Reato contro la p.a. e danno all’immagine

Paola Marino 16/02/23
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La Corte dei Conti per la Campania, con sentenza 12.01.2023 n. 6, ha stabilito che il danno all’immagine, anche se non comporta una diminuzione patrimoniale diretta, è comunque suscettibile di valutazione patrimoniale sotto il profilo della spesa necessaria per il ripristino del danno al bene giuridico leso.
Corte dei Conti per la Campania – sentenza n. 6 del 12-01-2023

Indice

1. La configurazione del danno

 La configurazione del danno in esame si determina ogni volta che il comportamento criminoso di un soggetto, legato da un rapporto di servizio all’ente pubblico, sia rivolto a sfruttare la posizione ricoperta per scopi personali di carattere utilitaristico, in contrasto con gli interessi pubblici generali, minando così la fiducia dei cittadini nella correttezza dell’azione amministrativa e nella gestione dei servizi predisposti per la collettività.
Elemento significativo per la configurazione del danno all’immagine è la divulgazione della notizia e la prova da parte della Procura contabile che tale diffusione abbia determinato il discredito dell’Ente a causa dell’azione illecita commessa dal predetto soggetto, con conseguente perdita di fiducia da parte della cittadinanza nell’operato dell’Amministrazione.

2. La questione

La Procura regionale per la Corte dei Conti della regione Campania conveniva in giudizio un soggetto, accusandolo di aver causato danno all’immagine del Comune di Benevento, quantificabile in complessivi €. 545.100,00, o nella diversa somma ritenuta di giustizia.
Tale soggetto si era reso, infatti, responsabile del delitto di peculato ex art. 314 c.p., accertato, nel 2018, con sentenza emanata, in seguito a rito abbreviato, dal GUP del Tribunale di Benevento, poi confermata in appello nel 2019 e dalla Cassazione nel 2021.
Quale titolare di ditta individuale denominata “Tabacchi”, incaricato di pubblico servizio per conto del Comune di Benevento (nello specifico, doveva provvedere alla ricarica del credito finalizzato al pagamento dei pasti della mensa scolastica), con più azioni esecutive di un medesimo disegno criminoso, nel periodo dall’1.10.2010 al 24.3.2014, si era appropriato della complessiva somma di €. 272.550,03, non versata al Comune secondo i tempi e le modalità previste nella convenzione stipulata in data 30.9.2010.
Per il Pubblico Ministero contabile, il convenuto aveva cagionato un grave danno all’immagine del Comune, determinato dalla commissione di un delitto contro la pubblica amministrazione, accertato con sentenza penale definitiva, consumatosi nell’ambito di un rapporto funzionale di servizio intercorrente tra lo stesso e l’Amministrazione.
Il tabaccaio, violando i doveri di correttezza, i termini contrattuali a cui era astretto e, in generale, la legalità, a cui si ispirava lo svolgimento della funzione di carattere pubblicistico assunta, proprio per il fatto di aver instaurato un rapporto con la P.A., restituiva della stessa un’immagine deformata, quale amministrazione complessivamente mal gestita; immagine, peraltro, suffragata dal discredito che la stampa locale aveva alimentato, fungendo da cassa di risonanza della vicenda.
Ed era proprio l’eco giornalistica ad aver minato profondamente la credibilità del Comune nei confronti della collettività locale.
Accertata, quindi, la conclamata sussistenza di un reato contro la pubblica amministrazione da parte di incaricato di pubblico servizio e constatato che l’immagine della PA risultava, al cospetto dell’opinione pubblica, fortemente incrinata dal rievocato episodio criminoso, il Pubblico Ministero presso la Corte dei Conti campana quantificava il danno all’immagine nel doppio della somma illecitamente percepita dal tabaccaio, secondo quanto dispone l’art. 1, comma 1 sexies, l. 20/1994.
Corroboravano l’assunto accusatorio la matrice dolosa della condotta, il particolare disvalore sociale del fatto e la gravità del reato.
Il PM contabile notificava, quindi, invito a dedurre nei confronti del tabaccaio, che si limitava a rispondere con una mail, rigettando ogni addebito, e, successivamente, non costituendosi nell’instaurato giudizio per danno erariale azionato dalla Procura della Corte campana.

