Limiti della responsabilità della pubblica amministrazione per il fatto dei suoi funzionari

Paola Marino 23/03/23
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Il presente contributo, partendo dalla disamina dell’articolo 2049 c.c. rilegge, in chiave prospettica, la responsabilità oggettiva della pubblica amministrazione per il fatto dei propri funzionari.

Indice

1. Art. 2049 c.c.: paradigma aquiliano della responsabilità oggettiva dei preponenti

L’art. 2049 c.c. stabilisce che i padroni e i committenti sono responsabili per i danni arrecati dal fatto illecito dei loro domestici e commessi nell’esercizio delle incombenze cui sono adibiti.
Tale terminologia è stata adattata alla mutata realtà socio-economica, per cui l’art. 2049 c.c. designa ormai, in maniera ampia, la responsabilità dei preponenti per il fatto del loro preposti.
Tale responsabilità non è limitata al danno derivante dalla condotta dei dipendenti, ma si estende a tutti coloro, che hanno agito su incarico o per conto del preponente.
Si è, peraltro, consolidato l’orientamento secondo cui tale responsabilità integra una fattispecie di responsabilità oggettiva (piuttosto che una presunzione di colpa) per fatto illecito altrui: difatti, la norma prescinde da una culpa in eligendo o in vigilando da parte del datore di lavoro, il quale non dovrà dimostrare di non aver potuto impedire il fatto.
L’art. 2049 c.c. non prevede, infatti, una prova liberatoria; inoltre, appare equo che colui che trae vantaggio dal rapporto col preposto debba rispondere per il fatto di costui.
Sarebbe riduttivo fare riferimento alla teoria del rischio d’impresa per giustificare tale ipotesi di responsabilità oggettiva: il danno cagionato a terzi dal fatto illecito dei dipendenti non può essere sussunto nel concetto di costo d’impresa e il preponente non può sottrarsi alle conseguenze dannose della sua attività solo per essersi servito di altri nel compierla.
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2. Ipotesi in cui non ricorre la fattispecie di cui all’art. 2049 c.c.

Vi sono casi che non possano essere ricondotti nell’ 2049 c.c.
Si pensi alla negotiorum gestio, che implica l’assunzione spontanea della gestione di un affare altrui, o all’appaltatore, che non riversa le conseguenze dei danni dallo stesso prodotti sul committente, essendo autonomo nello svolgimento della propria attività. Ma se l’appaltatore agisse come nudus minister del committente, potrebbe ipotizzarsi un rapporto di preposizione.

3. Esempi in cui ricorre la fattispecie di cui all’art. 2049 c.c.

L’art. 2049 c.c. ha trovato applicazione nelle seguenti ipotesi:
–         nel rapporto di mandato, quando il mandatario si sia servito della sua qualità di rappresentante per consumare un illecito ai danni di un terzo, che  abbia confidato nel fatto l’attività del preposto rientrasse nei limiti del mandato;
–         nel caso in cui taluno si avvalga, per compiere un determinato lavoro, di persone normalmente alle dipendenze di altri (fa eccezione il distacco del dipendente presso altra organizzazione aziendale, per cui la giurisprudenza ha stabilito che il datore di lavoro distaccante, in capo al quale permaneva la titolarità del rapporto di lavoro, sia responsabile, ai sensi dell’art. 2049 c.c., dei fatti illeciti commessi dal dipendente distaccato); 
–         in capo alla società di intermediazione finanziaria, quando il danno sia causato al risparmiatore dai promotori finanziari, in tutti i casi in cui sussista nesso di occasionalità necessaria tra danno ed esecuzione da parte dei preposti;
–         in capo alla società assicuratrice, che si sia avvalsa delle attività dell’agente, che abbia provocato un danno a terzi in rappresentanza della preponente;
–         in capo al tour operator ex art. 2049 c.c., per i danni patiti da un viaggiatore durante un trasferimento in taxi, offerto dal primo, dall’aeroporto all’albergo.  

