirompente elemento di novità della l. 24/2017 è la cd positivizzazione delle linee guida.

Com’è noto esse rappresentano quell’insieme di raccomandazioni redatte dalla letteratura scientifica e dal parere di esperti al fine di orientare il medico, in un’ottica di collaborazione con il paziente, nell’individuare le modalità di assistenza più adeguate in presenza di determinate condizioni. Hanno, quindi, funzione di supporto decisionale e si concentrano sul risultato da ottenere.

Trattasi, dunque, di regole cd di best practise che il medico è tenuto ad osservare al fine di raggiungere il migliore risultato terapeutico perseguibile e conseguentemente di evitare l’esposizione a profili di responsabilità.

Le guide lines erano già conosciute nella precedente disciplina giacchè il decreto Balduzzi, all’art. 3[6], escludeva la responsabilità penale del medico, rispettoso delle linee guida, solo in caso di colpa lieve.

Pertanto, la famosa distinzione tra colpa lieve e colpa grave ai fini della delimitazione dell’illecito penale, introdotta con il decreto Balduzzi e cancellata dalla riforma, poggiava sul presupposto indefettibile dell’osservanza delle linee guida tanto che c’era chi predicava l’incompatibilità tra rispetto delle stesse ed imputazione colposa[7].

In sostanza ci si chiedeva, come può esserci spazio per la colpa qualora il medico si sia comunque attenuto alle linee guida?

In realtà, si è osservato[8] che le guide lines non rappresentano la regola cautelare la cui violazione dà luogo alla responsabilità colposa, ma delle direttive terapeutiche rispetto alle quali la prescrizione cautelare impone al medico di verificarne l’adeguatezza alla fattispecie concreta.

Le linee guida, dunque, vanno applicate solo a seguito di un’accurata valutazione di conformità/adeguatezza rispetto alla situazione peculiare che si presenta dinnanzi al medico.

La regola cautelare che qui rileva è quella che prescrive questo preliminare giudizio di adeguatezza; se la linea guida non è confacente alle peculiarità del caso clinico concreto dell’hic et nunc la prescrizione cautelare impone al medico di astenersi dall’applicarla.

Ecco, dunque, come residuano dei margini di operatività del criterio di imputazione colposo anche qualora il medico si sia conformato alla direttiva terapeutica pur tuttavia non adeguata alle circostanze concrete.

Più precisamente, qualora l’inidoneità della linea guida alle condizioni peculiari del caso clinico è macroscopica, palese ed evidente il medico è in colpa grave e risponde penalmente. Diversamente qualora l’inadeguatezza non è così evidente si ravvisano gli estremi di una colpa lieve che, nella precedente normativa, escludeva la responsabilità penale del sanitario.

Questo era il senso del decreto Balduzzi.

Tornando alla riforma, rispetto al passato l’elemento di novità è dato, come anticipato, dalla positivizzazione delle guide lines.

Mentre il vecchio art. 3 del decreto Balduzzi faceva un generico riferimento alle linee guida, la legge Gelli- Bianco nell’introdurre una nuova fattispecie di reato attribuisce rilevanza non a qualsiasi raccomandazione terapeutica, bensì solo alle linee guida “come definite e pubblicate ai sensi della legge” relegando, tra l’altro, le buone pratiche assistenziali a criterio meramente residuale.

Il legislatore, dunque, prendendo atto che nella comunità scientifica convivono una molteplicità di raccomandazioni terapeutiche elaborate da soggetti diversi, non tutti dotati della stessa attendibilità a livello scientifico, prevede prontamente un meccanismo di accreditamento.

Non l’osservanza di una qualsiasi linea guida, da chiunque elaborata, esclude la responsabilità penale per imperizia, ma solo il rispetto di quelle guide lines selezionate dal legislatore ovvero quelle accreditate, certificate e pubblicate da soggetti a d’uopo abilitati.

Le raccomandazioni terapeutiche vengono così sottoposte ad un vaglio amministrativo da parte della struttura autorizzata ad accreditarle.

Questo criterio selettivo, affidato ad una procedura di accreditamento di tipo amministrativo, porta con se l’indubbio vantaggio di rimuovere le storture del sistema precedente in cui ben poteva verificarsi una situazione clinica interessata da una pluralità di linee guida spesso tra loro collimanti assicurando, dunque, un risultato positivo in termini di maggiore certezza.