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3. La soluzione adottata da Corte dei Conti per la Campania, sent. 12.01.2023, n. 6

In via preliminare, il Collegio ha dichiarato la contumacia del convenuto, essendo stata la citazione della Procura ritualmente notificata nei termini, a norma dell’art. 93 c.g.c. (d.lgs. 174/2016).
Ha poi rilevato, in rito, come, in subiecta materia, sussistesse la giurisdizione del Giudice contabile, in quanto non vi era dubbio che tra il Comune e il convenuto sussistesse, all’epoca dei fatti, un rapporto di servizio, avendo il tabaccaio gestito denaro pubblico, non assumendo rilievo alcuno la natura privatistica del soggetto affidatario del servizio, né il titolo (concessione), che aveva dato origine al predetto rapporto.
Nel caso di specie, il soggetto privato doveva considerarsi, ad ogni effetto, agente contabile, in quanto preposto alla ricezione del pagamento dei corrispettivi per la fruizione del servizio di mensa scolastica.
Aveva, infatti, gestito denaro pubblico per conto di un ente pubblico (il Comune), impegnandosi a onorare obblighi di rendicontazione, come previsto dagli artt. 6 e 7 della convenzione stipulata con l’ente territoriale.
Ricorrevano, pertanto, nel caso di specie, tutti elementi perché la causa potesse essere vagliata dal Giudice Contabile, appartenendo alla sua giurisdizione (Cass., Sez. Un., ordinanza 13.11.2019, n. 29464).
Nel merito, il Collegio ha ritenuto che la domanda della Procura fosse fondata. Richiamando il menzionato comma 1 sexies dell’art. 1 l. 20/1994, ha constatato la sussistenza di giudicato penale, che ha accertato in senso definitivo la sussistenza della condotta, dell’evento, del nesso di causalità e dell’elemento psicologico, sotto il profilo del dolo, di un delitto contro la pubblica amministrazione e, specificatamente, quello di peculato ex art. 314 c.p., avendo il tabaccaio, nella qualità di soggetto incaricato di un pubblico servizio, trattenuto denaro pubblico senza più restituire la res, di cui aveva la disponibilità per ragioni di pubblico servizio.
Il Collegio ha rimarcato come l’art. 651 c.p.p. preveda una deroga al criterio generale dell’autonomia tra il giudizio penale, civile e amministrativo, stabilendo che la sentenza penale irrevocabile vincoli il giudice contabile in ordine alla sussistenza del fatto, alla sua illiceità e all’affermazione che l’imputato lo abbia commesso.
Per tale ragione, il Collegio ha ritenuto di non poter più mettere in discussione i fatti e i comportamenti definitivamente accertati in sede penale, sotto il profilo oggettivo e soggettivo (Corte dei Conti, I Sez. App., sent. 13.3.2018 n. 121), con la conseguenza che residuava in capo al Giudice contabile la sola analisi e la valutazione del nesso tra il contegno illecito e il vulnus all’immagine dell’Ente pubblico.
Il Collegio ha quindi ricordato che, secondo la dominante giurisprudenza contabile, l’elemento significativo per la configurazione del danno all’immagine è la divulgazione della notizia e la prova da parte della Procura che tale diffusione abbia determinato il discredito dell’Ente per l’azione illecita commessa dal convenuto, con conseguente perdita di fiducia da parte della cittadinanza nell’operato dell’Amministrazione (Corte Conti, III Sez. App., sentt. 4.12.2019 n. 241 e 6.11.2020 n. 189).
