Responsabilità da illecito antitrust e funzione deterrente

Chiara Galano 22/03/21
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L’illecito antitrust si identifica con quei comportamenti che violando le regole poste a tutela della concorrenza determinano una distorsione della stessa, compromettendo così il buon funzionamento del Mercato unico. Tali fattispecie lesive di concorrenza sono state modellate dal legislatore nazionale sulle corrispondenti disposizioni comunitarie di cui agli articoli 101 e 102 del Trattato sul Funzionamento dell’Unione europea (TFUE).

Un efficace sistema repressivo deve avvalersi, oltre che di una tutela di public enforcement, anche di una tutela di private enforcement.

I due sistemi operano su due livelli distinti.  Infatti, nel primo caso le Autorità nazionali garanti della concorrenza, imponendo sanzioni alle imprese autrici delle violazioni, rispondono ad un’esigenza di deterrenza e agiscono esclusivamente per tutelare l’interesse pubblico alla salvaguardia di un mercato concorrenziale . Dunque, tali  strumenti pur avendo detenuto un primato indiscusso per lungo tempo, sono risultati incapaci, da soli, a consentire un’adeguata ed onnicomprensiva tutela a tutte le situazioni che l’illecito antitrust va a compromettere.

La lesione dell’illecito concorrenziale, infatti, non segue una logica d’attuazione bilaterale come un normale illecito. Infatti, se un’impresa che opera ad un livello iniziale o intermedio della catena di valore o che abbia una posizione dominante dovesse agire in violazione dell’articolo 102 TFUE, ad esempio, con l’imposizione di prezzi eccessivi,  la distorsione inevitabilmente si riverserebbe sull’intera catena distributiva, ripercuotendosi finanche sul consumatore finale che si troverebbe a dover pagare un sovrapprezzo rispetto a quanto avrebbe pagato se la violazione non fosse stata posta in essere [1].

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Risulta evidente, pertanto come l’illecito antitrust sia caratterizzato piuttosto da una vis plurioffensiva.

Ne consegue che gli effetti di una tale condotta, propagandosi secondo uno schema di reazione a catena, generano danni a raggiera.

Con la tutela privatistica, soprattutto con l’azione di risarcimento dei danni causati a seguito di una violazione del diritto antitrust, il giudice ordinario ha, quindi, la possibilità di pronunciarsi su i singoli ricorsi di parte prestando una maggiore attenzione al pregiudizio subito da tutti i soggetti lesi, a garanzia di un interesse privato.

Tuttavia, il ricorso effettivo ad azioni di questo tipo ha tardato a svilupparsi.

Le attività illecite, infatti, di regola si svolgono all’estero, in maniera clandestina e

con una documentazione ridotta al minimo e dunque non sono di facile comprovazione.  Risultava, pertanto, particolarmente complicato per l’attore raccogliere elementi probatori a sostegno della propria pretesa, per il giudice qualificare con certezza tali condotte come lesive e quindi, quantificare  poi, in sede di liquidazione, il danno subito.

Una tale difficoltà si avvertiva soprattutto nei settori caratterizzati da transazioni di basso valore che il consumatore finale formalizza quotidianamente talvolta senza conservare adeguatamente un supporto documentale come nei servizi di trasporto locale o rispetto ai prodotti alimentari di consumo.

Per tali ragioni si è manifestata necessità di rafforzare questo strumento di tipo privatistico.

con la direttiva n. 2014/104/UE, detta anche direttva enforcement.

Il legislatore comunitario offrendo un quadro normativo armonizzato per tale tipologia di azioni, è intervenuto proprio al fine di limare queste problematiche.

Tra le varie novità, con la nuova disciplina sul private enforcement si è previsto che chiunque abbia subito un danno causato da una violazione del diritto della concorrenza deve poter chiedere ed ottenere il pieno risarcimento di tale danno (art. 3 della direttiva enforcement). Il risarcimento sarà, appunto, pieno quando comprende il danno emergente ossia tutte le spese che il soggetto danneggiato ha dovuto sostenere per far fronte agli effetti pregiudizievoli della condotta illecita, il lucro cessante, che in questo caso indica il mancato guadagno dell’impresa danneggiata dai comportamenti anticoncorrenziali e il pagamento degli interessi.

