Rifessioni sulla media-conciliazione: risorsa per la giustizia ed opportunità di crescita sociale

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Legem brevem esse oportet,

quo facilius ab imperitis teneatur.

Occorre che la legge sia concisa

perché venga meglio ricordata

da chi non è del mestiere

[Seneca, Lettere morali].

 

Scoraggia la lite. Favorisci l’accordo ogni volta che puoi. Mostra come l’apparente vincitore sia spesso un reale sconfitto”! Parafrasando le parole di Abramo Lincoln, riusciamo forse a cogliere la ratio1 che ha spinto il legislatore ad emanare il Decreto Legislativo 4 marzo 2010, n. 28 e s.m.i., recante “Attuazione dell’articolo 60 della legge 18 giugno 2009, n. 69, in materia di mediazione finalizzata alla conciliazione delle controversie civili e commerciali2.

La Media-conciliazione (o più correttamente la mediazione, giacché la conciliazione è solo uno dei possibili esiti di questa procedura “informale”) è un viaggio. Si tratta della “traduzione” (rectius, si dovrebbe dire del tentativo di messa in atto) di un cammino che dalla contrapposizione-dualismo tipica della logica del “bellum omnium contra omnes3” nell’attuale struttura sociale e giuridica porta al suo rovescio, all’integrazione-assimilazione dell’identità ed al riconoscimento dell’umanità; l’istituto della Mediazione tenta di rendere visibile e di attuare questo percorso. Si tratta di un processo storico, ermeneutico, di riflessione, prima ancora che giuridico, che conduce o dovrebbe portare all’affermazione dell’unità nel conflitto, del confluire per generare (o perlomeno, tentare di creare) le basi della ricostruzione di una relazione sociale tra le parti in gioco della lite.

Con tale normativa si introduce, quindi, un modello innovativo nel panorama europeo e determinante per risolvere la crisi che attraversa attualmente il sistema di giustizia civile e per cercare di promuovere lo sviluppo del concetto di “ubuntu” nel mondo delle relazioni social-giuridiche. E non solo; senza voler caricare eccessivamente i mediatori di aspettative e responsabilità è auspicabile che tutte le relazioni umane, con il tempo, possano trarre giovamento da quella che è una vera e propria rivoluzione contrattuale, per una ragione molto semplice: se questo metodo innovativo di risoluzione della controversie riuscirà a convincerci del fatto che anche una relazione problematica come il conflitto può migliorare e diventare qualcosa di più positivo, a maggior ragione le persone dovrebbero rendersi conto della possibilità di migliorare le relazioni umane che, secondo l’opinione di molti, nell’Occidente sono in crisi, di qualunque tipo esse siano; basti pensare a ciò che accade all’interno delle famiglie, agli episodi di violenza sempre più frequenti nei confronti delle donne, di tutti i soggetti deboli della società, di chi vive ai margini di essa, di chi è di un’altra cultura, appartiene ad un altro popolo o ha l’unica “colpa” di avere una diversa mentalità. Il termine “ubuntu” deriva da un antico vocabolo zulu (letteralmente: umanità) diffuso in varie parti dell’Africa meridionale e viene utilizzato nel detto umuntu ngumuntu ngabantu, traducibile con “io sono ciò che sono per merito di ciò che siamo tutti4.

Si tratta di parole che demarcano ed includono, oppure, a seconda dei casi, delle situazioni, del contesto in cui sono utilizzate e della persona che le utilizza, escludono senza possibilità di appello. Si tratta, inoltre, di parole che descrivono un’identità caratterizzata dalla relazione sociale con l’altro. Detta identità non può essere negoziata, perché ad essa si può solo appartenere o meno. Dalla notte dei tempi il dilemma si ripropone ai giorni nostri con estrema attualità: “animale sociale” o “homo homini lupus5”, quale è la natura della specie umana? A qualcuno potrebbero sembrare fuori luogo citazioni che hanno a che fare con la filosofia e non con il diritto, ma è proprio con la natura umana che la mediazione si confronta, tanto che secondo Bush e Folger, gli ideatori del metodo trasformativo, al quale più oltre faremo riferimento, i due diversi modelli di mediazione, da un lato quella del cd. “problem solving” e dall’altro quella “trasformativa”, hanno alla base due idee diametralmente opposto dell’uomo: la prima si fonda su una visione che consiste nell’affermare che il singolo può soddisfare meglio le proprie esigenze in autonomia, cosicché le relazioni con gli altri sono una sorta di “male minore” da tollerare ma nello stesso tempo da contenere, cosicché il conflitto è una realtà totalmente negativa da tenere sotto controllo ad ogni costo; la seconda al contrario ritiene che ogni essere umano sia costantemente alla ricerca di un punto di equilibrio tra autonomia e relazione sociale e che il conflitto sia solo una particolare relazione umana, che non deve essere soffocata e contenuta ma “trasformata” affinché divenga più positiva, cosicché essa, lungi dall’essere una realtà da combattere solamente, può addirittura rivelarsi una risorsa.