Nella fattispecie in esame, la notizia del reato commesso dal tabaccaio aveva assunto ampia risonanza sulla stampa locale, come dimostrato dalla documentazione versata in atti, determinando un’evidente lesione del prestigio dell’Amministrazione, in conseguenza della gravità della condotta illecita, anche legata all’ingente somma non versata al Comune e distolta, quindi, dai fini cui era destinata.
La particolare attenzione mediatica destata dalla vicenda e la reiterazione della condotta illecita avevano dissolto l’immagine di affidabilità della P.A. nella considerazione dei consociati, meno inclini, in conseguenza di questi fatti, a riporre fiducia nell’agire degli organi preposti alla gestione della cosa pubblica, ingenerando negli stessi la persuasione che l’Amministrazione fosse organizzata in maniera caotica, contribuendo a sminuire la considerazione nei confronti delle persone che agivano per conto della stessa.
Inoltre, occorre ricordare che il danno all’immagine, anche se non comporta una diminuzione patrimoniale diretta, è comunque suscettibile di valutazione patrimoniale sotto il profilo della spesa necessaria per il ripristino del danno al bene giuridico leso e ciò si determina, come nel caso in esame, ogni volta che il comportamento criminoso di un soggetto, legato da un rapporto di servizio all’ente pubblico, sia rivolto a sfruttare la posizione ricoperta per scopi personali di carattere utilitaristico, in contrasto con gli interessi pubblici generali, minando così la fiducia dei cittadini nella correttezza dell’azione amministrativa e nella gestione dei servizi predisposti per la collettività (Cass. civ., Sez. Unite, sent. 2.4.2007 n. 8098; Corte Conti, III Sez. App., sent. 16.11.2018 n. 476).
Con riferimento al quantum del danno, il Collegio ha applicato il criterio presuntivo, indicato dal legislatore, del doppio della somma di denaro indebitamente trattenuta, in ragione della spiccata diffusività della notizia a livello locale, per la reiterazione della condotta, in esecuzione di un complessivo disegno criminoso, da parte del convenuto, per la rilevanza delle somme indebitamente trattenute, per la qualifica di agente contabile rivestita dall’incaricato di pubblico servizio, chiamato a “custodire” una res in un importante settore dei servizi pubblici, complementare alla presenza nei plessi scolastici degli alunni impegnati nella didattica a tempo pieno e, pertanto, correlato al diritto all’istruzione.
In assenza di prova contraria, la presunzione semplice, definita in via legislativa, non poteva che coincidere con il criterio di liquidazione del danno in via equitativa ex art. 1226 c.c., da sempre utilizzato dalla Corte dei Conti per quantificare il danno non patrimoniale all’immagine della P.A.
Per i suesposti motivi, la Corte dei Conti per la Campania, ha condannato il convenuto al pagamento in favore del Comune della somma di € 545.100,00, pari al doppio dell’utilità illecitamente percepita, come definitivamente quantificata in sede di giudicato penale, a cui si aggiunge la rivalutazione monetaria a partire dalla data del giudicato e gli interessi legali dalla data di pubblicazione della sentenza del giudice contabile sino al soddisfo.