L’obiettivo di tale azione risarcitoria risponde così alla classica funzione  del risarcimento ossia quella riparatoria, che mira ad eliminare le conseguenze derivanti dal fatto illecito e a riportare il danneggiato nella stessa nella situazione in cui si sarebbe trovato in assenza delle violazioni.

La prospettiva è quella vittimologica, si presta attenzione alla conseguenza, agli effetti che il fatto illecito ha generato nella sfera giuridica del danneggiato.

Dalla lettura del disposto dell’articolo 1223 del codice civile, si evince come il principio di indifferenza, ossia quel principio secondo cui il danneggiato per effetto del risarcimento deve risultare indifferente rispetto al fatto illecito dannoso, risulti la base giuridica ai fini di tale tipo di risarcimento.

Il risarcimento deve consentire al danneggiato di venir fuori dalla vicenda illecita né arricchito né impoverito.

Il danneggiato esce impoverito dalla vicenda illecita quando la somma ottenuta a titolo di risarcimento è inferiore al danno inteso come conseguenza dell’illecito, ne esce arricchito, al contrario, quando la somma di risarcimento è superiore al danno conseguenza.

In quest’ultimo caso si verifica un fenomeno che si definisce di overcompensation, secondo il quale il danneggiato non è riparato, piuttosto, ricevendo a titolo di risarcimento da fatto illecito una somma superiore rispetto all’entità del danno conseguenza subito, ne risulta  arricchito.

A prima facie, dunque, la funzione risarcitoria della responsabilità sembra incompatibile con la funzione sanzionatoria.

La funzione del risarcimento non è punire il fatto illecito, bensì è quella di compensare, riparare, lasciare il danneggiato “indifferente” rispetto all’illecito.

Il co. 2 dell’articolo 1, d.lgs. n. 3/17[2], in materia antitrust mostra un rinvio espresso alla classica funzione riparatoria della responsabilità aquiliana. Dalla lettura del comma 3 ̊ , infatti, il legislatore pare escludere, sulla linea civilistica, qualsiasi intento punitivo o anche solo ispirato a logiche di deterrenza[3] del risarcimento.

Dunque, nella responsabilità da illecito antitrust, non devono essere previste regole di quantificazione che prevedano danni punitivi, stabilendo al massimo pene private a carico solo dell’autore dell’illecito.

Tuttavia, si erge un punto di criticità: quando il risarcimento è uguale al danno conseguenza, secondo lo schema generale del 1223 c.c, il costo del fatto illecito è stesso la somma ottenuta a titolo del risarcimento del danno, quindi, la misura dell’obbligazione risarcitoria è determinata dall’entità del fatto che lo produce.

In termini di analisi economica del diritto, il rischio è che si crei un incentivo a commettere il fatto illecito. Paradossalmente, quindi, potrebbe convenire porre in essere il fatto illecito nonostante il rischio di subire un’azione risarcitoria.

Soprattutto negli illeciti antitrust,  particolarmente redditizi per chi pone in essere la violazione, le sanzioni pubblicistiche e la somma dovuta a titolo di risarcimento si presentano, tal volta, troppo modesti rispetto ai benefici e ai vantaggi che derivano, invece, dalla condotta illecita.

Per tali ragioni si pone la necessità di prevenire tout court il verificarsi di tali condotte, l’imprenditore deve trovarsi ad essere nella condizione in cui reputi sconveniente ex ante porre in essere questi comportamenti.

Ed è proprio in tal senso che si pone la necessità di potenziare una funzione deterrente del risarcimento, possibile solo consentendo una overcompensation e il riconoscimento dei danni punitivi.