Rebus sic stantibus, dopo aver letto il testo del Decreto Legislativo n. 28/2010 e del Decreto Ministeriale 18 ottobre 2010, n. 180 (come modificato dal D.M. 145/2011) – recante “Regolamento recante la determinazione dei criteri e delle modalità di iscrizione e tenuta del registro degli organismi di mediazione e dell’elenco dei formatori per la mediazione, nonché l’approvazione delle indennità spettanti agli organismi, ai sensi dell’articolo 16 del decreto legislativo 4 marzo 2010, n. 28” –, riteniamo di poter almeno provare a spezzare una lancia in favore di questo nuovo istituto del diritto e cercare di sottolineare per quale motivo esso potrebbe meritare, quanto meno, di essere messo alla prova e perfezionato, come possibile mezzo di risoluzione delle controversie6.

La mediazione è un procedimento non formale nel quale le parti vengono aiutate a dialogare tra di loro relativamente al conflitto che le vede coinvolte e a tutto ciò che può avere rilevanza perché direttamente o meno influisce sulla lite e sul rapporto tra le parti.

Sul punto l’articolo 1 lett. a) del Decreto, confermato nel testo dall’art. 1 lett. a) del Decreto Ministeriale n. 180/2010, riconosce nella mediazione “l’attività, comunque denominata, svolta da un terzo imparziale e finalizzata ad assistere due o più soggetti sia nella ricerca di un accordo amichevole per la composizione di una controversia, sia nella formulazione di una proposta per la risoluzione della stessa”.

Orbene, contrariamente a quanto si possa pensare, la mediazione non necessariamente ha come finalità quella di addivenire alla soluzione, nel senso che non è questo l’unico modo possibile di intenderla.

Le due scuole di pensiero principali, infatti, cercando di sintetizzare molto, sono quella del “problem solving” (alle quali si è sopra accennato) in cui in effetti il mediatore fa di tutto per aiutare le parti a raggiungere un accordo che possa risolvere la controversia e la mediazione trasformativa, nella quale la preoccupazione principale è quella di aiutare le parti prima di tutto a comunicare ed attraverso il dialogo riappropriarsi di quelle capacità di gestire la situazione che il conflitto gravemente compromette, essendo in genere alienante e disumanizzante. L’obiettivo è portare ciascuna parte a prendere atto degli interessi e del punto di vista dell’altra (il riconoscimento) e man mano che ciò avviene aumenta anche la possibilità di riappropriarsi del controllo sulla situazione e sulla relazione (si parla, al riguardo, di “empowerment”).

Il secondo metodo è nato come reazione al primo, perché ci si è resi conto che puntando troppo sulla soluzione (come in gran parte fa la disciplina contenuta nel D. Lgsl. 28 del 2010) si finisce per fare delle pressioni sulle parti che ne condizionano troppo pesantemente la volontà, dando luogo ad un accordo debole che può facilmente essere posto in discussione da un nuovo inasprirsi del conflitto.

E’ maturata così la convinzione che lavorando maggiormente sul rapporto tra le parti, riconoscendo ad esse il controllo assoluto del procedimento, facendo decidere ad esse cosa fare in tutti i momenti chiave e soprattutto puntando alla trasformazione della relazione conflittuale che le parti vengono aiutate a fare, si può raggiungere più facilmente una soluzione che sia davvero voluta e che possa reggere nel tempo, anche perché il conflitto non viene lasciato com’è ma subisce effettivamente un cambiamento profondo che lo trasforma in una realtà più positiva, in un particolare tipo di relazione tra le parti.