4. Conclusioni

La pronuncia recepisce gli assunti, cui sono approdate dottrina e giurisprudenza, nel corso di un processo evolutivo, che ha progressivamente superato l’impostazione, in base alla quale le spese necessarie al ripristino dell’immagine della PA dovessero essere oggetto di una specifica dimostrazione.
Successivamente, infatti, si è consolidata l’opinione, in base alla quale, il p.m. contabile potesse chiedere il risarcimento del danno all’immagine, anche in assenza di una specifica dimostrazione delle spese anzidette.
Pur discorrendosi di danno conseguenza (e non di danno evento), la giurisprudenza ha ritenuto che il diritto al risarcimento fosse configurabile per effetto del solo danno lesivo dell’immagine, dimostrabile, da parte del p.m., con la prova che gli illeciti, commessi dal soggetto legato all’amministrazione da rapporto di servizio, avevano in concreto assunto vasta risonanza grazie ai mass media (cd. clamor fori).
Deve, infatti, ritenersi immanente la necessità del ripristino dell’immagine dell’ente di riferimento, in quanto coessenziale al suo stesso funzionamento, incidendo la sua lesione sul buon andamento della pubblica amministrazione (art. 97 Cost.).
Nella sentenza commentata, il Giudice Contabile richiama sia il criterio equitativo di liquidazione del danno, ex art. 1226 c.c., sia la presunzione legale in ordine alla sua quantificazione, come introdotta dall’art. 1, comma 1 sexies, l. 20/1994.
Tra gli indici sistematici atti a valorizzazione l’incidenza del danno, enucleati, nel tempo, dalla giurisprudenza contabile, si segnalano: l’entità del danno patrimoniale conseguente all’illecito, la dimensione dell’ente e dell’ufficio interessato, il grado di diffusione della notizia, la posizione più o meno elevata dell’agente all’interno della p.a. danneggiata.
Sul piano processuale, tra i presupposti di proponibilità dell’azione, vi è la sussistenza di un reato contro la p.a. accertato con sentenza passata in giudicato.
Il difetto di tale presupposto nella proposizione dell’azione è stigmatizzabile con la nullità, rilevabile d’ufficio ex art. 51, comma 6, c.g.c..
L’azione del p.m. contabile per danno all’immagine della p.a. è inoltre prevista dall’art. 55 quater, comma 3 quater, d.lgs. 165/2001 nei confronti del dipendente della pubblica amministrazione sottoposto a procedimento disciplinare per falsa attestazione della presenza in servizio.
A fronte di una simile costruzione normativo-giurisprudenziale, l’interprete si domanda se non si sia al cospetto di un danno punitivo.
Il sistema della responsabilità, nel nostro ordinamento, è incentrato sull’eliminazione delle conseguenze effettivamente patite dal danneggiato (nel nostro caso la PA).
La stessa Corte di Giustizia, a proposito dell’illecito antitrust, ha escluso che il danneggiato possa arricchirsi oltre la misura necessaria per la compensazione del suo patrimonio.
Le Sezioni Unite della Cassazione, sia pure con riferimento alla delibazione di sentenze straniere, che hanno comminato danni punitivi, hanno riconosciuto, dopo un lungo travaglio ermeneutico, l’esistenza nel nostro ordinamento di indici normativi, che, rifuggendo dalla consolidata e pur permanente funzione compensatorio-remuneratoria del risarcimento, depongono per l’esistenza di un nucleo di fattispecie, per cui il legislatore ha previsto il risarcimento in chiave punitiva (si pensi, a titolo esemplificativo, agli artt. 158 l. 633/1941 e 125 d.lgs. 30/2005 in tema di proprietà industriale, che riconoscono al danneggiato un risarcimento corrispondente ai profitti realizzati dall’autore del fatto, di entità maggiore rispetto alla perdita subita dal danneggiato stesso).
Come si inscrive, in questa temperie ordinamentale, il danno all’immagine della PA?
Certamente, esigere dall’autore dell’illecito, per presunzione iuris tantum, il doppio della somma illecitamente percepita, potrebbe far ipotizzare che la norma si presti a rientrare nell’ambito delle fattispecie rispetto alle quali il risarcimento assuma una curvatura sanzionatorio-punitiva, in chiave preventivo-dissuasiva (la drasticità del rimedio dovrebbe cioè spingere i soggetti legati da un rapporto di servizio alla PA a comportamenti virtuosi).
E, tuttavia, vi sono altri indici, di cui tenere conto, sui quali la sentenza in commento aiuta a riflettere.
Ed infatti, la stessa fa riferimento all’art. 1226 c.c., a tenore del quale: “se il danno non può essere provato nel suo preciso ammontare, è liquidato dal giudice con valutazione equitativa”.