4. Presupposti per l’applicazione della responsabilità oggettiva ex art. 2049 c.c.

Per configurarsi la fattispecie di responsabilità prevista dall’art. 2049 c.c., deve sussistere un fatto illecito del preposto, che deve aver agito con dolo o colpa (anche presunta ex lege).
Non è necessario che tra le incombenze affidate e l’illecito ricorra un rapporto di stretta derivazione causale. È sufficiente, a tal fine, la sussistenza di un nesso di occasionalità necessaria.
Le incombenze svolte dal preposto devono aver reso possibile, o comunque agevolato, la produzione dell’evento dannoso, anche nell’ipotesi in cui il preposto abbia operato oltre i limiti delle sue incombenze e persino contro la volontà del committente, purché nell’ambito delle proprie mansioni.
Tuttavia, le conseguenze dannose dell’agire del dipendente non devono essere del tutto anomale, ma in qualche modo collegate alla natura e alle modalità dell’incarico affidato.
Il principio enunciato dall’art. 2049 c.c. trova un proprio corrispettivo, in ambito contrattuale, nell’art. 1228 c.c.
Benché parte della dottrina ritenga che le due norme riposino sul medesimo principio (cuius commoda eius et incommoda), le stesse hanno un diverso ambito applicativo: nell’art. 2049 c.c. viene in rilievo la responsabilità di coloro, che sono legati al datore di lavoro da un preciso rapporto di preposizione, mentre, in base all’art. 1228 c.c., qualsivoglia terzo può essere incaricato dal debitore di eseguire la prestazione.