Dobbiamo ammettere che leggendo alcuni contributi in subiecta materia7 siamo stati assaliti da numerosi dubbi e in un primo momento abbiamo pensato che un metodo del genere, in cui tutto è lasciato alle parti (o almeno il più possibile), per forza è inconcludente e soprattutto laddove non c’è una relazione tra le parti destinata a continuare, non può funzionare8.

Con nostra grande sorpresa, invece, ci siamo accorti, venendo a contatto con statistiche, esperienze e fatti concreti (gli stessi autori di “La Promessa della Mediazione” danno conto di tutto ciò nella loro opera, anche perché la mediazione trasformativa nasce dall’esperienza sul campo e da essa trae ispirazione per un continuo affinamento delle tecniche ed un continuo miglioramento dei risultati), che queste perplessità (del tutto naturali in chi si accosta per la prima volta a questo originale modo di concepire la mediazione) non possono reggere. Ovunque questo metodo sia stato applicato, nell’arco di quindici anni, anche nella mediazione ambientale e persino nei rapporti tra datori di lavoro e dipendenti all’interno del servizio postale americano, ha prodotto effetti anche migliori di quello volto alla soluzione della controversia9.

Di fronte a questo dato di fatto (al quale si aggiunge l’esperienza positiva nel mondo anglosassone, laddove i metodi alternativi di risoluzione delle controversie (ADR) risolvono ormai percentuali altissime di liti, vicine al 70, qualche volta all’80%), è spontaneo chiedersi per quale motivo la mediazione (in particolare quella trasformativa) riesce a funzionare e soprattutto cosa possa avere in più, per esempio, rispetto ad una conciliazione condotta da un giudice nell’ambito di un giudizio.

I motivi, per l’idea che ci siamo fatti come cultori dell’istituto della mediazione, sono molteplici.

Una delle ragioni principali consiste nel fatto che il modo in cui si sviluppa il dialogo tra le parti in mediazione, di fronte ad una persona che non ha alcun potere di decidere sulla controversia, permette ad esse di esprimersi sugli argomenti più vari (anche su alcuni che non emergerebbero mai davanti ad un giudice) in tutta libertà, riuscendo così a far emergere le motivazioni più vere e più profonde che le hanno portate ad una relazione così problematica.

Non a caso viene frequentemente utilizzata, durante i corsi di formazione in materia di mediazione, l’espressione “allargamento della torta” alludendo con ciò alla possibilità di far emergere le emozioni, preoccupazioni, aspirazioni, gli interessi sia delle parti che, eventualmente, anche di persone non direttamente coinvolte nel conflitto ma ugualmente importanti nella genesi e nell’evoluzione dello stesso, che sono alla base delle posizioni delle parti (spesso le uniche che si vedono in un giudizio) ed è proprio lavorando su questo universo sommerso che si può aiutare le parti ad escogitare una soluzione che tenga conto di tutti questi aspetti, le soddisfi pienamente e in modo molto più completo di quello che potrebbe offrire una sentenza (che può anche scontentare tutti) o un accordo che non tenga conto di questo “substrato”, ma solo di ciò che si vede alla superficie.

Un esempio banale che si prospetta solitamente nelle sessioni formative può rendere molto bene l’idea.

Due figlie dei medesimi genitori sono in lite tra di loro perché vogliono la stessa arancia. Il genitore, per non fare torti, sarebbe portato a dividere l’arancia a metà secondo un criterio che potrebbe apparire di giustizia ed eguaglianza. Nel momento in cui però si approfondiscono i motivi della richiesta emerge che una figlia vorrebbe l’arancia per fare la spremuta perché ha sete, l’altra vorrebbe le bucce per preparare un dolce. Entrambe gli interessi possono allora essere pienamente soddisfatti sbucciando l’arancia e dando ad una figlia il succo, all’altra le bucce.