Orbene, nel caso di specie, il convenuto è rimasto contumace e, dunque, non ha potuto provare che la PA non avesse affrontato spese (o le avesse affrontate in misura minore rispetto al doppio della somma da lui illecitamente incamerata) per restaurare la propria immagine di affidabilità né l’insussistenza del clamor fori.
E, tuttavia, il perdurante riferimento all’equità del giudice fa comprendere, come la Cassazione ha recentemente ricordato, che la stessa ha una funzione integrativo-correttiva e presuppone la raggiunta prova dell’esistenza del danno.
Perciò, il giudice contabile è chiamato a servirsi della presunzione richiamata in chiave di facilitazione probatoria, ma deve pur sempre motivare, nella prospettiva liquidatoria, in che misura ne ricorrano i presupposti.
Egli deve compiere, cioè, un vaglio complesso: ossia considerare non solo le risultanze penali di cui dispone, seguire l’evoluzione della vicenda, che intende stigmatizzare sul piano del danno erariale, sulla stampa e nei mass-media (giudice, quindi, calato nella società e non mero esecutore di astratti precetti), ma, secondo il tenore della sentenza in commento (che fa riferimento alla spesa necessaria per il ripristino del danno al bene giuridico leso),   deve anche  stabilire, ove possibile, se la PA abbia sostenuto spese non previste (ad esempio, reperire i fondi per tacitare la società, che gestiva la mensa scolastica al fine di impedire un possibile contenzioso o subire quest’ultimo, anche da parte dei genitori interessati da un possibile ritardo o addirittura dall’interruzione del servizio, con tutte le conseguenze riparatorie del caso), al fine di ripristinare la propria immagine di credibilità.
Benché il danno all’immagine della PA costituisca un danno non patrimoniale, ex art. 2059 c.c., poiché il bene giuridico leso è costituito dal prestigio della PA e dalla conseguente perdita di credibilità della stessa, le conseguenze risarcibili sarebbero pur sempre di natura patrimoniale e consisterebbero, come la sentenza in commento ricorda, nell’effettiva erogazione della spesa necessaria per il ripristino dei beni immateriali lesi.
La giurisprudenza contabile, quindi, avverte l’esigenza di ancorare la quantificazione del danno a parametri e circostanze verificabili di carattere patrimoniale, senza  che lo stesso possa essere inteso come mera forfettizzazione della lesione inferta alla personalità dell’ente, come pure avviene in altre fattispecie previste dal legislatore (si pensi, ad esempio, agli espropri non avviati, non conclusi o annullati, per i quali la PA deve assicurare, nell’esercizio dei poteri previsti dall’art. 42-bis, comma 1, TUE, anche il risarcimento del danno non patrimoniale, forfetariamente liquidato nella misura fissa del dieci per cento del valore venale del bene).
Ed è dunque questo il senso di quella presunzione iuris tantum, che ammette la prova contraria.
Più che di danno punitivo o forfettizzato, è più corretto parlare di facilitazione probatoria.
Ma la presunzione ha senso proprio per la difficoltà di quantificare il danno (non patrimoniale dalle conseguenze pur sempre patrimoniali); in questo senso, è importante il riferimento all’equità.
Il giudice deve, cioè, puntualmente spiegare, in motivazione, perché gli sembri equo che la misura del danno all’immagine debba essere integrata attraverso l’applicazione della presunzione del doppio della somma illecitamente lucrata dall’agente, che ammette pur sempre la prova contraria.
Ed infatti, confortato da questa persuasione, lo stesso p.m. contabile, nel caso esaminato, ha lasciato al collegio la valutazione sulla corretta quantificazione del danno all’immagine, ammettendone, in ipotesi, anche una quantificazione inferiore al doppio (“o nella diversa somma ritenuta di giustizia”).
Questa è la ragione per cui chi scrive ritiene che nella quantificazione del danno, al di là della curvatura sanzionatoria che possa assumere una determinata fattispecie, occorra pur sempre considerare la funzione effettivamente riparatoria, che il risarcimento continua ad avere nel nostro ordinamento.
Questa è probabilmente la ragione per cui, nelle più risalenti sentenze del giudice contabile, si pretendeva una specifica dimostrazione delle spese atte a “restaurare” l’immagine della PA.
La presunzione richiamata dall’art. 1, comma 1 sexies, l. 20/1994gioca, quindi, un ruolo significativo sul piano della facilitazione della prova e del giudizio equitativo, sebbene assuma, poi, in concreto, anche una funzione deterrente.
