Principio d’inerenza dei costi, evoluzione della giurisprudenza di legittimità

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Di Maurizio Villani e Lucia Morciano

La definizione d’inerenza dei costi e la normativa di riferimento

Il principio d’ inerenza dei costi rappresenta uno dei pilastri concettuali nella determinazione del reddito imponibile d’impresa.

Esso è individuato nell’109, comma 5, del Tuir (D.P.R.n. 917/1986), il quale dispone che:

– “le spese e gli altri componenti negativi diversi dagli interessi passivi, tranne gli oneri fiscali, contributivi e di utilità sociale, sono deducibili se e nella misura in cui si riferiscono ad attività o beni da cui derivano ricavi o altri proventi che concorrono a formare il reddito o che non vi concorrono in quanto esclusi”;

“se si riferiscono indistintamente ad attività o beni produttivi di proventi imponibili e ad attività o beni produttivi di proventi non computabili, in quanto esenti nella determinazione del reddito, sono deducibili per la parte corrispondente al rapporto tra l’ammontare dei ricavi e altri proventi che concorrono a formare il reddito d’impresa o che non vi concorrono in quanto esclusi e l’ammontare complessivo di tutti i ricavi e proventi…”.

Pertanto, predetto articolo, detta le regole generali previste per la deduzione delle spese e degli altri componenti negativi dal reddito d’impresa.

In particolare, per espressa disposizione normativa, i ricavi, le spese e gli altri componenti positivi e negativi di reddito, concorrono a formare il reddito nell’esercizio di competenza.

Tuttavia i ricavi, le spese e gli altri componenti di cui nell’esercizio di competenza non sia ancora certa l’esistenza o determinabile in modo obiettivo l’ammontare, concorrono a formarlo nell’esercizio in cui si verificano tali condizioni.

Con particolare riferimento al requisito dell’inerenza, le spese e gli altri componenti negativi di reddito diversi dagli interessi passivi, tranne gli oneri fiscali, contributivi e di utilità sociale, sono deducibili se e nella misura in cui si riferiscono ad attività o beni da cui derivano ricavi o altri proventi che concorrono a formare il reddito o che non vi concorrono in quanto esclusi (art. 109, co. 5, D.P.R. n. 917/1986).

La prassi ministeriale (Circolare n. 30/9/944 del 07/07/1983 e Risoluzione n. 158/E del 28/10/1998) ha chiarito come il concetto di inerenza non sia legato ai ricavi dell’impresa, ma all’attività di questa e, pertanto, possono essere considerati deducibili anche costi e oneri sostenuti in proiezione futura, quali le spese promozionali e, comunque, quelle dalle quali si attendono ricavi in tempi successivi.

Sul punto, anche la giurisprudenza è unanimemente orientata a richiedere, per la deducibilità dei costi e degli oneri, che gli stessi siano rapportati come causa a effetto nel circuito della produzione del reddito, come vedremo meglio nei paragrafi successivi.

Conseguentemente, possiamo affermare che il giudizio di deducibilità di un costo per inerenza riguarda la natura del bene o del servizio e il suo rapporto con l’attività d’impresa, da valutarsi in relazione allo scopo perseguito al momento in cui la spesa è stata sostenuta e con riferimento a tutte le attività tipiche dell’impresa stessa e non, semplicemente, ex post in relazione ai risultati ottenuti in termini di produzione del reddito.

Con riferimento all’inerenza, autorevole dottrina ha ritenuto che il principio di inerenza non avrebbe un’espressa disciplina nel TUIR ma discenderebbe direttamente dal principio costituzionale di capacità contributiva e che la disposizione dell’art. 109, co. 5, D.P.R. n. 917/1986 si riferirebbe al solo profilo della coesistenza di proventi imponibili ed esenti.

Inoltre, l’accertamento dell’inerenza del costo deve essere condotto tenendo conto delle specifiche condizioni sulle quali si basa la scelta dell’imprenditore, al fine di verificare che il sostenimento del costo medesimo realizzi effettivamente un vantaggio economico per l’impresa.

Invero, l’inerenza rappresenta sia nella determinazione del reddito d’impresa, che in quello di lavoro autonomo, la regola che identifica il necessario collegamento che vi deve essere tra un componente economico e l’attività esercitata.

Pertanto, sulla base di quanto precedentemente illustrato, dal punto di vista fiscale l’inerenza coniuga il principio della capacità contributiva, in quanto la deduzione di un componente negativo di reddito, nella determinazione di quello d’impresa o di lavoro autonomo, interviene direttamente in funzione detrattiva nella determinazione del presupposto da sottoporre a tassazione.

Ciò posto, è corretto rilevare che la possibilità di dedurre i componenti negativi di reddito non rappresenta una norma di favore, ma è legata all’esigenza di misurare la capacità economica del presupposto d’imposizione.

Così, l’inerenza può essere definita come quel collegamento che vi deve essere tra i vari componenti, sia positivi che negativi, con la funzione economica svolta (imprenditoriale o professionale).