Una sentenza di un giudice in una situazione del genere non potrebbe arrivare ad una simile soluzione e sconterebbe entrambe le parti. Si pensi, a titolo esemplificativo, alle soluzioni proposte dal diritto in casi di questo genere, quale un’azione di rivendicazione della proprietà, in cui solo una parte può vincere e l’altra perde, o all’ipotesi in cui sia proposta un’azione di divisione ed agli esiti che essa può avere, nessuno dei quali pienamente soddisfacente per tutte le parti, sia in caso di divisibilità del bene, in cui ciascuno ne riceve una parte, sia in caso di assegnazione dell’intero ad uno dei contendenti, con corresponsione all’altro del valore della quota, sia, infine, al caso di vendita ad un terzo con distribuzione del ricavato, giacché in questa ipotesi nessuno ottiene il bene.

Un altro motivo per il quale la mediazione ha ragion d’essere sta nella maggiore flessibilità della soluzione che può essere adottata (unita alla caratteristica precedentemente descritta). Molto spesso per esempio assumono enorme importanza scuse formali che una parte fa all’altra (e ciò è impensabile che possa fare seguito ad un giudizio).

Qualcuno tuttavia potrebbe pensare che la mediazione non sia in realtà un istituto nuovo, perché nell’800 in Italia, dicono le statistiche, la maggior parte delle liti era affidata ai giudici conciliatori. Se un modello del genere non è stato (subito) riproposto nei tempi successivi, vuol dire che ne è stata constatata l’inutilità. Quid juris? O meglio, è esatto che è da una tale premessa che è derivata, come conseguenza, l’abbandono di tale istituto e che questa è la “ratio” della sua abrogazione ed introduzione di una disciplina molto diversa nel momento in cui è stato introdotto in Italia il Giudice di Pace? All’epoca, in realtà, c’era un pesante limite alla conciliazione condotta dai giudici! Le parti sapevano che quella stessa persona in una seconda parte del procedimento si sarebbe spogliata dei panni di soggetto terzo ed imparziale ma che non può decidere ed avrebbe assunto quelli di chi può quanto meno essere condizionato, anche inconsciamente, da quanto emerso nella prima parte del procedimento nell’assumere una decisione e ciò impediva loro di aprirsi; in questo la mediazione si distingue nettamente da un tentativo di conciliazione condotto da un giudice durante una causa (senza considerare tutti gli altri aspetti sopraevidenziati).

Si tratta di una realtà nella quale finalmente si mette al centro la persona10, con tutto il suo essere, le sue emozioni e le sue aspirazioni, anche non direttamente coinvolte dalla lite ma pure importanti, mentre nel processo emergono, al massimo, le posizioni formali, non tutto ciò che è sotteso ad esse ma è determinante per la composizione del conflitto e per la piena soddisfazione delle parti.

Sarebbe, però, sbagliato pensare che la mediazione possa sostituire il processo. La mediazione può essere forte solo se ciascuna parte sa che se fallisce, le attende un processo altrettanto forte e veloce, perché solo in questo caso può esserci un interesse a trovare una soluzione amichevole piuttosto che subirne una “preconfezionata” sulla quale esiste una assai minore possibilità di controllo ed entro tempi rapidi.

Soprattutto chi sa di avere torto può cercare, in mediazione, di ottenere un accordo squilibrato ed a proprio vantaggio (magari facendo leva proprio sulle storture e sulle lungaggini della giustizia che possono condurre la parte che ha ragione ad accontentarsi, piuttosto di ottenere, a distanza di tempo, una sentenza ormai divenuta inutile essendo troppo mutata nel frattempo la situazione o subire addirittura una decisione ingiusta).

Mediazione e processo dovrebbero pertanto aiutarsi a vicenda perché la prima dovrebbe, con il tempo, diminuire il contenzioso e consentire una giustizia più veloce ed efficiente ed il secondo, una volta rafforzato, dovrebbe favorire, quando le parti ricorrono alla mediazione, il raggiungimento di accordi più equilibrati.

Molto interessante, per capire ciò che distingue la mediazione dal processo, anche l’opera della Morineau che indaga il fenomeno “mediazione” da un punto di vista psicologico ed umano più che giuridico e traccia un parallelo da un lato con esperienze antichissime, come quelle del “caprio espiatorio” (per esempio un’usanza ebraica un agnello veniva bagnato con il sangue dei sacrifici e spinto nel deserto, a simboleggiare un riversare su di esso tutto il male presente negli uomini perché lo espiasse con la sua morte), dall’altro con la tragedia greca, facendo notare come il mediatore abbia il ruolo di uno specchio offerto alle parti per indagare il proprio e l’altrui modo di porsi nel conflitto e le proprie emozioni più profonde, mentre il ruolo espiatorio viene assunto, con l’accordo finale, da ciascuna delle parti nei confronti dell’altra, cosicché non c’è un innocente che si carica del male per espiarlo, ma ciascuno deve espiare in qualche modo il proprio e l’altrui male andando incontro all’altro con un sacrificio di sé.

