Recesso e patto di prova di un invalido (Cass., n. 15100/2012)

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LA RIFORMA FORNERO COMMENTATA 

Maggioli Editore – Novità settembre 2012

 

Massima

Nell’ipotesi di patto di prova stipulato con invalido assunto in base alla L. 2 aprile 1968, n. 482, il recesso dell’imprenditore è sottratto alla disciplina limitativa del licenziamento individuale contenuta nella L. 15 luglio 1966, n. 604, onde non richiede una formale comunicazione del motivo del recesso; questo può essere direttamente contestato dal lavoratore in sede giudiziale, allegando fatti (fra i quali l’elusione della legge protettiva degli invalidi) dimostranti l’illiceità del motivo e perciò l’invalidità dell’atto negoziale unilaterale.

 

 

1. Questione

Il lavoratore presentava due ricorsi al Tribunale di Venezia. Nel primo ricorso esponeva di essere affetto da “agnosia spaziale” ossia da difficoltà di riconoscere i luoghi, che si concretava in un’invalidità del 90% e di essere stato avviato obbligatoriamente al lavoro quale coadiutore amministrativo presso l’Azienda – unità sanitaria locale di Venezia. Il periodo di prova di due mesi non si era svolto regolarmente a causa dell’assegnazione a mansioni diverse da quelle previste nel momento dell’assunzione e comunque non compatibili con il suo stato di salute. Pertanto il lavoratore chiedeva dichiararsi la nullità della delibera di recesso dell’Azienda dal rapporto di lavoro per mancato superamento della prova, e la condanna alla reintegrazione. Nel secondo il lavoratore chiedeva accertarsi che, essendo stata comunicata la suddetta delibera dopo la scadenza del termine di prova, il rapporto era ormai a tempo indeterminato.

Adito Tribunale di Venezia rigettava la domanda con decisione confermata dalla Corte d’appello e dalla Cassazione.

 

2. L. 68/1999  e recesso di un contratto, con periodo di prova

Con riguardo al rapporto di lavoro costituito con gli invalidi civili avviati obbligatoriamente al lavoro ai sensi della L. 482/1968 (abrogata dalla L. 68/1999, modificata dalla L. 92/2012 e dalla L. 134/2012) la Corte costituzionale con sentenza 18 maggio 1989 n. 255, dichiarando non sussistente il contrasto fra gli artt. 10 e 16 della L. 68/1999 e gli artt. 2, 3 e 4 Cost., ha indicato quale titolo costitutivo del rapporto non già l’atto di avviamento emanato dall’autorità amministrativa, ma il contratto di assunzione stipulato nell’esercizio dell’autonomia privata e seppure nell’adempimento di un obbligo legale. La Corte ha poi escluso qualsiasi impedimento alla inclusione, nel contratto d’assunzione, del patto di prova di cui all’art. 2096 c.c..

Tuttavia, in conformità con la giurisprudenza comune, la Corte ha riconosciuto la legittimità del patto di prova non in termini assoluti ma subordinatamente a tre condizioni:

a) svolgimento della prova in mansioni compatibili con lo stato di invalidità;

b) non riferibilità dell’esito della prova a condizioni di minor rendimento dovuto all’invalidità;

c) assoggettamento del giudizio negativo, reso dal datore di lavoro, al sindacato di legittimità, ma non di merito, dell’autorità giudiziaria.

Su queste affermazioni della Corte costituzionale, si aggiunge la motivazione della sentenza della Corte cost., n. 255 del 1989, in cui si parla tanto di “corretto espletamento della prova, soggetto al sindacato del giudice al quale potrà rivolgersi il lavoratore che ritiene leso il proprio diritto (al lavoro)” quanto di “recesso del datore di lavoro (che) deve avere una adeguata motivazione”; ciò dà luogo al dissenso circa modo e tempi del sindacato giudiziale, dissenso che trova espressione nel ricorso per cassazione e che al tempo stesso riflette la divergenza di tre orientamenti giurisprudenziali.

Alcune sentenze della Corte di legittimità ritengono che il licenziamento del lavoratore invalido e in prova debba essere contestualmente motivato, e ciò anche se esso sia sottratto alla disciplina dei licenziamenti individuali (L. n. 604 del 1966) (Cass. civ., 18 febbraio 1994 n. 1560). Ciò secondo una regola generale di immediata indicazione delle ragioni di recesso dal contratto, giustificata dagli interessi vitali che esso coinvolge (Cass. civ., 14 giugno 2000 n. 8143).