Inoltre, i criteri generali per la deducibilità dei costi di esercizio o dei componenti negativi di reddito sono subordinati al rispetto dei principi di competenza, di certezza ed obiettiva determinabilità e di inerenza (ex. art. 109, D.P.R. n. 917/1986).

Da ciò discende che, a livello generale, l’inerenza di un costo è un requisito indispensabile per la deducibilità di un componente negativo dal reddito di impresa, considerando che la mancanza dell’inerenza deve essere individuata, in particolare, in tutte quelle situazioni in cui non si rileva quel necessario collegamento tra il componente negativo di reddito e la logica economica adottata dall’impresa nella sua gestione, finalizzata alla produzione di reddito.

Una delle questioni principali nel giudizio d’inerenza, riguarda la “funzionalizzazione del costo alla produzione” del reddito, o al suo essere un atto di “destinazione” del reddito, al limite di una “liberalità”. Precisamente, la Suprema Corte, con sentenza n. 10257  del 16 gennaio 2018, afferma che “nel bilancio di un’impresa si debbono distinguere le spese produttive ai fini del reddito – che sono ovviamente detraibili – e quelle in cui si concreta la “spesa” degli utili conseguiti, a fini estranei all’oggetto dell’impresa”.

L’inerenza, infatti, è un concetto da guardare in “negativo”, al fine principale di escludere la deducibilità di spese estranee all’impresa, destinate al consumo personale dell’imprenditore, dei soci e altri terzi.

Infatti, può accadere che vengano veicolate attraverso l’impresa spese di natura privata, sostenute nell’interesse di terzi o dello stesso imprenditore, ma non connesse all’attività d’impresa.

L’onere della prova dell’inerenza dei costi

La prova dell’inerenza dei costi, per orientamento costante della giurisprudenza di legittimità, ricade sul contribuente. (v. Cass. nn. 10257/2008,4554/2010).

In particolare, la Suprema Corte, nella sentenza n. 19600/2014, ha precisato che “la prova dell’inerenza incombe sul contribuente, anche in base al principio di vicinanza della prova”.

L’inerenza dei costi dell’attività d’impresa è, però, spesso desumibile dalle caratteristiche della spesa, cioè dalla tipologia di bene o servizio acquistato, e dal suo rapporto con l’attività esercitata.

Con la sentenza n. 5374 del 4 aprile 2012, la Corte di Cassazione ha ulteriormente confermato il proprio consolidato orientamento (Corte di Cassazione n. 12230/2001, n. 3109/2006, n. 4218/2006, n.18000/2006, n. 20521/2006, n. 24075/2006, n. 27619/2006, n. 4046/2007, n. 16115/2007, n. 10257/2008,n.3305/2009, n. 6855/2009, n. 4443/2010, n. 4554/2010, n. 19489/2010, n. 26480/2010), secondo cui “in relazione alla regola generale di cui all’art. 2697 c.c., grava sull’amministrazione l’onere di provare i fatti costitutivi della pretesa tributaria mentre grava sul contribuente la prova (in caso di contestazione da parte dell’amministrazione) della sussistenza di un fatto modificativo, impeditivo o estintivo della suddetta pretesa (nella specie, esistenza di costi deducibili)”.

Secondo la giurisprudenza di legittimità, pertanto, tale principio generale vale anche con riferimento alla prova della sussistenza del requisito di inerenza di un componente negativo di reddito.

Ne deriva, in linea generale, che, ai fini delle imposte sui redditi e dell’Iva, affinché un costo possa essere legittimamente incluso fra le componenti negative del reddito d’impresa, non soltanto è necessario che ne sia certa l’esistenza, ma altresì, secondo la Suprema Corte, occorre, che in caso di corretta contestazione da parte della Amministrazione Finanziaria ne sia comprovata l’inerenza, e per provare tale ultimo requisito non è sufficiente che la spesa sia stata contabilizzata dall’imprenditore, dovendo l’imputabilità del costo anche collegarsi a fatti comunque riferibili al soggetto che tale costo intende dedurre, in ottemperanza ai contenuti prescrittivi dagli artt. 75 e 109 del D.P.R. n. 917/1986 ai fini delle imposte sui redditi (vigente ratione temporis) e dell’articolo 19 del D.P.R. 633/1972 ai fini dell’IVA (Corte di Cassazione n. 16730/2007, n. 18302/2008 e n. 22790/2009).

L’inerenza quantitativa e il principio di congruità dei costi

Molto dibattuta è la questione del profilo “quantitativo” dell’inerenza, in relazione a spese tipologicamente connesse con l’attività imprenditoriale generatrice del reddito, ma di entità sproporzionata ed eccessiva, almeno a prima vista, rispetto alle dimensioni e alle sue esigenze.