Tentando di sintetizzare in modo estremo si potrebbe allora dire che se al centro del processo c’è la legge e la tutela degli interessi delle parti, come riconosciuti nell’ordinamento, al centro della mediazione ci sono le persone nel loro insieme ed in tutti i loro aspetti, in tutta la loro umanità e la relazione tra di esse.

Tutto ciò ben duemila anni fa era già stato efficacemente esposto nel Vangelo, con quell’estrema capacità di sintesi che Nostro Signore ha dimostrato in più di una occasione (basti pensare alla frase “a Cesare quel che è di Cesare e a Dio quel che è di Dio”, che in tempi più moderni ha dato vita a diverse concezioni del principio di laicità dello Stato, non tutte in linea con l’effettivo significato di quella espressione)11.

Il mettersi d’accordo è la sintesi stessa della mediazione, ovvero un tentativo di fronteggiare la controversia nella relazione e partendo da essa per migliorarla; è più facile che ciò porti ad un accordo equilibrato se c’è la consapevolezza, in caso contrario, di una giustizia che funziona e non fa sconti o concessioni di sorta, premiando veramente chi ha ragione (quanto meno secondo il diritto).

Ad ogni modo, ai posteri l’ardua sentenza! Noi, da umili operatori del diritto, riteniamo che la mediazione, in un momento storico in cui moltissime relazioni sono in crisi (basti pensare al dilagare di divorzi e separazioni, con conseguenze nefaste anche per i rapporti genitori-figli) possa portare alla riscoperta di una verità sulla quale forse tutti potrebbero trovarsi d’accordo: la natura stessa dell’uomo lo rende un essere destinato alla relazione e solo tornando a prendersi cura di essa, uscendo da un individualismo dilagante ed eccessivo, è forse possibile costruire un mondo migliore. In gioco potrebbe esserci non solo il miglioramento della giustizia, ma soprattutto quello dell’intera società.

La nostra riflessione si conclude con un ricordo, più che un monito, a noi stessi prima che a tutti coloro che intendano promuovere la cultura della Mediazione, su quanto sentenziava un po’ di millenni fa il grande filosofo e scienziato Aristotele : “μέσον τε καὶ ἄριστον12”. Nell’attuale società dei diritti, la mediazione rappresenta una opportunità per tutti i cittadini, una virtù per coloro che ne condividano la filosofia (anche di vita) e la cultura (non solo giuridica), una vittoria per l’ordinamento nella misura in cui garantisca alle parti, da un lato, di ottenere un guadagno reciproco dalla trattativa in corso e, dall’altro, di migliorare le relazioni sociali.

1 Forse, anzi, l’obiettivo di trovare a tutti i costi una soluzione è stato perseguito in modo quasi ossessivo, dimenticando che ve ne potrebbero essere anche altri, non meno utili, ma questo è un argomento troppo lungo e complesso per poter essere affrontato in questa sede e non è la nostra intenzione!

2 Pubblicato in G.U. n. 53 del 5 marzo 2010.

3 Thomas Hobbes (filosofo britannico, 15881679) afferma che lo stato di natura dell’uomo è la guerra di tutti contro tutti (“bellum omnium contra omnes”), e che ogni uomo è lupo per gli altri uomini (“homo homini lupus”). Nello stato naturale ognuno ha diritto su tutti, ogni uomo aspira a soverchiare il suo prossimo, i desideri di potere di ogni uomo si sovrappongono e si scontrano inevitabilmente. Ciò che può porre un limite a questa situazione di anarchia è il patto sociale che porta inevitabilmente alla costituzione di uno stato sovrano.