Altre pronunce ritengono bensì necessaria la motivazione del licenziamento, in funzione così di informazione dovuta al lavoratore come di fissazione immutabile dei motivi, ma non ne richiedono la contestualità. Esse affermano doversi applicare per analogia l’art. 2, comma 2, della L. 604/1966, secondo cui “Il prestatore di lavoro può chiedere, entro quindici giorni dalla comunicazione, i motivi che hanno determinato il recesso (del datore); in tal caso il datore di lavoro deve, nei sette giorni dalla richiesta, comunicarli per iscritto”. L’inosservanza del termine di quindici giorni produce la decadenza del lavoratore dal potere di impugnare il licenziamento (Cass. 9 aprile 1998 n. 3689, 12 giugno 2000 n. 7988, 24 luglio 2000 n. 9705). In definitiva per queste decisioni la garanzia della motivazione non può essere maggiore di quella prevista dall’art. 2 ora citato per il giustificato motivo del licenziamento.

Un terzo orientamento si fonda sull’esclusione dall’ambito di applicabilità della legge sui licenziamenti individuali n. 604 del 1966 della risoluzione del rapporto di lavoro in prova. Tale esclusione comporta che il motivo del licenziamento non debba essere formalizzato, nel senso che, qualora il lavoratore ne neghi la giustificazione, il giudice può accertare le vicende del rapporto non rimanendo vincolato alle giustificazioni del datore (Cass. civ., Sez. un. 27 marzo 1979 nn. da 1763 a 1766; Cass. civ., Sez. lav., 9 gennaio 1981 n. 68; Cass. civ., 11 novembre 1988, n. 6096; Cass. civ., 29 maggio 1999, n. 5920; Cass. civ., 30 ottobre 2001, n. 135215; Cass. civ., 18 marzo 2002, n. 392).

L’imposizione di forme e termini al recesso del datore di lavoro non è necessario al controllo giudiziale e non corrisponde ad alcuna previsione legislativa.

A mio avviso, è necessario attenersi all’ultimo degli illustrati orientamenti, ossia di dover confermare le citate pronunce delle Sezioni unite.

Ai sensi dell’art. 10 della L. 604/1966, “le norme della presente legge (sui licenziamenti individuali) si applicano nei confronti dei prestatori di lavoro … assunti in prova … dal momento in cui l’assunzione diviene definitiva”. Durante il periodo di prova, dunque, non si applica né l’art. 1 della legge, che afferma legittimo il licenziamento solo se sorretto da giusta causa (art. 2119 c.c.) o da giustificato motivo, né l’art. 2, secondo comma, che attribuisce al prestatore di lavoro il potere di chiedere al datore, entro quindici giorni dalla comunicazione, i motivi che hanno determinato il recesso.

Il recesso del datore (licenziamento) durante il periodo di prova rientra così nella cosiddetta area della recedibilità acausale, o ad nutum: il datore è titolare di un diritto potestativo, il cui esercizio legittimo non richiede giustificazione.

Ciò non significa tuttavia che l’esercizio del diritto potestativo venga dall’ordinamento affidato ad un arbitrio del titolare, tale da potersi risolvere in una violazione di norme imperative o di principi costituzionali. In tempo meno recente la dottrina indicava, quale tratto distintivo del potere giuridico rispetto al diritto soggettivo, assoluto o relativo, l’irrilevanza della condotta del soggetto passivo, il quale si trovava in tal modo in una posizione non già di obbligo oppure di dovere, bensì di mera soggezione, definita come assenza di vincolo alla volontà del soggetto attivo: in situazione di soggezione si trovava di regola qualunque titolare di un rapporto di durata, dal quale la controparte si poteva liberare semplicemente comunicando la disdetta o la volontà di risoluzione unilaterale. Col passare del tempo si rafforzò però il convincimento che, in tutti i casi in cui la legge attribuisse ad un soggetto il potere di incidere sulla sfera giuridica altrui, e tanto più quando questo potere assumesse caratteri di stabilità tali da costituire una situazione di autorità privata, l’interesse del soggetto passivo non potesse rimanere del tutto sfornito di giuridica tutela, oggi si ritiene contrario ai principi di civiltà giuridica l’esercizio del potere di sacrificare un interesse altrui, patrimoniale o non patrimoniale, senza che l’altro sia fornito almeno della possibilità di conoscere i motivi che animano la condotta del titolare del potere, in modo di essere in grado di contrastarli (Corte cost., 18 luglio 1989 n. 427).

In tal modo alla situazione di mera soggezione tende a sostituirsi quella di interesse legittimo nel diritto privato.

Più specificamente, nella materia relativa ai poteri imprenditoriali di gestione dell’impresa, la giurisprudenza afferma spesso che l’esercizio libero di essi è garantito a livello costituzionale (art. 41 Cost.) ed è perciò insindacabile nel merito, ma poiché la libertà è sempre sottomessa alla legge, l’esercizio del potere ben può essere censurato dal giudice quante volte si ponga in contrasto con l’ordinamento legale non solo direttamente ma anche attraverso l’elusione delle norme, ossia l’abuso del diritto (cfr. Cass. civ., 9 giugno 1993 n. 6408; Cass. civ., 17 gennaio 1998 n. 402; Cass. civ., 18 novembre 1998 n. 11634; Cass. civ., 2 gennaio 2001 n. 27). Viene così riconosciuta “garanzia costituzionale al diritto di non subire un licenziamento arbitrario” (Corte Cost., 4 dicembre 2000 n. 541).