La compatibilità dei danni punitivi nell’ordinamento giuridico italiano

I “punitive damages” si affermano nel sistema anglosassone, al fine di riconoscere al danneggiato la possibilità di ottenere una condanna il cui ammontare non corrisponde alla mera perdita patrimoniale de quest’ultimo subita, piuttosto, è caratterizzata da una valenza ulteriore, punitiva, appunto, che si basa sul grado di riprovevolezza della condotta lesiva.

Tale istituto è previsto proprio per punire in maniera esemplare una condotta dolosa arrecante un grave danno sociale[4].

Dunque, in tal senso, danni punitivi assolvono ad una funzione deterrente pro futuro [5] poiché attraverso di essi si esplica quella che nell’ordinamento italiano è una funzione di deterrenza general preventiva. La previsione di una sanzione così elevata dovrebbe scoraggiare gli autori dal porre in essere  condotte illecite.

Sebbene questi tipi di risarcimento siano molto utilizzati dalla giurisprudenza anglosassone, anche e soprattutto in materia antitrust, in Italia invece, almeno inizialmente si mostrava molta diffidenza circa l’applicabilità degli stessi.

Con la sentenza del 19 gennaio 2007, n. 1183, infatti le Sezioni Unite negavano l’exequatur di pronunce provenienti dal Common law aventi una valenza sanzionatoria di questo tipo, per contrarietà all’ordine pubblico.

Tale diffidenza nei confronti dei danni punitivi è innanzitutto da ravvisarsi nella netta distinzione tra responsabilità civile e penale segnatamente individuate nell’ordinamento giuridico italiano. Tale separazione ha indotto le Corti a discostarsi da figure di danno che assumono carattere punitivo-sanzionatorio, quale, invece, considerato tratto tipico ed esclusivo del diritto penale. Pertanto, la punizione sarebbe esclusiva prerogativa del legislatore penale, unico legittimo detentore della potestà sanzionatorie ex art. 25 Cost[6].

Il risarcimento, al contrario, stando alla regola generale, assolverebbe esclusivamente ad una funzione compensativa.  Diversamente, infatti, la funzione punitiva risulterebbe non solo in rotta innanzitutto con il principio di certezza del diritto, in quanto il danneggiante non sarebbe posto a priori nella condizione di prevedere il quantum dovuto a titolo di risarcimento ma anche con il principio di legalità.

Infatti, se la funzione della responsabilità fosse quella di sanzionare, la misura del risarcimento prescinderebbe dal danno conseguenza, contrariamente a quanto disposto dall’articolo 1223 c.c.

Tale norma, inoltre, deve essere altresì letta ed interpretata alla luce dell’articolo 23 della costituzione in cui si prevede che nessuna prestazione personale o patrimoniale può essere imposta se non in base alla legge, principio di legalità.

Ne consegue che l’obbligazione risarcitoria, quale obbligazione imposta, per poter avere una funzione sanzionatoria/deterrente ha bisogno di una base legale, fondamento che al momento, almeno in materia antitrust, manca.

Tuttavia, il fatto che il risarcimento ripari il danno non esclude che lo stesso possa anche sanzionare l’illecito. Nei limiti in cui il risarcimento è in grado di riparare il danno, infatti, è anche in grado di  sanzionare l’illecito.

Sembra, quindi, chiaro che la funzione risarcitoria della responsabilità non è ontologicamente e diametralmente incompatibile con la funzione sanzionatoria, la finalità di riparazione del danno non è incompatibile con una finalità di sanzione dell’illecito.

Ciò che sembra essere incompatibile, è una sanzione dell’illecito commisurata in misura superiore alla riparazione del danno.

Tuttavia, con la sentenza 15/04/2015, n. 7613, la Suprema Corte, riconoscendo la presenza di strumenti aventi funzione deterrente e sanzionatoria nel sistema civilistico, inizia ad  attribuire, così, all’azione risarcitoria anche funzioni diverse da quella compensativa.

