La recente sentenza della corte di giustizia dell’unione europea
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L’ ARTICOLO 5 DELLA DIRETTIVA 2008/95 dispone – per la parte che qui interessa – che il marchio di impresa registrato conferisce al titolare un diritto esclusivo; invero il titolare ha il diritto di impedire a terzi di usare, senza il proprio consenso, un segno identico al proprio marchio per prodotti o servizi identici a quelli per cui ha ottenuto la registrazione nonché un segno che a causa dell’identità o somiglianza con il marchio di impresa e all’identità o somiglianza dei prodotti o servizi contraddistinti dal marchio o dal segno, possa indurre in confusione il pubblico, incluso il rischio che si associno il segno e il marchio. La norma inoltre prevede la possibilità di vietare, se ci sono le condizioni appena menzionate, di apporre il segno sui prodotti o sul loro imballaggio, di offrire i prodotti, di immetterli in commercio o di detenerli a questo fine ovvero di offrire o fornire servizi contraddistinti dal segno ed inoltre di importare o esportare i prodotti da questo segno contraddistinti.
Nell’ambito della causa 772/ 2018
sono state presentate alcune domande pregiudiziali aventi ad oggetto l’interpretazione del paragrafo 1 in combinato disposto con il paragrafo 3, lettera b e c dell’appena menzionato articolo.
I fatti
B, residente in Finlandia, riceveva dalla Cina e portava nel proprio domicilio, centocinquanta cuscinetti a sfera sui quali era apposto il segno del marchio internazionale denominativo “INA” di titolarità di A proprio per i prodotti “cuscinetti”.
Dopo alcune settimane questi cuscinetti venivano consegnati ad un terzo per essere esportati in Russia; a titolo di compenso per l’operazione, B riceveva una stecca di sigarette e una bottiglia di cognac.
Il procedimento
Dinanzi al Tribunale di primo grado di Helsinki, in un procedimento penale per contraffazione, non era stato dimostrato che B avesse commesso detto reato. Gli era tuttavia stato vietato di ripetere le condotte e di risarcire il danno a favore del titolare del marchio registrato.
Ebbene, B contestava detta condanna dinanzi alla Corte d’Appello la quale decideva che l’appellante non avesse nessuna intenzione di trarre un vantaggio economico dall’ attività e che la remunerazione ricevuta non si fondasse sullo sfruttamento economico di merci nell’ambito di un’attività commerciale ma fosse solo un corrispettivo del deposito di merci per conto di un terzo.
Quindi A presentava ricorso dinanzi alla Corte Suprema finlandese la quale rilevando la poca chiarezza di alcuni punti, sospendeva il procedimento sottoponendo alla Corte di Giustizia UE quattro questioni pregiudiziali. Con queste ultime, esaminate congiuntamente, è stato sostanzialmente chiesto se l’articolo 5, paragrafo 1 della direttiva in combinato disposto con l’articolo 5 paragrafo 3, lettera b andasse interpretato nel senso che nel caso in cui un soggetto che non esercita un’attività commerciale a titolo professionale riceve, immette in libera pratica in uno Stato membro e conserva prodotti evidentemente non destinati all’uso privato – prodotti spediti al suo indirizzo da un paese terzo e su cui è apposto, senza il consenso del titolare un marchio registrato – si deve ritenere che questo soggetto usi il marchio nel commercio ai sensi della prima di tali disposizioni.
Con sentenza del 30/04/2020
la Corte di Giustizia dell’Unione Europea è intervenuta sulle questioni pregiudiziali partendo dall’analisi dell’espressione: usare nel commercio presente nella direttiva. A tal proposito, era già stato dichiarato da questa Corte, nell’ambito della C- 328/09, che i diritti esclusivi conferiti da un marchio possono essere fatti valere dal titolare dello stesso solo verso gli operatori economici e quindi solo nel contesto di un’attività commerciale. Orbene, se le operazioni effettuate superano la sfera dell’attività privata, colui che le compie si colloca nell’ambito dell’attività del commercio.
Ebbene, nel caso di specie è emerso che i prodotti di cui al procedimento principale sono dei cuscinetti che per la loro natura e volume non sono destinati ad uso privato, pertanto deve ritenersi che le operazioni ad essi relative rientrino in un’attività commerciale. Inoltre, un soggetto che comunica il proprio indirizzo come luogo in cui spedire i prodotti e che effettua o fa effettuare ad un agente lo sdoganamento di questi prodotti e li immette in libera pratica, compie un’importazione ai sensi dell’articolo 5, paragrafo 3, lettera c), della direttiva 2008/95.
Dunque, si può ritenere che l’interessato abbia usato un segno identico a un marchio pur agendo nell’interesse economico di un terzo? Come già affermato dalla medesima Corte in passato, la circostanza che un operatore usi un segno corrispondente ad un marchio per prodotti sui quali non dispone alcun titolo, non impedisce di per sé che questo uso possa rientrare nell’ambito dell’articolo 5, paragrafo 1, della direttiva 2008/95. Pertanto, la circostanza che un soggetto abbiamo importato e immesso in libera pratica detto prodotti è idonea a constatare che egli abbia agito nel commercio senza che sia necessario esaminare il trattamento successivo di questi prodotti.
Alla luce di quanto detto, la Corte ha quindi risposto alla questione dichiarando che l’articolo 5, paragrafo 1 in combinato disposto con l’articolo 5, paragrafo 3, lettere b) e c), della direttiva 2008/95, deve essere interpretato nel senso che, se un soggetto che non esercita un’attività commerciale a titolo professionale riceve, immette in libera pratica in uno Stato membro e conserva prodotti evidentemente non destinati all’uso privato, che sono stati spediti al suo indirizzo da un paese terzo e sui quali, senza il consenso del titolare, è apposto un marchio, si deve ritenere che tale soggetto usi il marchio nel commercio, ai sensi della prima di tali disposizioni.
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Andrea Sirotti Gaudenzi | Maggioli Editore
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