Responsabilità civile: riparto dell’onere della prova

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Responsabilità civile – Focus sul regime probatorio in tema di responsabilità medica

Indice

1. La responsabilità civile

Nell’ambito della responsabilità civile si suole tradizionalmente distinguere una duplicità di ipotesi, l’una di natura contrattuale conseguente all’inadempimento di un’obbligazione precedentemente assunta, l’altra extracontrattuale, definita altresì aquiliana, scaturente dalla violazione del generale principio del neminem laedere.
Si tratta di una distinzione che affonda le sue radici nel diritto romano, laddove il discrimen tra tali forme di responsabilità risultava agevole essendo i confini ben delineati e incentrati unicamente sulla sussistenza o meno di un vincolo contrattuale: era dunque configurabile una responsabilità contrattuale nel caso in cui il debitore avesse realizzato un comportamento inadempiente di un obbligo di prestazione derivante dalla precedente stipulazione contrattuale; al contrario, ricorrevano gli estremi della responsabilità aquiliana nell’ipotesi di illecito di matrice penalistica.
Tale tradizionale distinzione, recepita nel Codice civile del ’42, trova i suoi paradigmatici referenti normativi nell’art. 1218 c.c. per quanto attiene la responsabilità contrattuale da inadempimento, e nell’art. 2043 c.c. per quanto riguarda invece la responsabilità aquiliana da fatto illecito.

2. Responsabilità contrattuale

Quanto alla specifica disciplina normativa, nell’ambito della responsabilità ex art. 1218 c.c. viene in rilievo il concetto di inadempimento che si configura tutte le volte in cui il debitore non esegue esattamente la prestazione dovuta.
Affinché il debitore non incorra in responsabilità, l’adempimento deve quindi essere esatto, id est il comportamento assunto dall’obbligato deve corrispondere a quello dedotto nel rapporto giuridico, sia dal punto di vista oggettivo che soggettivo.
Sotto il primo profilo, la prestazione deve avere il medesimo contenuto di quella pattuita e svolgersi secondo le modalità di esecuzione che consentono la realizzazione dell’interesse del creditore.
Quanto al secondo aspetto, l’esecuzione della prestazione deve avvenire nelle mani di un soggetto legittimato a riceverla.
Per la valutazione della corrispondenza tra la prestazione eseguita e quella dovuta si suol far riferimento al generale criterio contenuto all’art. 1176 c.c., in base al quale, nell’adempiere l’obbligazione, il debitore deve usare la diligenza del buon padre di famiglia. Tale diligenza va dunque intesa come osservanza delle regole comportamentali anche extragiuridiche necessarie per la corretta esecuzione dell’attività in cui si sostanzia la prestazione: al debitore non si richiede eccezionale sforzo nell’adempimento ma solo un livello medio di diligenza, che tuttavia risulti adeguato alla realizzazione dell’interesse creditorio.
La diligenza del buon padre di famiglia non costituisce quindi, unicamente un criterio generale di determinazione delle modalità di esecuzione della prestazione ma rileva altresì come indice di valutazione della correttezza del comportamento del debitore ai fini della formazione di un giudizio di responsabilità ex art. 1218 c.c.
Dal combinato disposto degli artt. 1176, 1223 e 1256 c.c. è possibile desumere gli elementi costitutivi della responsabilità da inadempimento e segnatamente: il titolo, id est la fonte del diritto e del rapporto contrattuale; l’inadempimento oggettivo, cioè la obiettiva mancanza della prestazione, a fronte della attualità ed esigibilità della stessa; il danno subito per effetto della lesione del credito; il nesso causale che collega l’inadempimento al danno stesso; ed infine la colpa, quale criterio di imputazione soggettiva, presunta dal legislatore e superabile solo con la prova contraria.