Per questa ragione, il giudice è gravato, come la sentenza commentata dimostra, da un onere motivazionale rafforzato, perché, come ci ha ricordato di recente la Suprema Corte, il giudice è tenuto a dar conto dell’esercizio dei propri poteri discrezionali e per far sì che la liquidazione equitativa del danno non risulti arbitraria è necessario che spieghi le ragioni per cui la applica al caso concreto, indicando tutti i criteri assunti (Cass. civ., Sez. VI, 22 gennaio 2019, n. 1579).
Occorre, infine, dare conto, in tema di danno all’immagine, di un contrasto giurisprudenziale non ancora sopito.
Le Sezioni Riunite della Corte dei Conti, con la sentenza 19 marzo 2015, n. 8, avevano statuito che la stessa Corte potesse esercitare l’azione per danno all’immagine solo per i delitti di cui al Capo I del Titolo II del Libro secondo del codice penale.
Era, infatti, respinta la tesi secondo cui la norma, stante la previsione di cui all’art. 1, comma 12, l. 190/2012, avrebbe consentito la risarcibilità del danno all’immagine anche innanzi a sentenze di condanna per delitti contro la pubblica amministrazione diversi da quelli ricompresi nel suddetto capo.
Occorre, comunque, ricordare come l’art. 4, c. 1, lett. g) dell’allegato 3 al codice di giustizia contabile ha espressamente abrogato l’art. 17, c. 30-ter D.L. 78/2009, convertito nella L. 102/2009 (cd. Lodo Bernardo), che aveva circoscritto ai soli casi di cui all’art. 7 l. n. 97/2001 (e cioè ai delitti contro la PA) l’azione di responsabilità attivata dalle Procure per danno all’immagine e, nell’ambito di questi reati, solo dopo che fosse emessa “sentenza irrevocabile di condanna”.
Secondo un recente orientamento dottrinario e giurisprudenziale, quindi, per i fatti contestati successivamente all’entrata in vigore del codice di rito contabile, il danno all’immagine della PA sarebbe ipotizzabile anche per i delitti comuni.
La giurisprudenza contabile favorevole alla tesi estensiva ha valorizzato, infatti, l’abrogazione espressa del predetto art. 17, c. 30-ter, valorizzando l’interpretazione letterale dell’art. 51, commi 6 e 7, c.g.c..
Altre pronunce hanno, invece, sottolineato come la materia del danno all’immagine abbia natura sostanziale e non processuale e che il rinvio operato dall’art. 17, c. 30-ter, norma abrogata, avrebbe natura “fissa o statica”, e non “mobile o dinamica”.
Di conseguenza, al di là dell’abrogazione della norma rinviata, permarrebbe il riferimento all’art. 7 della l. n. 97/2001, rimasta in vigore.
La Consulta, con l’ordinanza n. 191/2019, nel pronunciare la declaratoria di inammissibilità della questione di legittimità costituzionale dei commi 6 e 7 dell’art. 51 c.g.c., ha, infatti, invitato il giudice a quo a considerare la natura fissa e non mobile del rinvio operato dal secondo periodo dell’art. 17, c. 30-ter, all’art. 7 della l. n. 97/2001.
Di recente, tuttavia, la Corte dei Conti per la Lombardia ha ritenuto che tale ultima norma sia stata parimenti abrogata.
Secondo il collegio lombardo, l’art. 51, comma 6, c.g.c., quando richiama i “presupposti di proponibilità dell’azione per danno all’immagine”, rinvierebbe ad una norma abrogata dal Codice stesso e, cioè, l’art. 7, l. n. 97/2001, che prevedeva i “vecchi” presupposti della domanda giudiziale risarcitoria, individuandoli nella sentenza penale irrevocabile di condanna per i delitti dei pubblici ufficiali contro la p.a.
Secondo tale giudice, i presupposti di proponibilità dell’azione sono oggi senz’altro previsti nel “corrispondente istituto” contemplato dall’art. 51, comma 7, c.g.c., disposizione del tutto identica all’abrogato art. 7, L. n. 97/2001, eccezion fatta per il riferimento ai delitti dei pubblici ufficiali contro la p.a.; l’art. 51, comma 7, c.g.c. pare riferirsi, infatti, in maniera generica, ai “delitti commessi in danno” della p.a.cfr. Corte Conti, Sez. Giur. Lombardia, 29 settembre 2020, n. 140).
La pronuncia in commento non si occupa di questa tematica, avendo esaminato una questione relativa a delitto contro la PA coperto da giudicato.
Era comunque opportuno dare conto anche di quest’ulteriore coté del danno all’immagine, sia pure in maniera succinta, in modo da ricostruirne i caratteri essenziali in maniera sufficientemente esaustiva.

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Paola Marino

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