È poi con la decisione delle Sezioni Unite del 5/07/2017, n. 16601 che la Corte riconosce esplicitamente la compatibilità dei punitive damages con l’ordine pubblico.

Secondo la Suprema Corte la responsabilità civile può assumere una funzione punitiva, ma solo ed esclusivamente in casi espressamente previsti dalla legge, rispettando il principio di legalità, l’articolo 23 della Costituzione, nonché l’articolo 7 della CEDU e l’articolo 49 della Carta dei Diritti Fondamentali dell’Unione.

Alla stregua di quanto pronunciato dalla Corte, risulta inopportuno attribuire funzione punitiva al solo diritto penale, nella misura in cui i risarcimenti punitivi in tal senso possono essere utili a rafforzare le norme di condotta il cui rispetto risulta essenziale per una realizzazione efficace delle tutele civilistiche.

Il principio enunciato nella pronuncia della Cassazione trova conferma nel fatto che sono insite all’ordinamento giuridico italiano norme che consentono di sanzionare l’illecito a prescindere dalla riparazione del danno.

Ex multis : l’articolo 125, del codice della proprietà industriale.

Ai sensi del comma 1 dello stesso articolo, il risarcimento dovuto al danneggiato è liquidato secondo le disposizioni degli articoli 1223, 1226, 1227 c.c., fin qui, l’articolo 125 non aggiunge nulla rispetto alla regola generale.

L’articolo, però, prosegue e cambia prospettiva, prende in considerazione il guadagno, il profitto, il vantaggio, il beneficio riportato dal danneggiante, non segue più una visione esclusivamente vittimologica, piuttosto mira ad analizzare le conseguenze della condotta lesiva anche alla sfera del danneggiante.

Infine, il terzo comma del 125 prevede finanche che il danneggiato possa chiedere la restituzione degli utili realizzati dall’autore della violazione.

È evidente che in questo caso la norma non si limita a compensare il danno, piuttosto, la stessa, in termini di  analisi economica del diritto, sembra assolvere allo scopo di disincentivare l’illecito, permettendo un effetto finale di overcompensation.

È una deroga espressa e normativa al principio di indifferenza.

Le Sezioni Unite[7], inoltre, riscontrano all’interno dell’ordinamento un’ulteriore ipotesi qualificata di tale funzione nella previsione dell’articolo 709 ter, co. 2, c.p.c. La norma riconosce a favore del genitore e del figlio il risarcimento provocato dalle gravi inadempienze poste in essere dall’altro genitore. Il risarcimento in tal senso assume carattere punitivo, poiché la valutazione del suo ammontare include tutti i pregiudizi che derivano dalle violazioni degli obblighi relativi ad un corretto svolgimento delle modalità di esecuzione dell’affidamento condiviso[8].

Si può solidamente argomentare che lo stesso illecito aquiliano ha in sé elementi di deterrenza e di sanzione. Il carattere afflittivo, infatti, poggia sul disposto dell’articolo 2043 c.c., che già di per sé esplica una valenza sanzionatoria e preventiva.

Inoltre, dalla lettura degli articoli 1226, 2056 e 2059 c.c. si evince che in fase di liquidazione del danno, per  ripristinare quanto più possibile la situazione in cui si trovava il danneggiato prima di aver subito il pregiudizio, viene data rilevanza anche ad elementi diversi dalla semplice perdita patrimoniale come ad esempio la colpevolezza dell’agente, l’eventuale profitto ingiustamente conseguito e altre circostanze del caso concreto.

Una previsione di risarcimento così intesa, quindi, non assolve solo ad una funzione compensativa, ma  finisce inevitabilmente per esplicare un effetto deterrente.

Nonostante la presenza della pronuncia n. 16601 del 2017 delle Sezioni Unite, il dibattito sulla compatibilità dei punitive damages con l’ordinamento italiano non giunge ad un’univoca risoluzione. Parte della dottrina ancora obietta l’accostamento dei danni punitivi alla sanzione civile[9].