Una questione risalente, ma a oggi ancora dibattuta, è quella di chi ritiene che una volta verificata l’inerenza sotto l’aspetto qualitativo, che attiene al rapporto tra tipo di spesa e attività esercitata, non  si possa sindacare l’inerenza sotto il profilo dell’entità e della congruità della spesa; a tal proposito, si potrebbe obiettare che una spesa palesemente eccedente le necessità dell’impresa potrebbe essere il sintomo di uno sviamento della stessa rispetto alle finalità imprenditoriali: la spesa eccessiva potrebbe, cioè, essere sostenuta in parte, per esigenze personali dell’imprenditore, degli amministratori, dei soci o di altri soggetti .

L’aspetto della congruità della spesa, pertanto, dovrebbe cioè essere valutato solo laddove la spesa appaia non solo palesemente eccessiva rispetto alle dimensioni e/o alle esigenze “medie”di quel tipo  d’ impresa , ma altresì sostenuta anche per soddisfare interessi estranei all’impresa.

Il carattere “eccessivo” o “sproporzionato” della spesa dovrebbe cioè essere apprezzato alla stregua di un sintomo di una possibile deviazione della stessa rispetto alle finalità imprenditoriali, e non per affermare senz’altro la parziale mancanza d’inerenza della stessa.

In tema di inerenza quantitativa, la giurisprudenza di legittimità ha nel tempo delineato un consolidato orientamento secondo cui il comportamento antieconomico del contribuente viene ad integrare, se non adeguatamente giustificato, gli elementi indiziari connotati da requisiti di gravità, precisione e concordanza, che legittimano l’accertamento analitico induttivo ai sensi dell’art. 39, co. 1, lett. d), D.P.R. n. 600/1973.

Di seguito viene riportato l’iter logico giuridico della giurisprudenza di legittimità per quanto riguarda l’inerenza quantitativa.

Nella sentenza n. 21184, del 08 ottobre 2014, la Corte di Cassazione ha affermato che, ai fini della deducibilità dei costi imputabili a consulenze infragruppo, il contribuente deve provare l’inerenza e la congruità della spesa, con la conseguenza che l’Amministrazione Finanziaria può legittimamente disconoscere la deducibilità dei relativi costi sulla base del principio di inerenza, disciplinato dall’art. 109, D.P.R. n. 917/1986.

Sempre in tema di onere della prova afferente la deduzione di un costo dal reddito di impresa, la Suprema Corte, in tema di distacco del personale e dei relativi riaddebiti di costo infragruppo, ha affermato che trattandosi di una componente negativa del reddito “la prova della sua esistenza ed inerenza incombe al contribuente” (cfr. Cass. n. 1709/2007) e che “per provare tale ultimo requisito, non è sufficiente che la spesa sia stata dell’imprenditore riconosciuta e contabilizzata, atteso che una spesa può essere correttamente inserita nella contabilità aziendale solo se esiste una documentazione di supporto, dalla quale possa ricavarsi, oltre che l’importo, la ragione della stessa” (Corte di Cassazione n. 4570/2001).

Ancora la giurisprudenza di legittimità ha stabilito che l’onere della prova dei presupposti dei costi e degli oneri deducibili concorrenti alla determinazione del reddito d’impresa, ivi compresa la loro inerenza e la loro diretta imputazione ad attività produttive di ricavi, incombe sul contribuente il quale è tenuto, altresì, a dimostrare la coerenza economica dei costi sostenuti nell’attività d’impresa, ove sia contestata dall’Amministrazione Finanziaria anche la congruità dei dati relativi a costi e ricavi esposti nel bilancio e nelle dichiarazioni, in difetto di tal prova, essendo legittima la negazione della deducibilità di parte di un costo sproporzionato ai ricavi o all’oggetto dell’impresa.

Il Supremo Consesso, nella pronuncia n. 6656/2016, richiamando un consolidato orientamento giurisprudenziale espresso da parte del giudice di legittimità, ha affermato che l’onere di dimostrare che un’operazione economica realizzata all’estero, con una società controllata o controllante costituisce reddito imponibile, è posto a carico dell’Amministrazione Finanziaria.

Quindi, secondo il giudice di legittimità, risulta a carico dell’Agenzia delle Entrate l’onere di provare che la differenza tra il costo sostenuto per la pubblicità e il ricavo delle vendite fosse fittizio, costituendo in realtà un reddito realizzato all’estero e, come tale, da considerarsi fiscalmente prodotto in Italia.

L’inerenza dei costi consiste in un giudizio qualitativo

Il concetto d’inerenza dei costi è stato nel tempo riempito di significato e ulteriormente precisato dalla giurisprudenza di legittimità.

La Corte di Cassazione ha ribadito le linee interpretative di prassi sull’inerenza sottolineando che “affinchè un costo sostenuto dall’imprenditore sia fiscalmente deducibile dal reddito d’impresa non è necessario che esso sia stato sostenuto per ottenere una ben precisa e determinata componente attiva di quel reddito, ma è sufficiente che esso sia correlato in senso ampio all’impresa in quanto tale, e cioè sia stato sostenuto al fine di svolgere un’ attività potenzialmente idonea a produrre utili”(Cass. n. 16826, 30 luglio 2007; v. anche in tal senso Cass. n. 4901/2013, Cass. n. 24065/2011, Cass. n. 26851/09; Cass. n. 1465/09).