5. La responsabilità civile dello Stato per illeciti commessi dal pubblico funzionario

La pubblica amministrazione agisce all’esterno per mezzo dei propri funzionari o organi.
Come qualsiasi altro soggetto, la p.a. è responsabile dei danni cagionati a terzi.
Un dibattito, che ha agitato anche di recente la giurisprudenza, riguarda l’elemento del nesso di causalità, richiesto dall’art. 2049 c.c., per poter riconoscere, in aggiunta alla responsabilità civile personale del pubblico dipendente, che abbia agito con dolo o colpa grave, anche una responsabilità oggettiva dello Stato o dell’ente pubblico di appartenenza.
I dubbi pregnanti in merito hanno riguardato le condotte illecite del pubblico dipendente che, avvantaggiandosi dell’occasione offerta dalla posizione qualificata che occupa nella p.a., abbia sviato i propri poteri funzionali verso interessi esclusivamente personali (propri o altrui), perseguendo, pertanto, un fine totalmente egoistico, in nulla riconducibile, nemmeno mediatamente, a un vantaggio arrecato alla p.a. di appartenenza.
Il dibattito è divenuto ancora più rovente in relazione ai danni cagionati dal fatto penalmente illecito del dipendente, che abbia approfittato delle sue attribuzioni, agendo per finalità esclusivamente personali, estranee all’amministrazione di appartenenza.
Proprio al fine di dipanare il dibattito dottrinale e giurisprudenziale sorto in merito, la questione è stata devoluta alle Sezioni Unite, che hanno composto il contrasto tra due orientamenti contrapposti.
Secondo un primo orientamento, il fondamento della responsabilità degli enti pubblici riposa sull’art. 28 Cost., la cui ratio è quella di far conseguire più agevolmente il risarcimento al danneggiato. Tale norma si basa sul rapporto di immedesimazione organica, in virtù del quale l’attività posta in essere dal funzionario può essere imputata all’ente di appartenenza. Da ciò deriverebbe la responsabilità diretta o per fatto proprio della p.a., ma solo se l’attività dannosa si atteggi come esplicazione delle attività dell’ente pubblico e cioè tenda, sia pure con abuso di potere, al conseguimento dei suoi fini istituzionali. Perciò, dovrebbe escludersi la responsabilità della pubblica amministrazione in tutti i casi in cui la condotta del preposto sia sorretta da un fine esclusivamente privato, egoistico o addirittura contrario ai fini istituzionali dell’ente.
Per un diverso orientamento, la responsabilità civile della pubblica amministrazione per le condotte dei pubblici dipendenti, dirette a perseguire finalità esclusivamente personali attraverso la realizzazione di un reato doloso, ove poste in essere sfruttando l’occasionalità necessaria rappresentata dall’adempimento delle funzioni pubbliche cui essi sono preposti, rientra nell’art. 2049 c.c., poiché tali condotte non sono del tutto imprevedibili, ma possono costituire il ragionevole sviluppo dell’esercizio della funzione pubblica, sebbene esercitata scorrettamente.
Ciò premesso, le Sezioni Unite, con la sentenza n. 13246 del 2019, hanno ricostruito il sostrato normativo di riferimento, per poi giungere alla soluzione della questione prospettata.
Innanzitutto, la Corte si diffonde sulla portata dell’art. 28 Cost.
Superate le prime tesi sulla natura sussidiaria della responsabilità dell’ente pubblico rispetto a quella dell’agente, è stata in seguito riconosciuta la natura concorrente e solidale delle due responsabilità: quella dell’ente pubblico è una responsabilità diretta, in forza dei principi di immedesimazione organica, a cui si aggiunge la responsabilità personale diretta dell’agente.
Per il dettato costituzionale, si configurano, quindi, due responsabilità concorrenti e solidali: spetta al danneggiato scegliere se far valere l’una, l’altra o entrambe.
L’art. 2049 c.c. non concede al responsabile alcuna prova liberatoria: si è dinanzi ad una responsabilità oggettiva per fatto altrui, fondata sul noto brocardo cuius comoda eius et incommoda, esclusa solo dal caso fortuito o dalla forza maggiore, in grado di recidere il nesso di causalità materiale.
I Giudici di Piazza Cavour ritengono che l’appropriazione da parte del preponente dei risultati delle altrui condotte deve essere correlata alla normale estrinsecazione delle attività di cui è titolare, sia pure considerando le violazioni o deviazioni oggettivamente probabili, che è possibile attendersi.
Chi si avvale dell’altrui operato risponde delle conseguenze dannose, determinate dal preposto, in quanto possa ragionevolmente raffigurarsi, per prevenirle, le violazioni o deviazioni dai poteri conferiti.
Perciò, il proponente risponde delle conseguenze desumibili in base a un giudizio oggettivo di normalità statistica, con riferimento a ipotesi in astratto definibili, di probabile verificazione o, secondo i principi di causalità adeguata, in base al criterio del “più probabile che non”, in un dato contesto storico.
Da ciò deriva che la p.a. risponde del fatto illecito del proprio dipendente ogni qualvolta il danno non si sarebbe verificato senza l’esercizio delle funzioni o delle attribuzioni o dei poteri pubblicistici di cui era investito (giudizio controfattuale): e ciò a prescindere dal fine soggettivo dell’agente (poiché la responsabilità oggettiva prescinde dall’atteggiamento psicologico dell’autore del fatto).
Ciò posto, le Sezioni Unite operano un distinguo.
Il comportamento della pubblica amministrazione, riconducibile all’estrinsecazione del potere pubblicistico (anche attraverso formale provvedimento amministrativo), nell’ambito dell’esercizio di poteri autoritativi discrezionali alla stessa spettanti, comporta, per immedesimazione organica, la responsabilità diretta della p.a., in forza della sicura imputazione della condotta all’ente ex art. 2043 c.c.
Nel caso, invece, di attività estranee a quelle istituzionale o comunque materiali, anche escludendo l’operatività del criterio, che attribuisce la condotta del funzionario all’ente, non può escludersi la responsabilità extracontrattuale dell’ente pubblico, che si sia avvalso dell’operato di altri, ex art. 2049 c.c.
Ritenere che questo principio non operi per la pubblica amministrazione, ma solo per i privati, introdurrebbe un ingiustificato privilegio per l’ente pubblico, in contrasto con gli artt. 3, 24 Cost., 6 CEDU, 47 Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea.
Le due norme (art. 2043 c.c. per responsabilità diretta e art. 2049 c.c. per responsabilità indiretta della p.a.) hanno un fine comune: prestare la più ampia tutela al terzo per il danno patito in conseguenza di condotte riconducibili a un organo dell’amministrazione, locale o statale.
Perciò, sono fonte di responsabilità dell’ente pubblico anche i danni determinati da condotte del funzionario o dipendente, devianti o contrarie rispetto al fine istituzionale, purché si tratti di condotte all’ente legate da un nesso di occasionalità necessaria, per cui la condotta illecita dannosa e le conseguenze del danno ingiusto non sarebbero state possibili se non in relazione all’attività pubblicistica espletata, in applicazione del principio di causalità adeguata e in base a una verifica, tramite giudizio controfattuale, riferito al tempo della condotta.
Si tratta, peraltro, di condotte prevedibili oggettivamente quali sviluppi non anomali dell’esercizio del potere pubblicistico conferito, essendo normale, dal punto di vista statistico, che tale potere possa essere impiegato per finalità diverse da quelle istituzionali.
Sulla scorta di tali premesse argomentative, le Sezioni Unite hanno enunciato il seguente principio di diritto: lo Stato o l’ente pubblico risponde civilmente del danno cagionato a terzi dal fatto penalmente illecito del dipendente, anche quando questi abbia approfittato delle sue attribuzioni e agito per finalità esclusivamente personali o egoistiche ed estranee a quelle dell’amministrazione di appartenenza, purché la sua condotta sia legata da un nesso di occasionalità necessaria con le funzioni o poteri, che il dipendente esercita o di cui è titolare, nel senso che la condotta illecita dannosa (e, quale sua conseguenza, il danno ingiusto a terzi) non sarebbe stata possibile, in applicazione del principio di causalità adeguata ed in base a un giudizio controfattuale riferito al tempo della condotta, senza l’esercizio di quelle funzioni o poteri che, per quanto deviato o abusivo o illecito, non ne integri uno sviluppo oggettivamente anomalo.

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Giuseppe Cassano, Nicola Posteraro (a cura di) | Maggioli Editore 2019

Paola Marino

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