Nell’ambito dell’azione risarcitoria da illecito antitrust, come già spiegato, il danno deve essere riparato in modo da ottenere una full compensation ma evitando una overcompensation, manca quindi una fonte qualificata tale da poter superare quanto disposto dalla direttiva enforcement e dal decreto di recepimento.

Scelta legislativa che tra l’altro,  sembra contrastare le decisioni assunte della stessa Corte di Giustizia degli anni precedenti che più volte legittimano, al contrario, la richiesta di risarcimento dinanzi ai tribunali nazionali da parte di chiunque avesse subito un danno a seguito di una pratica contraria alla normativa antitrust comunitaria, riconoscendo, al contempo, il danno esemplare o punitivo nell’ambito di azioni analoghe fondate sul diritto interno, fermo restando l’obbligo del giudice di vigilare affinché non si producano arricchimenti ingiustificati[10].

Come accuratamente già spiegato, un riconoscimento espresso servirebbe a potenziare la funzione deterrente del risarcimento, riuscendo a rendere ancor di più efficienti questo tipo di azioni.

La class action nella direttiva enforcement

Lo scarso potenziamento della funzione deterrente del risarcimento da antitrust si evince anche in riferimento ad una mancata previsione di una disciplina della class action nella direttiva enforcement[11].

Il legislatore nazionale in sede di recepimento si è limitato, infatti, a richiamare l’applicazione in tale ambito dell’articolo 140 bis del Codice del Consumo.

Tuttavia, un tale generico richiamo non risulta esaustivo in quanto l’azione di classe, così come definita dal Codice del Consumo, è riservata esclusivamente ai soli consumatori. Diversamente, come noto, l’illecito anticoncorrenziale si estrinseca in una condotta idonea a recare danni a raggiera, non solo ai consumatori ma anche ad altri imprenditori[12].

Il co. 1 dell’art. 1 del d.lgs. 3/2017, infatti, sancisce che chiunque abbia subito un danno, a prescindere dal fatto che si tratti imprenditore o consumatore, possa chiederne il risarcimento.

L’utilità pratica della class action, soprattutto in ambito antitrust è innegabile: risulta, infatti, essere uno strumento  ad hoc per agevolare l’espletamento di azioni risarcitorie in presenza di queste condotte illecite anticoncorrenziali e plurioffensive[13].

Essa, infatti, si configura come uno strumento che consente di riequilibrare i rapporti di forza tra i partecipanti al mercato.  Esperendo l’azione di classe, si riesce a garantire l’accesso alla giustizia a tutti i soggetti lesi dalla pratica anticoncorrenziale che, diversamente, rimarrebbero insoddisfatti.

Un siffatto meccanismo, inoltre, produrrebbe il tanto evocato effetto preventivo e deterrente nei confronti delle imprese, le quali sarebbero disincentivate dal porre in essere condotte illecite.

Il legislatore nazionale, consapevole di un tale vantaggio, con la legge n. 31 del 2019, ha completamente rivoluzionato la disciplina dell’azione di classe italiana.

Innanzitutto, si amplia la fruibilità dell’azione in questione a chiunque avanzi richieste di risarcimento per lesioni di tutti i “diritti individuali omogenei”[14], indipendentemente dalla qualifica di consumatore o meno.

Inoltre, si permette una maggiore tutela di tutte quelle fattispecie in cui il singolo illecito comporti effetti pregiudizievoli per una pluralità di soggetti, oppure di tutti quei casi in cui una pluralità di condotte illecite determinino conseguenze dannose in capo a una pluralità di soggetti, proprio come accade in caso di illeciti antitrust.

Si estende, pertanto, l’applicazione sia dei presupposti oggettivi che di quelli soggettivi dell’azione, con il vantaggio di rendere lo strumento maggiormente utilizzabile, e i rimedi risarcitori da illecito antitrust più esperibili[15].

Sebbene alcuni contrasti siano stati in parte sanati dalla riforma del 2019, la class action continua ad avere un’applicazione residuale in materia di risarcimento del danno da antitrust, questo perché ci sono aspetti che ancora necessitano dell’opera interpretativa della giurisprudenza.