Il predetto principio d’inerenza è stato ridimensionato dal Supremo Consesso, in materia di IVA, che ha asserito “… consentendo al compratore di portare in detrazione l’imposta addebitatagli a titolo di rivalsa dal venditore quando si tratti di acquisto effettuato nell’esercizio dell’impresa, richiede, oltre la qualità dell’imprenditore acquirente, l’inerenza del bene acquistato all’attività imprenditoriale, intesa come strumentalità del bene stesso rispetto a detta specifica attività, e inoltre, non introducendo una deroga ai comuni criteri di onere della prova, lascia la dimostrazione di detta inerenza o strumentalità a carico dell’interessato” (Cass. 16697/2013; v. anche in tal senso Cass. n. 6548/2012; Cass. n. 2599/2014).

In tema di imposte sui redditi della società, la nozione d’inerenza che connota i costi deducibili, fondata sul richiamo all’art. 75, comma 5, D.P.R. n. 917 del 1986, esprime la riferibilità dei costi, sostenuti anche in via indiretta o potenziale o in proiezione futura, all’attività d’impresa propriamente detta, escludendo quelli che si collocano in una sfera estranea a tale attività, e secondo un consolidato orientamento giurisprudenziale (Cass.Sez.Trib., n.6972, 08 aprile 2015), la nozione d’inerenza implica quella di congruità, sicchè deve escludersi la deducibilità dei costi sproporzionati o eccessivi, in quanto non inerenti.

Per di più, il Supremo Consesso ha ribadito il principio di insindacabilità delle scelte imprenditoriali: “il sindacato di congruità dell’amministrazione finanziaria sui costi d’impresa … non può spingersi sino alla verifica oggettiva circa la necessità o quantomeno circa la opportunità di tali costi rispetto all’oggetto dell’attività” (Cassazione, n. 6320/2016). Invero, “l’ordinamento riconosce all’imprenditore la libertà di impostare la sua strategia d’impresa” (Cassazione, n. 6599/2002) e questo è “… libero di concludere buoni o cattivi affari, un affare apparentemente cattivo può divenire buono in un diverso contesto” (Cassazione, n. 6337/2002). Sul fatto che l’antieconomicità non possa essere assunta come parametro assoluto anche solo dal punto vista logico, è significativa la sintesi  effettuata dalla CTR Toscana (Sezione XXI, 30 gennaio 2012, n. 6), secondo la quale “l’antieconimicità dell’impresa non può di per sé costituire prova di evasione fiscale, ma, come giustamente affermato, valere solo quale indizio, avendosi diversamente che tutte le aziende dovrebbero guadagnare e nessuna fallire”.

Va tenuto conto anche del fatto che, negli anni più recenti, la Cassazione ha adottato una linea procedurale secondo cui è ammessa la contestazione di antieconomicità da parte dell’amministrazione finanziaria (sentenza n. 21869/2016), mentre grava sul contribuente l’onere di dimostrare la validità delle operazioni poste in essere ( vedi  Cass.n. 1544/2017; n. 19408/2015; n. 14068/2014; n. 28075/2009). È, però, evidente che questa dimostrazione, nel caso delle vendite sottocosto, è insita nella stessa natura delle operazioni, che hanno finalità (promozionali, di espansione o di fidelizzazione) di fatto già delineate dalla stessa legge che le regolamenta.

L’Amministrazione Finanziaria, pertanto, non ha titolo per sindacare, sic et simpliciter, e cioè senza dedurre elementi ulteriori rilevatori di una finalità estranea alla gestione aziendale, la scelta inversa della società di riassumere su di sé, al “puro costo”, gli oneri sostenuti dalla consociata nel suo interesse (Cass. n. 21405/2017).

Orbene, l’indeducibilità di un costo, sotto il profilo dell’eventuale antieconomicità, non può essere sostenuta dall’Amministrazione Finanziaria in termini di “opportunità”: sostenere o meno quel costo è valutazione riservata all’esclusivo giudizio dell’impresa.

Già nel 2010, con la sentenza n. 24957/2010, la Suprema Corte ha messo in risalto, che con riferimento alla disciplina dell’inerenza, ai fini impositivi rileva “… tendenzialmente il profilo della “qualità”del costo, piuttosto quello della “quantità”, proprio perché l’ordinamento riconosce all’imprenditore la libertà d’impostare la strategia d’impresa. Il costo è inerente se serve a produrre ricavi: una volta questa qualità del costo, risulta difficile dire in quale misura è deducibile o meno, a meno che non vi sia un’indicazione normativa specifica, che ponga un tetto alle spese: non sussistente allo stato attuale della legislazione …”.

La Suprema Corte, con due recentissime ordinanze (Cass. nn. 450/2018 e 3170/2018), ha proposto un importante cambiamento della lettura e, quindi, dell’applicazione pratica del noto principio d’inerenza delle spese, rispetto all’orientamento sinora prevalente e tradizionalmente applicato.