3. Responsabilità aquiliana

All’interno dell’ordinamento giuridico accanto a questa particolare ipotesi di responsabilità civile che mira a tutelare un interesse specifico scaturente da un preesistente rapporto giuridico intercorrente tra soggetti predeterminati, esistono situazioni giuridiche tutelate in sé che non si risolvono in una pretesa verso un soggetto determinato, come avviene ad esempio per i crediti, in quanto l’interesse che è tutelato non è soddisfatto mediante una prestazione da parte di altri.
In tali casi, infatti, l’interesse del titolare è soddisfatto dal semplice fatto che la persona possa continuare a godere della situazione, quale che sia la sua consistenza in termini positivi o negativi.
Queste situazioni giuridiche godono dunque di una tutela erga omnes, nel senso che i consociati hanno il dovere di astenersi dal lederle in modo da consentirne il pacifico godimento. La violazione di una di queste situazioni costituisce un fatto illecito, in conseguenza della quale, se scaturisce un pregiudizio per il titolare dell’interesse protetto, l’autore del fatto è obbligato a risarcire il danno causato.
Questo è il significato della prescrizione di cui all’art. 2043 c.c., secondo la quale “qualunque fatto doloso o colposo che cagiona ad altri un danno ingiusto, obbliga colui che ha commesso il fatto a risarcire il danno”.
Affinché possa configurarsi la responsabilità aquiliana è necessario che ricorrano determinati elementi costitutivi, individuabili nell’esistenza materiale di un fatto illecito; nella riferibilità del suddetto fatto al soggetto agente, a titolo di dolo o colpa; nella determinazione, nella sfera giuridico-patrimoniale personale, di un danno ingiusto; ed infine nella sussistenza del nesso di causalità tra il fatto illecito e il danno subito.
Nella struttura sintattica dell’art. 2043 c.c., il danno ingiusto costituisce al tempo stesso il presupposto e l’oggetto della tutela accordata dall’ordinamento al soggetto leso dall’altrui comportamento illecito da cui origina l’obbligo risarcitorio.
Secondo la teoria classica, che ha peraltro trovato avallo nella più recente giurisprudenza di legittimità, l’oggetto della tutela risarcitoria consiste esclusivamente nel danno, patrimoniale o non patrimoniale, che sia conseguenza diretta e immediata del comportamento illecito, e non deve essere confuso o appiattito sul cd. danno-evento, cioè sulla manifestazione del pregiudizio in sé considerato a prescindere dalle conseguenze effettivamente accertabili.
Ai fini risarcitori, è necessario che il danno sia ingiusto, non essendo sufficiente il mero verificarsi di una qualunque conseguenza dannosa del comportamento altrui. L’ingiustizia si riferisce non al fatto bensì al suo autore e deve essere generata da un comportamento colpevole, per tale sanzionabile.
È altresì necessario verificare la sussistenza di un nesso causale tra la condotta posta in essere ed il danno conseguente. Tale accertamento ha animato a lungo il dibattito dottrinale e giurisprudenziale, in considerazione dell’assenza di una puntuale disciplina in merito all’interno delle disposizioni codicistiche.
Proprio sulla base del silenzio del codice del ’42, ci si è chiesti se l’accertamento del nesso di causalità civile segua i medesimi criteri elaborati in tema di causalità penale oppure se sia sottoposta a regole autonome, in virtù della diversità degli scopi e della funzione dell’illecito civile. In particolare, negli ultimi anni, il dibattito si è incentrato sulla estensibilità in sede civile, dei rigorosi principi espressi in tema di “causalità omissiva” nella nota sentenza delle Sezioni Unite sul caso Franzese.
La querelle sembra aver trovato risposta affermativa nel ritenere applicabile la cd. causalità adeguata sulla base della miglior scienza possibile, alla stregua del diritto penale. Tuttavia, riconoscendo le profonde differenze funzionali, contenutistiche e disciplinatorie dei due sistemi di responsabilità, è stato precisato che a differenziare i due ambiti è il grado di probabilità richiesto: nell’ambito della responsabilità penale, si richiede un alto grado di probabilità, che rasenta la certezza; tale rigore non si considera invece necessario ai fini della sussistenza di una responsabilità in ambito civile, essendo sufficiente seguire la regola del “più probabile che non”.