Si discute, ad esempio, se l’applicazione delle norme del decreto enforcement che attribuiscono strumenti probatori alle sole parti processuali possa valere anche nei confronti soggetti aderenti ad una class action che, invece, per unanime giurisprudenza, non acquisiscono mai la qualifica di parte processuale.

Per ovviare alla mancanza della previsione di una class action a livello europeo, è stato presentato un progetto di direttiva, approvato dal Parlamento ma non ancora del Consiglio dell’Unione, volto a prevedere strumenti armonizzati di tutela per i consumatori.

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Note

[1] Cassazione Civile, SS.UU., 4 febbraio 2005, n. 2207.

[2] Decreto di attuazione della direttiva UE 104/2014.

[3] Sul punto si veda E. CAMILLERI, Il risarcimento per violazioni del diritto della concorrenza: ambito di applicazione e valutazione del danno, in La nuova disciplina del risarcimento dei danni per violazione della normativa antitrust: profili sostanziali (Parte I), Le Nuove leggi civili commentate, Vol.41, Fasc. 1, 2018, pp. 143ss.

[4] Per il tema qui trattato si rinvia ad A. MONTANARI, Del risarcimento punitivo, ovvero dell’ossimoro, in Europa e Diritto Privato, Fascicolo 2, 2019, p. 384; A. RICCIARDI,  Le Sezioni Unite aprono la porta ai punitive damages , in Giurisprudenza Commerciale, Fasc. 5, 2019, pp. 1074-1093; per la definizione di danni punitivi, M. FRATINI, Manuale di diritto civile, edizione 2020-2021, Accademia del diritto, Roma, 2020, p. 2057.

[5] Così A. RICCIARDI, op. cit., pag. 1077.

[6] IBIDEM pag. 1080.

[7] Cassazione Civile, SS.UU., 5 luglio 2017, n. 16601.

[8] Così in A. RICCIARDI op. cit. pag. 1086 et al.; in A. MONTANARI, op. cit., pp.410-412 in realtà viene finanche criticato un tale assunto della Corte, in quanto si ritiene che l’articolo 709 ter c.p.c. sia conforme al principio di solidarietà su cui si fonda la famiglia nell’ordinamento giuridico italiano; pertanto la sanzione in parola costituisce semplicemente l’indice del valore sociale degli obblighi familiari, tutelando così, più che interessi privati, l’interesse pubblico.

[9] IBIDEM, pp. 414 ss.

[10] In tal senso C. Giust. CE, Courage Ltd vs. B. Crehan, cit., punto 30. Cit: “non comporti un arricchimento senza giusta causa degli aventi diritto”.

[11] Per la questione qui trattata si fa riferimento a P. FATTORI – M. TODINO, op. cit., pp.476-481.; C. BIASIOR, Private antitrust enforcement: la prospettiva del mercato. La nuova azione di classe, pp.145ss., in (a cura di) G.A. BENACCHIO – M. CARPAGNANO, Il private antitrust enforcement in Italia e nell’unione europea: scenari applicative le prospettive del mercato, “Atti del VII convegno antitrust di Trento”, in Quaderni della Facoltà di Giurisprudenza, Editoriale Scientifica, Trento, 2019.

[12] M.S. SPOLIDORO – F.F. SPOLIDORO, Profitto illecito e risarcimento del danno antitrust, in Analisi Giuridica dell’Economia, Fasc. 2, 2017, pp. 425– 426.

[13] P. FATTORI – M. TODINO, op. cit., p. 480.

[14] Siffatta omogeneità è  da individuarsi nella mera dipendenza di ciascun diritto individuale dalla medesima condotta illecita. In tal senso A. GIUSSANI, La riforma dell’azione di classe, in Riv. dir. proc., 2019, pp.1573 ss.

[15]In tal senso C. BIASIOR, op cit., pp.145 ss.

Chiara Galano

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