4 L’espressione viene utilizzata da Desmond Mpilo Tutu (Klerksdorp, 7 ottobre 1931), un arcivescovo anglicano e attivista sudafricano, che raggiunse una fama mondiale durante gli anni ottanta come oppositore dell’apartheid: “THINK, ACT, PLAY. Tre momenti in un unico programma. Gli africani credono in qualcosa che è di difficile traduzione. Noi lo chiamiamo ubuntu. Espressione che definisce l’essenza dell’uomo [….] Implica umanità, gentilezza, ospitalità , una predisposizione ad impegnarsi a favore degli altri e ad essere vulnerabile. Comprende compassione e spontaneità. Riconosce che il mio essere persona è legato al tuo essere persona, poiché noi possiamo essere umani soltanto insieme”.

5 Cfr. nota 2 supra.

6 Tra i primi saggi in materia di mediazione, cfr. ex multis, in particolare “La Promessa della Mediazione”, casa editrice Vallecchi, degli Americani Bush e Folger e “Lo spirito della mediazione”, di Jaqueline Morineau, casa editrice “FrancoAngeli”,

7 Ovvero con specifico riferimento alla mediazione trasformativa, in particolare leggendo l’opera forse più famosa in cui se ne descrivono caratteristiche, fondamenta, modi di utilizzo, ovvero “La Promessa della Mediazione”, degli americani R. Baruch Bush e Joseph P. Folger già ricordati.

8 Probabilmente questa è l’impressione di chiunque per la prima volta si accosti ad un metodo così diverso ed originale di tentare la composizione di una lite, in cui il mediatore sembra restare inattivo e lasciar fare tutto alle parti.

9 cfr. Per quanto riguarda in generale la mediazione negli Stati Uniti Tiziana Fragomeni, Mediazione e Conciliazione, casa editrice La Tribuna, pg. 28 ss.gg. “Ricordiamo che nella cultura occidentale la nazione in cui il concetto di Mediazione ha riscosso maggior successo è rappresentato dagli Stati Uniti d’America, ove tale forma di risoluzione delle controversi viene ormai utilizzata da quasi cinquanta anni. […] Il primo ambito in cui la mediazione fu formalmente istituzionalizzata negli U.S.A. fu il mondo del lavoro e più precisamente nell’ambito dei rapporti intercorrenti tra lavoratori e management. Ciò in base alla convinzione che l’accordo negoziato consentisse di evitare scioperi o serrate costosi sia per i lavoratori che per i datori di lavoro, assicurando così una pace industriale efficace e stabile; e in base alla convinzione che una composizione amichevole dei conflitti, attraverso la contrattazione collettiva, potesse migliorare la sicurezza e la ricchezza degli Americani”.

10 Sul punto assume rilevanza il cd. principio personalista contenuto nell’articolo 2 della Costituzione, da cui emerge che la nostra Carta Costituzionale si prefigge quale obiettivo prioritario il pieno sviluppo della persona e lo svolgimento della personalità, norma a cui viene ormai riconosciuta portata precettiva e quindi diretta applicabilità ai rapporti intersoggettivi (cfr. le numerose pubblicazioni scientifiche di Pietro Perlingieri, esponente autorevole del personalismo e fondatore della dottrina del “diritto civile nella legalità costituzionale”, quali La personalità umana nell’ordinamento giuridico (Casa Editrice Jovene, 1972); Il diritto civile nella legalità costituzionale secondo il sistema italo-comunitario delle fonti (Casa Editrice ESI ed. 1983; 1991; 2006).

11 C’è, difatti, un brano del Vangelo che racchiude in sé la natura e lo scopo della mediazione e del processo ed anche in qualche modo il ruolo ausiliario che ciascuno dei due tipi di procedimento, molto diversi tra loro, ha nei confronti dell’altro: “21. Mettiti presto d’accordo con il tuo avversario mentre sei per via con lui, perché l’avversario non ti consegni al giudice e il giudice alla guardia e tu venga gettato in prigione. 26. In verità ti dico: non uscirai di là finché tu non abbia pagato fino all’ultimo spicciolo!” (Matteo, 5,21,37).

12 Letteralmente, “il mezzo è la cosa migliore”, la locuzione è presente anche nelle Satire di Orazio (“est modus in rebus“; trad.: c’è una misura nelle cose), nelle Metamorfosi di Ovidio (“medio tutissimus ibis“; trad.: seguendo la via di mezzo, camminerai sicurissimo) e presso i filosofi scolastici medievali (“In medio stat virtus”).

Marengoni Andrea

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