Come esposto innanzi, secondo l’orientamento interpretativo più consolidato nel tempo, il principio d’inerenza sarebbe sancito dall’art. 109, comma 5 TUIR, ai sensi del quale le spese e gli altri componenti negativi diversi dagli interessi passivi, dagli oneri fiscali e contributivi, sarebbero deducibili se e nella misura in cui si riferiscono ad attività o beni da cui derivano ricavi o altri proventi che concorrono a formare il reddito, o che non vi concorrono in quanto esclusi.

L’A.F. ha più volte ribadito che l’inerenza delle spese deve essere valutata con riguardo all’impresa nel suo complesso e, quindi, non strettamente riferita alla realizzazione dei ricavi.

Accanto a questa nozione d’inerenza, si è aggiunta anche quella quantitativa, molto vicina al principio di antieconomicità e, quindi, volta a ritenere una spesa inerente solo per una sua parte, in ragione di una sua congruità rispetto alla complessiva attività dell’impresa.

Ebbene, con le predette ordinanze, la giurisprudenza di legittimità ha completamente disatteso la tradizionale definizione del principio d’inerenza.

In primo luogo, la Cassazione, in tali ordinanze, rompe il collegamento tra principio d’inerenza e l’art. 109, comma 5 TUIR; precisamente, secondo la giurisprudenza di legittimità l’inerenza non avrebbe affatto un fondamento normativo  nella predetta disposizione del Tuir, che avrebbe solo la funzione di stabilire che, ove alla formazione dell’imponibile fiscale concorressero ricavi esenti, allora non sarebbe possibile dedurre oneri che derivano dalle attività o dai beni da cui originano tali proventi esenti. Pertanto, l’inerenza non discenderebbe da questa disposizione del Tuir, bensì dal principio costituzionale di capacità contributiva.

Il secondo principio affermato in tali ordinanze è che la valutazione dell’inerenza dei costi consiste sempre e solo in un giudizio “qualitativo” e deve essere abbandonato il concetto di inerenza “quantitativa” poiché non può essere mai tradotto in termini di congruità della spesa sostenuta.

In particolare, nell’ordinanza n. 450/2018, il Supremo Consesso sottolinea che “l’inerenza deve essere apprezzata attraverso un  giudizio qualitativo, scevro da riferimenti di utilità o di vantaggio, afferenti un giudizio quantitativo, e deve essere distinta dalla nozione di congruità del costo”.
Pertanto, l’eccesiva onerosità, secondo quanto affermato dalla Suprema Corte nell’ordinanza n. 450/2018, continua ad avere rilevanza per la contestazione dell’indeducibilità dei costi, ma solo come indizio di estraneità (appunto qualitativa) dell’impresa.

Inoltre, nell’ordinanza n. 3170/2018 la giurisprudenza di legittimità, con riferimento alla valutazione di congruità ed economicità della spesa, ha precisato che è riservato all’Amministrazione il potere di valutare le componenti attive e passive secondo “il normale valore di mercato”, che costituisce un principio generale deducibile dall’articolo 9 Tuir.

Tale principio è stato nuovamente ribadito dalla Suprema Corte con una recente pronuncia (Cass. n. 13882/2018), nella quale ha affermato che è sempre inerente e, come tale, deducibile dal reddito, il costo correlato all’attività effettivamente svolta, anche se in via indiretta, potenziale o futura, a prescindere dai maggiori ricavi che abbia consentito di far conseguire all’impresa o al lavoratore autonomo.

In altri termini, a parere della giurisprudenza di legittimità, la deducibilità di un costo dal reddito di lavoro autonomo e d’impresa deve essere apprezzata esclusivamente in termini qualitativi, a prescindere da utilità e vantaggi apportati, nonché dalla sua congruità; di converso, non sono deducibili i costi che si collocano in una sfera estranea all’esercizio d’impresa.

Per la Suprema Corte, infatti, il concetto d’inerenza è insito nella nozione stessa di reddito d’impresa, e non nell’articolo 109, comma 5, del Tuir che si riferisce al diverso principio dell’indeducibilità dei costi relativi ai ricavi esenti. Il concetto statuito dall’ordinanza allarga notevolmente il principio d’inerenza dei costi, ritenendo che per essere inerenti e deducibili essi non devono necessariamente portare utilità o vantaggi all’impresa, essendo sufficiente che siano correlati ad essa anche potenzialmente o in prospettiva futura.

È ipotizzabile, quindi, che la pronuncia in esame – insieme alla precedente ordinanza n. 450/2018 – sarà invocata da tutti i contribuenti che si sono visti disconoscere la deducibilità dei costi dichiarati

per asserita mancanza di correlazione con i ricavi conseguiti e dichiarati.

In tal senso, pertanto, sono da ritenersi inerenti, secondo un giudizio quantitativo e qualitativo che spetta al giudice di merito, “anche costi attinenti ad atti d’impresa che si collocano in un nesso di programmatica, futura o potenziale proiezione normale dell’attività stessa, senza correlazione necessaria con ricavi o redditi immediati”.