Tuttavia, sul versante opposto, non può sottacersi il rischio che un siffatto controllo dirigistico-amministrativo sulla comunità scientifica chiamata ad elaborare le raccomandazioni terapeutiche possa degenerare in una c.d. medicina di Stato fino comprimere l’autonomia del medico il quale per beneficiare dell’esonero da responsabilità non è più libero di scegliere tra le diverse linee guida, ma si vede costretto a prendere in considerazione solo quelle preventivamente accreditate con buona pace della ricerca scientifica.

Sempre nella prospettiva di rimuovere le incertezze della precedente disciplina si coglie la novità di matrice penalistica più significativa, rappresentata indubbiamente, come già svelato, dall’introduzione di una fattispecie autonoma di reato prevista dal nuovo art. 590 sexies c.p., rubricato “responsabilità colposa per morte o lesioni in ambito sanitario”.

Sul punto sarà, dunque, inevitabile qualche brevissima riflessione[9].

La figura delittuosa è perfettamente in linea con la nuova tendenza legislativa degli ultimi anni che si connota per la creazione di fattispecie colpose a tutela dell’integrità fisica e della vita (si veda l’omicidio stradale).

Gli elementi caratterizzanti queste figure di nuovo conio si identificano nella particolare tipologia di colpa che qui viene in rilievo, rappresentata dalla violazione di apposite regole cautelari che governano determinate attività nello svolgimento delle quali si cagiona l’evento morte o lesione colposa (circolazione stradale, attività medica ecc. ecc.) e nell’inasprimento del relativo trattamento sanzionatorio.

Non potendo esaurire in questa sede tutte le complesse problematiche che orbitano attorno alla nuova figura di reato, si volgerà lo sguardo sul secondo comma della disposizione in esame ovvero quello che ha suscitato le maggiori perplessità tra i primi commentatori[10].

La norma[11] si apre, innanzitutto, con un rinvio agli art. 589 e 590 c.p. prevedendo che qualora gli eventi ivi indicati (rispettivamente morte e lesioni colpose) siano stati cagionati nell’esercizio di una professione sanitaria si applicano le pene previste dalle suddette disposizioni.

Prima obiezione; quale può essere l’utilità di una tale norma atteso che in sua assenza i fatti ivi previsti sarebbero comunque sussumibili negli art. 589-590 c.p. e considerando che alla medesima pena si perviene già con l’abrogazione del decreto Balduzzi operata dalla riforma Gelli- Bianco senza, dunque, la necessità di introdurre una fattispecie ad hoc?

La presunta inutilità precettiva si aggrava ove si consideri che il rinvio prevede tra l’altro l’applicazione della medesima cornice edittale stabilita per l’omicidio e le lesioni colpose senza che la circostanza che l’evento sia commesso nello svolgimento della professione sanitaria determini un aumento del trattamento sanzionatorio.

Possiamo, dunque, correttamente parlare di rivoluzione copernicana?

In realtà, il quid novi della normativa in esame è data dall’inciso “salvo quanto disposto dal secondo comma”.

È con quest’ultima disposizione che si avvera l’innovativa rivisitazione della disciplina penale della colpa medica.

Paradigmatica è la sua formulazione: “Qualora l’evento si sia verificato a causa di imperizia, la punibilità è esclusa quando sono rispettate le raccomandazioni previste dalle linee guida come definite e pubblicate ai sensi di legge ovvero, in mancanza di queste, le buone pratiche clinico-assistenziali, sempre che le raccomandazioni previste dalle predette linee guida risultino adeguate alle specificità del caso concreto.”

Il primo elemento di novità che balza agli occhi anche del lettore più distratto è il tramonto della storica e controversa distinzione tra colpa lieve e colpa grave ai fini dell’imputazione della responsabilità penale.

L’abbandono di questo criterio deve necessariamente essere salutato con gran favore giacchè ha il merito di riportare a coerenza il nostro sistema penalistico in cui, diversamente da quello civilistico (art. 2236 c.c.), la distinzione tra colpa lieve e colpa grave non incide mai sul an della punibilità, ma semmai sul quantum del trattamento sanzionatorio secondo i tradizionali criteri di commisurazione della pena previsti dall’art. 133 cp[12].