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4. Responsabilità oggettiva

Analizzati in tali termini i tratti essenziali delle due ipotesi di responsabilità civile, è evidente che in entrambi i casi viene in esame una condotta dolosa o colposa dell’agente, dalla quale, nel caso di responsabilità aquiliana, deriva un danno ingiusto arrecato al danneggiato, ovvero, nel caso di responsabilità per inadempimento, una lesione dell’assetto predeterminato dalla volontà delle parti.
Una lettura più attenta della norma di cui all’art. 2043 c.c. evidenzia come la stessa non pone espressamente l’accento sul comportamento dell’attore, bensì sul fatto doloso o colposo che è fonte della responsabilità, manifestando la volontà del legislatore di non riferire la responsabilità aquiliana ai soli “atti”, ossia comportamenti dolosi o colposi, bensì anche ad altre fattispecie nell’ambito delle quali ben difficilmente potrebbe parlarsi di colpevolezza in senso stretto.
È noto infatti, che accanto alla clausola generale di risarcibilità del danno ingiusto, e quindi accanto all’ipotesi di cui all’art. 2043 c.c., esistano ipotesi singole di responsabilità e segnatamente agli artt. 2047 cc. e ss., che vengono variamente ricondotte all’ipotesi di responsabilità oggettiva, la quale si connota per il fatto che vengono adottati criteri di imputazione soggettiva diversi dalla colpa.
Esistono infatti casi di responsabilità senza colpa, in cui si prescinde totalmente dalla diligentia dell’autore e dunque dalla condotta del soggetto responsabile. In tali ipotesi il nesso causale assurge a unico criterio di imputazione soggettiva della responsabilità; a tal proposito si parla infatti di responsabilità a causalità anomala o tipica in quanto presuppone specifiche concatenazioni causali designate ad hoc dal legislatore per specifiche e singole fattispecie.
Può farsi ad esempio riferimento all’ipotesi prevista all’art. 2050 c.c., dove viene in considerazione l’esercizio di attività pericolose, fonte di responsabilità presunta a meno che l’esercente non dimostri di aver adottato tutte le misure idonee ad evitare il danno; oppure l’art. 2051 c.c., in cui il legislatore presume, nell’ipotesi di danno cagionato da cose, la responsabilità del soggetto che ne assume la custodia, salvo che questi provi il caso fortuito.