In un’altra recente pronuncia ( Cass.n.14579/2018), la Suprema Corte, aderendo all’orientamento del carattere qualitativo dell’inerenza dei costi, specifica che “…l’abbandono dei requisiti della vantaggiosità e della congruità del costo non vuol significare che essi siano del tutto esclusi dal giudizio di valore cui resta comunque sottoposta la spesa al fine del riconoscimento della sua inerenza e dei suoi presupposti per la sua deducibilità”.

Pertanto, le spese incongrue o svantaggiose conducono alla mala gestione dell’impresa e, nonostante i criteri dell’antieconomicità e dell’incongruità sono apparentemente estromessi dalla giurisprudenza di legittimità, rimangono “…indici rivelativi della mancanza d’inerenza, pur non identificandosi con essa”.

Di diverso avviso, rispetto alle predette pronunce, è la sentenza n. 15856, depositata il 15 giugno 2018, che afferma nuovamente, prendendo le distanze da quanto asserito dall’ordinanza n. 15856/2018, che un costo è “inerente nella misura in cui può dirsi congruo”, sicchè deve escludersi la deduzione di “costi sproporzionati o eccessivi”.

Quanto alla deducibilità dei costi, il Supremo Consesso, in predetta sentenza, ribadisce che non deve essere messa in discussione la convenienza della scelta economica discrezionalmente operata dall’impresa, ma “.. la coerenza economica di tale scelta, da riscontrare sulla base delle ragioni addotte e del supporto documentale offerti dal contribuente, avuto riguardo alle contestazioni dell’Agenzia delle Entrate, che quindi non possono liquidarsi sommariamente, perché “ipotetiche di carattere generale (…) non supportate da reali riscontri probatori”.

La natura qualitativa dell’inerenza, se non verrà ribaltata dalle Sezioni Unite, dovrebbe impedire d’ora in poi che il Fisco contesti, come frequentemente avveniva in passato, la deducibilità di compensi agli amministratori in quanto di ammontare troppo elevato rispetto al fatturato o alla dimensione aziendale. Una volta dimostrato che la qualifica di amministratore e il relativo compenso sono stati attribuiti con regolari delibere degli organi sociali, e che l’incarico viene svolto e rispetta le condizioni civilistiche, il costo assume l’inerenza (qualitativa) in quanto remunera una funzione necessaria per lo svolgimento dell’attività dell’impresa. L’eventuale non congruità del compenso (peraltro tassato sul percipiente), rispetto a parametri di “economicità” e a valori di mercato, non potrà comportare problemi di deducibilità, neppure parziale.

Il contratto di sponsorizzazione e l’inerenza dei costi

La qualificazione e la deducibilità fiscale dei costi di sponsorizzazione è tuttora una questione controversa che continua a formare oggetto di numerosi interventi della giurisprudenza di merito e di legittimità.

Prima di affrontare la questione dell’inerenza dei costi nel contratto di sponsorizzazione, giova inquadrare la natura di tale contratto.

Il contratto di sponsorizzazione è un contratto atipico, non specificatamente disciplinato dalla legge, che ricomprende tutte quelle tipologie  nelle quali un soggetto, detto “sponsee” (sponsorizzato), si obbliga, dietro corrispettivo, a consentire agli altri l’uso della propria immagine pubblica o del proprio nome, per promuovere un marchio o un prodotto specificamente marchiato, o anche tenere determinati comportamenti di testimonianza in favore del marchio o del prodotto oggetto di veicolazione commerciale.

Da ciò ne discende, secondo la Suprema Corte, che “… la pubblicizzazione del marchio e del prodotto si traducono innegabilmente in un potenziale vantaggio economico diretto per l’impresa sponsorizzante, potendone derivare, in conseguenza, un incremento della propria attività commerciale” (Cass. n. 6548, 27 aprile 2012).

Per tale motivo, i costi di sponsorizzazione possono essere deducibili, in quanto “un costo dal reddito d’impresa non postula che esso sia necessariamente sostenuto per ottenere una ben precisa e determinata componente attiva di quel reddito, essendo sufficiente che esso sia correlato in senso ampio all’impresa in quanto tale, ossia che tale costo sia stato sostenuto al fine di svolgere un’attività potenzialmente idonea a produrre utili” (Cass. n. 6548/2012; Cass. n. 16826/07).

A tal proposito, è opportuno menzionare nuovamente il citato art. 109, co. 5, D.P.R. n. 917/1986, il quale dispone: “le spese e gli altri componenti negativi (…) sono deducibili se e nella misura in cui si riferiscono ad attività o beni da cui derivano ricavi (…)”.

Ciò significa, come già anzidetto, che il concetto di inerenza dei costi va riferito non ai ricavi, ma all’oggetto dell’impresa e, quindi, la deducibilità di costi non è necessariamente collegata alla realizzazione di ricavi (Cass. n. 6194,16.3.2007; Cass. n. 1389,21.1.2011; Cass. n. 20054, 24.9.2014; Cass. n. 20055, 24.9.2014).