Tuttavia la formulazione infelice della norma solleva diversi dubbi e criticità.

Anzitutto si evidenzia la contraddittorietà tra l’incipit e la parte finale della disposizione; quando l’evento è cagionato con imperizia il medico non risponde penalmente se ha rispettato le linee guida adeguate alle specificità del caso concreto.

Ma se l’adeguatezza della direttiva terapeutica alle peculiarità della fattispecie concreta è, come precedentemente precisato, di per se indice di assenza di colpa e, dunque elemento che esclude l’imperizia, non è forse tautologico e contraddittorio affermare che quando l’evento è cagionato da imperizia il medico non risponde se ha agito nel rispetto delle linee guida adeguate al caso concreto e dunque, senza imperizia?

Quale potrebbe essere l’imperizia dell’esercente della professione sanitaria che ha rispettato le raccomandazioni terapeutiche accreditate dalla comunità scientifica valutandone anche correttamente l’idoneità e l’adeguatezza rispetto al caso sottoposto al suo esame?

Volendo escludere che trattasi di una disattenzione del legislatore è preferibile accogliere un’interpretazione ermeneutica che riconosca un’utilità precettiva della norma in commento individuando il suo fondamento nel c.d. errore esecutivo o adempimento incompleto.

L’esonero di responsabilità penale trova la sua ragione di esistere nel caso in cui il medico abbia prontamente individuato le linee guida da applicare valutandone correttamente l’adeguatezza rispetto al caso concreto, tuttavia nell’eseguire il trattamento clinico prescritto dallaraccomandazione commette un errore esecutivo non riuscendo, nell’applicazione pratica concreta, a fare correttamente tutto ciò che la linea guida impone.

Questo sembra essere l’unico spazio di operatività del II comma dell’art. 590 sexies cp.

Non va, infine, sottaciuto che il riferimento alla sola imperizia si pone in netto contrasto con l’orientamento giurisprudenziale formatosi sotto Balduzzi in base al quale le linee guida non conterrebbero solo regole tecnico specialistiche (quale parametro di valutazione della perizia del sanitario), ma anche raccomandazioni finalizzate alla prudenza e diligenza.

Il nuovo dato legislativo, pertanto, sembra mettere un punto – si spera – definitivo all’annosa questione relativa alla possibilità di una causa di esclusione della punibilità anche in caso di negligenza o imprudenza.

Tirando le conclusioni in ambito penale, la riforma Gelli-Bianco ha introdotto una nuova fattispecie di reato per il medico che nell’esercizio della sua professione cagioni colposamente la morte o lesioni provocando da un lato un inasprimento del trattamento sanzionatorio previgente e dall’altro, qualora si voglia accogliere la suddetta interpretazione del secondo comma del 590 sexies c.p., un alleggerimento della posizione del sanitario nel caso di errore ostativo.

Difatti, rispetto all’abrogato decreto Balduzzi, il medico che cagioni gli eventi di cui agli artt. 589-590 cp si espone senz’altro a responsabilità penale senza che sia necessario indagare sulla natura lieve o grave della colpa. Il sanitario che applica delle linee guida inadeguate al caso concreto, oggi, risponde della morte o lesioni cagionate quale che sia l’entità di tale inadeguatezza, macroscopica o scusabile. Ne consegue che sotto questo profilo vi è certamente un effetto in malam partem rispetto alla previgente normativa.

La nuova norma, dunque, in ossequio al principio di irretroattività sfavorevole non può che operare pro futuro. Per tutti i fatti commessi sotto la vigenza del decreto Balduzzi e prima della riforma Gelli- Bianco continua ad applicarsi la più favorevole disciplina del decreto 158/2012.

Qualora, poi, si volesse accogliere l’interpretazione conservativa del secondo comma dell’art. 590 sexies c.p. non può revocarsi in dubbio che ci si trovi di fronte ad una normativa più favorevole rispetto al decreto Balduzzi il quale non prevedeva – almeno espressamente- un esonero di responsabilità in caso di errore esecutivo.