5. Riparto dell’onere probatorio

Notevoli differenze tra i due regimi di responsabilità civile si rinvengono nel riparto dell’onere probatorio che, in giudizio, incombe in capo alle parti.
Per ciò che concerne la responsabilità contrattuale, occorre necessariamente operare una lettura congiunta delle regole di cui all’art. 2697 c.c. e l’art. 1218 c.c., il quale prevede per il debitore inadempiente l’onere di provare, al fine di escludere la propria responsabilità, che l’inadempimento sia stato determinato da un’impossibilità della prestazione dovuta ad una causa a lui non imputabile.
Gli oneri probatori a carico dell’attore risultano certamente semplificati in quanto, innanzitutto, non sussiste il problema di individuazione del responsabile, che per definizione è il debitore, né del fatto ingiusto, che, sempre per definizione, è l’inadempimento o l’inesatto inadempimento. Inoltre, con un’inversione dell’onere della prova al creditore basterà provare il titolo del credito e allegare l’inadempimento, provare di aver subito un danno e il nesso di causalità giuridica che lega l’inadempimento alle conseguenze negative che ne sono derivate, ai sensi dell’art. 1223 c.c. e che rileva ai fini della delimitazione del danno risarcibile. Il creditore dunque non è tenuto a provare l’inadempimento, né il cd. danno-evento, in quanto la lesione dell’interesse creditorio coincide con l’inadempimento stesso, e neanche l’elemento soggettivo del debitore. Tali circostanze, infatti, devono essere semplicemente allegate dal creditore senza necessità di prova specifica.
Tale regime probatorio ha peraltro trovato la propria consacrazione nella Sentenza delle Sezioni Unite n. 13533 del 2001, la quale ha risolto un contrasto giurisprudenziale precedente, affermando il principio della unicità della regola probatoria applicabile all’inadempimento. In particolare la Suprema Corte ha fondato la sua decisione sul riconoscimento di due principi, e cioè il principio della presunzione di perduranza del diritto, in base al quale ogni diritto deve presumersi esistente se non è intervenuta la sua causa di estinzione; ed il principio di vicinanza della prova, necessario in quanto altrimenti il creditore sarebbe gravato dalla prova della mancata esecuzione della prestazione, trovandosi dunque a fornire la prova, assai gravosa, di un fatto negativo. Infatti, essendo ammessa nel nostro ordinamento la possibilità di provare i fatti negativi con i fatti positivi contrari, risulta certamente più agevole per il debitore dimostrare l’avvenuto adempimento ovvero l’impossibilità, a lui non imputabile, di eseguire la prestazione.
L’onere della prova nell’ambito della responsabilità aquiliana si articola in modo diverso. La ripartizione dell’onere della prova risulta essere molto meno favorevole per colui che agisce in giudizio lamentando un danno derivante da fatto illecito altrui.
Infatti, spetterà al danneggiato fornire la prova relativa a tutti gli elementi costitutivi del fatto illecito: dovrà dunque provare di aver sofferto la lesione di un proprio interesse meritevole di tutela giuridica; il nesso di causalità materiale tra la condotta del danneggiante e il danno-evento, di aver subito un danno, ossia delle conseguenze pregiudizievoli al suo patrimonio o alla sua persona che devono essere, ai sensi dell’art. 1223 c.c. dirette ed immediate; il nesso di causalità giuridica tra il danno-evento e il danno-conseguenza; infine dovrà fornire la prova dell’elemento soggettivo del danneggiante, ossia la sussistenza del dolo o della colpa.
Ulteriore profilo differenziale tra la responsabilità per inadempimento e la responsabilità aquiliana risiede nella previsione di cui all’art. 2056 c.c., che richiama per la valutazione dei danni aquiliani, i soli artt. 1223 c.c., e dunque la risarcibilità del “danno emergente” e del “lucro cessante”; art. 1226 c.c. per ciò che riguarda la valutazione equitativa; e art. 1227 c.c., in tema di concorso colposo e conseguente esclusione del risarcimento dei danni che il creditore avrebbe evitato con l’ordinaria diligenza. Non vi è invece un richiamo all’art. 1225 c.c., che esclude per la responsabilità da inadempimento il risarcimento dei cd. “danni imprevedibili” al momento in cui è sorta l’obbligazione, a meno che non sussista il dolo del debitore. In altre parole, l’inadempimento contrattuale colposo, a differenza dell’illecito extracontrattuale, non è fonte di responsabilità dei danni imprevedibili.