Orbene, come riconosciuto dalla stessa Corte, i costi di sponsorizzazione, traducendosi per lo sponsor in una forma di pubblicità consistente nella promozione del marchio e del prodotto, vanno considerati, di per sé, inerenti all’attività d’impresa senza che rilevi la non congruità tra la spesa ed i ricavi realizzati nell’anno di imposta, in quanto non occorre che vi sia un immediato riscontro, ma solo che tale costo sia proiettato ad utilità future (cfr. Cass. n. 27198, 22.12. 2014; Cass. n. 6548, 27.4.2012; Cass. n. 10319, 20.5.2015; Cass.n.5195, 16.3.2016).

Inoltre, giova mettere in evidenza che,  sebbene la valutazione di congruità dei costi e dei ricavi rientri nei poteri del Fisco, anche se non risultano irregolarità delle scritture o vizi degli atti giuridici, tale sindacato non può certo spingersi sino alla “verifica oggettiva circa la necessità, o quantomeno circa l’opportunità di tali costi rispetto all’oggetto dell’attività (…) perché il controllo attingerebbe altrimenti a valutazioni di strategia commerciale riservate all’imprenditore” (cfr. Cass. n. 10319, 20.5.2015).

Non bisogna tralasciare, di converso, che, in alcuni recenti arresti, il Supremo Consesso ha imposto una strettissima correlazione tra costi e specifico ricavo, con l’effetto di ammettere la deduzione dei costi di sponsorizzazione solo previa dimostrazione del requisito di inerenza applicato sia in base alla congruità dei costi rispetto ai ricavi o all’oggetto sociale, sia alle potenziali utilità per l’attività commerciale o al concreto vantaggio nell’ambito dello specifico contesto territoriale (cd. ritorno economico o aspettativa di ritorno commerciale) (Cass. 31.1.2013, n. 2349; Cass. 27.5.2015, n. 10913).

La giurisprudenza di legittimità, per quanto riguarda la distribuzione dell’onere probatorio tra contribuente e Fisco, ha precisato che il concetto di inerenza va distinto in:

  • inerenza cd. intrinseca, che riguarda quelle spese “strettamente necessarie o comunque fisiologicamente riconducibili” alla sfera imprenditoriale (costi per l’acquisto di materie prime, di macchinari o strumenti indispensabili per la produzione, ecc.), per le quali grava sul Fisco, che intende disconoscerle, fornire la prova della non inerenza;
  • inerenza cd. estrinseca, relativa a quelle spese non immediatamente decifrabili o di dubbio collegamento con l’attività dell’impresa (spese straordinarie, eccessive, apparentemente inutili o non necessarie), la cui prova grava sul contribuente (cfr. Cass. n. 6548, 27.4.2012). 

Il locatario può dedurre i costi sostenuti per la ristrutturazione o la manutenzione straordinaria dell’immobile (Cass. S. U. n. 11533, 11 maggio 2018).

Le Sezioni Unite della Suprema Corte, con la sentenza n. 11533/2018, hanno risolto il contrasto giurisprudenziale in merito alla problematica dell’inerenza, ai fini IVA e delle imposte sui redditi, delle spese sostenute dall’impresa per la ristrutturazione di un immobile detenuto in locazione.

Prima di dare contezza del principio ermeneutico elaborato dalle Sezioni Unite per dirimere il predetto contrasto, appare opportuno esporre le tesi contrastanti della giurisprudenza di legittimità su tale questione giuridica.

La Suprema Corte ha negato, in alcune pronunce, la deducibilità delle spese di ristrutturazione o manutenzione degli immobili locati in sede di determinazione del reddito d’impresa, per mancanza del requisito dell’inerenza perché il beneficiario ultimo delle opere sarebbe stato il locatore. In tal caso, difetterebbe il requisito dell’inerenza, intesa come correlazione tra costi sostenuti e l’effettivo esercizio dell’attività economica dell’imprenditore, che dovrebbe implicare che il bene, sul quale sono stati effettuati gli interventi migliorativi, sia normalmente destinato dal contribuente all’esercizio di un’attività potenzialmente idonea a produrre utili (Cass. nn. 13494/2015 e 6936/2011). In altre occasioni si era, invece, espressa in senso positivo perché gli immobili erano comunque strumentali in quanto destinati all’esercizio dell’attività d’impresa del locatario; tali costi erano deducibili, a condizione che vi fosse da parte del conduttore l’effettiva utilizzazione di essi, in funzione direttamente strumentale nell’esercizio dell’impresa, e che il locatore non operasse alcuna deduzione delle quote di ammortamento (Cassazione, nn. 8389/2013, 13327/2011 e 3544/2010).

Invece, il Supremo Consesso, ai fini IVA, aveva negato, in alcune decisioni, il diritto alla detrazione e, di conseguenza, al rimborso dell’Iva sulle spese per i lavori di ristrutturazione o manutenzione di immobili di proprietà di terzi, soprattutto con riguardo ai casi in cui a questi ultimi tale diritto non sarebbe spettato (Cass., nn. 5808 e 2939/2006 ).