Per cui, per tutte le fattispecie anteriori alla riforma Gelli – Bianco caratterizzate dalla corretta individuazione della linea guida adeguata al caso concreto, ma da una sua imperfetta esecuzione non pare azzardato affermare che ci si trovi di fronte ad un caso di abolitio crimins parziale.

Questi gli aspetti, tra luci e ombre, più significativi della nuova legge 24/2017.

Stimare un bilancio della riforma sembra ancora prematuro ed azzardato, non resta che attendere i risultati dell’applicazione pratica per stabile se inchinarci al legislatore oppure prepararci all’ennesima riforma.

 

 

[1] Per i primi commenti; R. PAROLESI Chi (vince e chi perde) nella riforma della responsabilità sanitaria, in Danno e Responsabilità, 3/2017, 261 e ss; M. Hazan – S. Centonze, Responsabilità medica: al via la nuova legge sul rischio clinico la sicurezza delle cure, in Quotidiano giuridico del 20 Marzo 2017.

[2] Cfr. DE SANTIS, La colpa medica alla luce della legge Gelli- Bianco, in Studium Iuris, 7-8/2017; BARBARISI A., L’onere della prova nella responsabilità sanitaria, in I contratti, 2/2017.

[3] Più precisamente trattasi di un “contratto a prestazioni corrispettive con effetti protettivi nei confronti del terzo da cui, a fronte dell’obbligazione al pagamento del corrispettivo, insorgono a carico della casa di cura (o dell’ente) pubblica o privata, accanto a quelli latu sensu alberghieri, obblighi di messa a disposizione del personale medico e dell’apprestamento di tutte le attrezzature necessarie, anche in vista di eventuali complicazioni o emergenze” Cass. civ. SS.UU. 11 Gennaio 2008 n. 577.

[4] La tesi della responsabilità contrattuale da “contatto sociale” è di matrice dottrinale (C. CASTRONOVO, L’obbligazione senza prestazione ai confini tra contratto e torto, in AA.VV., Studi in onore di Luigi Mengoni, Milano, 1995, I, pp. 147 e ss.; più recente, ID., La nuova responsabilità civile, Milano, 2006, pp. 443 ss.) ed è penetrata nella giurisprudenza di legittimità a partire dalla celebre sentenza Cass. Civ., Sez. III, 22 aprile 1999, n. 589, in Danno e responsabilità, 1999, p. 294.

[5] tale orientamento fa eccezione l’indirizzo ermeneutico seguito dal Tribunale di Milano, in particolare nelle sentenze del 17 luglio e 2 dicembre 2014, il Trib. Milano, Sezione I, afferma che: «Il tenore letterale dell’art. 3 comma 1 della legge Balduzzi e l’intenzione del legislatore conducono a ritenere che la responsabilità del medico (e quella degli altri esercenti professioni sanitarie) per condotte che non costituiscono inadempimento di un contratto d’opera (diverso dal contratto concluso con la struttura) venga ricondotta dal legislatore del 2012 alla responsabilità da fatto illecito ex art. 2043 c.c. e che, dunque, l’obbligazione risarcitoria del medico possa scaturire solo in presenza di tutti gli elementi costitutivi dell’illecito aquiliano (che il danneggiato ha l’onere di provare). In ogni caso l’alleggerimento della responsabilità (anche) civile del medico “ospedaliero”, che deriva dall’applicazione del criterio di imputazione della responsabilità risarcitoria indicato dalla legge Balduzzi (art. 2043 c.c.), non ha alcuna incidenza sulla distinta responsabilità della struttura sanitaria pubblica o privata (sia essa parte del S.S.N. o una impresa privata non convenzionata), che è comunque di tipo “contrattuale” ex art. 1218 c.c.».

[6] Si riporta il testo dell’ art. 3, comma I, del decreto-legge 13 settembre 2012, n. 158, (pubblicato nella Gazzetta Ufficiale 13 settembre 2012, n. 214), coordinato con la legge di conversione 8 novembre 2012, n. 189, recante: «Disposizioni urgenti per promuovere lo sviluppo del Paese mediante un piu’ alto livello di tutela della salute.»: “L’esercente la professione sanitaria che nello svolgimento della propria attività si attiene alle linee guida e nuove pratiche accreditate dalla comunità scientifica non risponde per colpa lieve. In tali casi resta comunque fermo l’obbligo di cui all’art. 2043 del codice civile. Il giudice, anche nella determinazione del risarcimento del danno, tiene debitamente conto della condotta di cui al primo periodo”. Articolo abrogato dall’art. 6, comma II, della legge n. 24/2017 “Disposizioni in materia di sicurezza delle cure e della persona assistita, nonché in materia di responsabilità professionale degli esercenti le professioni sanitarie”.