 

2.1. Onere della prova 

L’atto di recesso del datore dal rapporto di lavoro, in quanto atto unilaterale di volontà negoziale, è viziato, se l’agente vi si sia determinato esclusivamente per un motivo illecito (artt. 1345 e 1324 cod. civ.), tale dovendosi ritenere il motivo contrario a norme imperative (art. 1418, primo e secondo comma, cod. civ.), come ad es. quello mosso da ragioni di credo politico o di fede religiosa (art. 4 della L. 604/1966) (Cass. civ., 6 novembre 1976 n. 4061) o da intento di rappresaglia (Cass. civ., 14 febbraio 1983 n. 1114) o dalla partecipazione del lavoratore ad attività sindacali (art. 15 della L. 300/1970) (Cass. civ., 2 aprile 1990 n. 2642 e vedi ancora, con specifico riferimento al licenziamento intimato in periodo di prova, Cass. civ., 17 giugno 1982, n. 3699; Cass. civ., 28 aprile 1995, n. 4747). Né sembra necessario, con riferimento all’illiceità del motivo data dalla violazione delle norme imperative sul collocamento obbligatorio degli invalidi, parlare di regime intermedio fra recedibilità causale e recedibilità ad nutum (vedi Cass. civ., n. 402 del 1998).

In questi casi la prova del motivo illecito grava sul lavoratore in base alla regola generale di cui all’art. 2697 c.c., non operando l’inversione dell’onere stabilita dall’art. 5 della L. 604/1966 (Cass. 21 gennaio 1987 n. 551, 14 febbraio 1983 n. 1114).

Tra i motivi illeciti ben può rientrare quello rilevabile dallo svolgimento della prova in mansioni incompatibili con lo stato di invalidità o comunque dall’inosservanza delle leggi sulle assunzioni obbligatorie. La Corte costituzionale definisce come licenziamento in frode alla legge quello finalizzato al solo obiettivo di aggirare il sistema dell’assunzione obbligatoria (sent. n. 541 del 2000 cit.).

Una volta allegato dal lavoratore il motivo illecito, la maggiore o minore difficoltà di provarlo si risolve in un problema di fatto che non contrasta col diritto di difesa garantito dall’art. 24 Cost. e in ogni caso possono soccorrere i poteri officiosi attribuiti al giudice dall’art. 421 c.p.c., che debbono arrestarsi solo di fronte all’apprezzamento, riservato al datore di lavoro, dell’attitudine e della diligenza dell’invalido nello svolgimento di mansioni compatibili con la sua condizione, e dunque nell’ambito della sua effettiva capacità lavorativa.

Trattasi dunque di un riscontro giudiziale delle obiettive circostanze, idonee a dimostrare l’eventuale illiceità del motivo di licenziamento ossia sulla sua estraneità al detto apprezzamento. Il giudice può così accertare il limite esterno del potere imprenditoriale di sottoporre a prova il lavoratore assunto obbligatoriamente, senza interferir nelle valutazioni riservate all’iniziativa economica privata.

In tal senso si sono espresse queste Sezioni Unite con la sentenza n. 1764 del 1979, dalla quale non è ora ragione di discostarsi, così, come non v’é ragione di imporre al lavoratore l’onere di richiesta dei motivi, sanzionato con la decadenza e previsto dall’art. 2, comma 2, della L. 604/1966 per i soli casi di recesso causale. È altresì priva di base normativa la tesi che sottopone il datore di lavoro all’onere di formale e immediata motivazione.

Il regime di recedibilità ad nutum non impedisce al datore di lavoro di palesare se voglia, pur non essendovi onerato, il giustificato motivo del suo recesso, che può consistere anche in un motivo estraneo al mancato superamento della prova: mentre il giustificato motivo soggettivo si risolve pur sempre nel mancato superamento della prova (si pensi alla grave infrazione disciplinare), ben potrà darsi un motivo oggettivo diverso dal mancato superamento e tuttavia non illecito (si pensi alla impossibilità sopravvenuta per distruzione parziale dell’azienda oppure alla necessità economica di sopprimere un reparto) (Cass. civ., n. 402 del 1998). In tal caso la verifica positiva in sede giudiziale escluderà l’illiceità del motivo e con ciò ogni ravvisabilità di fondata doglianza del lavoratore licenziato.

 

 

Rocchina Staiano
Dottore di ricerca; Docente all’Univ. Teramo; Docente formatore accreditato presso il Ministero di Giustizia e Conciliatore alla Consob con delibera del 30 novembre 2010; Avvocato. E’ stata Componente della Commissione Informale per l’implementamento del Fondo per l’Occupazione Giovanile e Titolare di incarico a supporto tecnico per conto del Dipartimento della Gioventù.

Sentenza collegata

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Staiano Rocchina

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