6. Responsabilità medica e regime probatorio

È certamente pacifico che ricorre la colpa medica in tutte le ipotesi di involontaria inosservanza o violazione da parte del sanitario delle specifiche regole cautelari di condotta proprie dell’agente modello del settore specialistico di riferimento.
La colpa medica sarà definita omissiva tutte le volte in cui l’errore medico si sostanzi nell’omissione delle cautele prescritte dalle speciali regole di condotta; commissiva, quando la violazione delle suddette regole si sostanzi in una condotta attiva.
Piuttosto dibattuta è stata invece, per anni, la individuazione della natura della responsabilità medica, stante il peculiare rapporto che veniva a crearsi tra medico, paziente e struttura sanitaria.
A seguito dell’entrata in vigore della l. 24/2017 Gelli-Bianco, è stato introdotto il cd. sistema del “doppio binario” di responsabilità che impone di scindere la responsabilità gravante sulla struttura sanitaria da quella di cui è chiamato a rispondere il singolo medico che, in concreto, ha posto in essere la condotta pregiudizievole per il paziente.
Quanto alla prima ipotesi di responsabilità è ormai pacifico in dottrina e giurisprudenza che si tratti di responsabilità contrattuale, sul rilievo che l’accettazione del paziente in ospedale o altra struttura, ai fini del ricovero o di una visita ambulatoriale, comporta la conclusione del contratto definito di “spedalità”.
La Suprema Corte, pronunciandosi nel 2017 con la sent. n. 2584, ha specificato che la prestazione d’opera cui è tenuta la struttura sanitaria nell’ambito del citato contratto atipico di “spedalità”, è una prestazione complessa che ovviamente non si esaurisce nella effettuazione delle cure mediche ma si estende ad una serie di prestazioni collaterali, quali, ad esempio, l’organizzazione del personale medico ausiliario e personale paramedico, la messa a disposizione di medicinali e di tutte le attrezzature tecniche necessarie.
Si tratta dunque di un tipo di responsabilità rientrante nell’alveo della responsabilità contrattuale, ex art. 1218 c.c., e dunque diretta, oppure indiretta ex art. 1228 c.c., in quanto derivante dal medico, quale ausiliario dell’ente.
Quanto invece alla responsabilità ascrivibile al medico, dal tenore letterale dell’art. 7, co.3, l. 24/2017 Gelli-Bianco, emerge inequivocabilmente la natura extracontrattuale della stessa, salvo i casi in cui il sanitario non abbia stipulato con il paziente uno specifico contratto. La responsabilità del medico quindi, innovando rispetto al passato, è stata “decontrattualizzata”, costituendo la sua condotta un fatto illecito produttivo di danno ingiusto, come tale risarcibile ex art. 2043 c.c.
Tali distinzioni comportando inevitabili conseguenze sul piano probatorio, essendo le due responsabilità, quella della struttura sanitaria e quella del medico, sottoposte a due diversi regimi.
In particolare, nell’ambito della responsabilità, extracontrattuale, del medico, il paziente-danneggiato, ai fini risarcitori, sarà onerato della prova di tutti gli elementi costitutivi del fatto illecito; quanto alla responsabilità gravante in capo alla struttura sanitaria, originariamente di considerava estensibile il principio generale sancito dalla sopra citata sent. a Sezioni Unite del 2001, secondo cui il creditore-paziente doveva limitarsi a dimostrare il titolo, e dunque l’esistenza del contratto o “contatto sociale”, e l’aggravamento della situazione patologica o l’insorgere di nuove patologie per effetto dell’intervento medico, mentre il debitore-struttura sanitaria era chiamata a dimostrare che la prestazione professionale era stata eseguita diligentemente e che gli esiti peggiorativi non erano causalmente riconducibili alla condotta del medico.
Tale condotta, dapprima confermata dalle Sezioni Unite nel 2008, è stata successivamente rivista nel 2017 quando la Suprema Corte ha specificato che, in caso di deduzione della responsabilità contrattuale della struttura per inesatto adempimento della prestazione sanitaria, spetta al paziente provare il nesso di causalità materiale tra l’aggravamento della situazione patologica, o l’insorgenza di nuove patologie, e la condotta omissiva o commissiva del medico, mentre è onere della struttura dimostrare che l’esatta esecuzione della prestazione sia divenuta impossibile per causa imprevedibile e inevitabile, onere questo che sorgerebbe solo una volta che il paziente abbia provato il nesso di causalità tra la patologia sofferta e la condotta dei sanitari, individuando in tal modo due distinti “cicli causali”.
Questa nuova impostazione è stata oggetto di recenti e ulteriori precisazioni, specie a seguito delle sentenze San Martino del 2019. In particolare, in tali pronunce la Corte ha operato una distinzione tra obbligazioni in cui la prestazione soddisfa in via diretta l’interesse creditorio e obbligazioni dove la prestazione dedotta è strumentale rispetto all’interesse primario del creditore.
Traslando tale principio in ambito medico si deduce che l’inadempimento della prestazione curativa da parte del medico, tramite la violazione delle regole della diligenza professionale, non ha un’intrinseca attitudine alla causazione dell’evento dannoso, per cui, quest’ultimo, non essendo implicito nell’inadempimento, deve essere adeguatamente provato dal paziente in giudizio, non potendo essere meramente allegato.

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Eleonora Nardelli

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