[7] BILANCETTI F. e M., La responsabilità penale e civile del medico, VIII Ed., Padova, 2013, 815.

[8] A.R. DI LANDRO, Le novità normative in tema di colpa penale (l. 189/2012 c.d. “Balduzzi”), in Riv. It. Med. Leg., 2013, 833.

[9] Per ulteriori approfondimenti si veda D’ALESSANDRO F., La responsabilità penale del sanitario alla luce della riforma “Gelli – Bianco”, in Dir. Pen. Proc., n. 5/2017.

[10] Si vedano sul punto BASILE F., Un itinerario giurisprudenziale sulla responsabilità medica colposa tra art. 2236 cod. civ. e Legge Balduzzi (aspettando la riforma della riforma), in www.penalecontemporaneo.it, , 23 febbraio 2017; POLI P.F. , Il ddl Gelli-Bianco: verso un’ennesima occasione persa di adeguamento della responsabilità penale del medico ai principi costituzionali?, ibidem, 20 febbraio 2017; CUPPELLI C. , Alle porte una nuova responsabilità penale degli operatori sanitari. Buoni propositi, facili entusiasmi, prime perplessità, ibidem, 16 gennaio 2017.

[11] Si riporta l’art. 590 sexies c.p. “Se i fatti di cui agli articoli 589 e 590 sono commessi nell’esercizio della professione sanitaria, si applicano le pene ivi previste salvo Se i fatti di cui agli articoli 589 e 590 sono commessi nell’esercizio della professione sanitaria, si applicano le pene ivi previste salvo quanto disposto dal secondo comma.

Qualora l’evento si è verificato a causa di imperizia, la punibilità è esclusa quando sono rispettate le raccomandazioni previste dalle linee guida come definite e pubblicate ai sensi di legge ovvero, in mancanza di queste, le buone pratiche clinico assistenziali, sempre che le raccomandazioni previste dalle predette linee guida risultino adeguate alle specificità del caso concreto”.

[12] Una diffusa, e al momento prevalente, giurisprudenza assume che la gravità della colpa in penale è considerata solo per incidere sulla entità della pena sia come motivo di aggravamento del reato ai sensi dell’articolo 61 n. 3 cod. pen. sia della pena stessa ai sensi dell’articolo 133, I comma n. 3 cod. pen. ma mai come requisito soggettivo di responsabilità. “Secondo l’insegnamento di questa Suprema Corte l’ordinamento giuridico penale distingue tra i vari gradi di colpa soltanto ai fini della misura della pena e non ai fini dell’accertamento dell’elemento soggettivo anche sub specie imperitiae” (Cass. 2.7.2002 in Giust. Pen. 2003,338); “non appare condivisibile la tesi secondo cui nell’ambito della responsabilità medica trova applicazione l’articolo 2236 cod. civ. che limita ai soli casi di colpa grave … la gravità della colpa potrà avere eventualmente rilievo solo ai fini della graduazione della pena “(Cass. 23.3.2007 n. 21588); “da tempo la giurisprudenza di questa Suprema Corte è consolidata nel senso che la colpa debba essere valutata nell’ambito penale alla stregua dei principi enunciati dall’articolo 43 cod. pen.; e che invece non trovi applicazione il principio civilistico, espresso dall’articolo 2236 cod. civ., secondo cui nell’ambito considerato rileva la colpa grave “(Cass.28.10.2008 n. 46412); in caso di responsabilità penale di un medico specializzando, tale sentenza viene richiamata espressamente, per cui si conferma che “nel caso di specie non possa trovare applicazione in sede penale il principio civilistico della colpa grave sancito dall’articolo 2236 cod. civ.”(Cass. 17.1.2012 n. 6981).

Magda Irato

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