In altre sentenze, di converso, la giurisprudenza di legittimità si era espressa in senso positivo, a condizione che vi fosse un nesso di strumentalità dell’immobile e, quindi, d’inerenza delle spese con l’attività d’impresa (o professionale), a nulla rilevando la disciplina civilistica in tema di locazione  e gli stessi accordi contrattuali intercorsi tra le parti (Cassazione, nn. 9327/2014, 3544/2010 e 10079/2009).

Le Sezioni Unite, con la predetta decisione (Cass.SU. n. 11533/2018) in merito alla detraibilità dell’Iva relativa alle spese di ristrutturazione o manutenzione straordinaria degli immobili di terzi, consentono di dare soluzione anche alla questione concernente la deducibilità dei relativi costi ai fini delle imposte sui redditi. La Suprema Corte ha affermato che va riconosciuto il diritto alla detrazione dell’Iva per lavori di ristrutturazione o manutenzione anche in ipotesi di immobili di proprietà di terzi, purché sia presente un nesso di strumentalità con l’attività d’impresa o professionale, anche se quest’ultima risulti soltanto potenziale o di prospettiva. E ciò anche se, per cause estranee al contribuente, tale attività non abbia poi potuto concretamente esercitarsi. La pronuncia della Corte riguarda l’Iva, ma la soluzione adottata è destinata, come anzidetto, ad esplicare effetto anche rispetto all’analoga questione della deducibilità per il conduttore degli stessi costi ai fini delle imposte sui redditi.

La questione Iva

La problematica oggetto del giudizio di legittimità ha riguardato l’inerenza delle spese di ristrutturazione degli immobili detenuti in locazione ai fini sia del diritto ad esercitare la detrazione dell’Iva (nel caso in cui l’attività d’impresa non avesse ancora avuto inizio), sia del rimborso della stessa imposta, riconosciuto dall’articolo 30, terzo comma, lettera c), del Dpr n. 633/1972, in presenza di costi ammortizzabili.

Il Supremo Consesso, dopo aver ricordato il contrasto interpretativo emerso nell’ambito della giurisprudenza di legittimità, ha  sottolineato che le sentenze “negative” erano fondate sul  fatto che il contratto di locazione fosse stato predisposto allo scopo di consentire alla conduttrice una detrazione di cui la proprietaria dell’immobile, in quanto “consumatrice finale”, non avrebbe avuto diritto, “al di là della giustificazione giuridica fornita, che con riguardo alla detrazione è stata anche quella del divieto previsto per i beni non ammortizzabili”. Tale tesi non è stata, però, condivisa, alla luce della giurisprudenza della Corte di Giustizia (sentenze C-672/16 del 2018, C-132/16 del 2017, C-124/12 del 2013 e C-29/08 del 2009) che, in base al principio di neutralità dell’imposta, ha riconosciuto il diritto alla detrazione dell’Iva “purché sia presente un nesso di strumentalità con l’attività d’impresa o professionale, anche se quest’ultima sia potenziale o di prospettiva. E ciò, pur se – per cause estranee al contribuente – la predetta attività non abbia poi potuto concretamente esercitarsi”.

Effetti sulle imposte sui redditi

Il locatario può dedurre, ai fini delle imposte sui redditi, i costi sostenuti per la ristrutturazione o la manutenzione straordinaria dell’immobile nel quale lo stesso svolge l’attività d’impresa, essendo gli stessi inerenti all’esercizio della stessa. A tale conclusione è possibile  giungere  sulla base della sentenza n. 11533/2018, nella quale viene fatto un breve cenno anche alle precedenti incertezze della giurisprudenza di legittimità, in riferimento alla “simmetrica questione della deduzione dei costi”. Come innanzi esposto, in alcune decisioni della Corte di Cassazione era stata negata la deducibilità dei costi in esame per difetto del requisito dell’inerenza, perché il locatore sarebbe risultato il beneficiario ultimo dei miglioramenti apportati all’immobile. Invece, in altre sentenze era stata sostenuta la tesi opposta, ritenendo che la deducibilità degli stessi costi non potesse essere subordinata al diritto di proprietà dell’immobile, essendo sufficiente che fossero sostenuti nell’esercizio dell’impresa, al fine del migliore svolgimento dell’attività imprenditoriale da parte del locatario. Quest’ultima soluzione ermeneutica è senz’altro condivisibile, anche perché, altrimenti, la deduzione degli stessi costi non spetterebbe né al conduttore né al locatore (in quanto non sostiene la spesa).

In conclusione, le Sezioni Unite hanno enucleato il seguente principio di diritto: “deve riconoscersi il diritto alla detrazione Iva per lavori di ristrutturazione o manutenzione anche in ipotesi di immobili di proprietà di terzi, purché sia presente un nesso di strumentalità con l’attività d’impresa o professionale”, pur se potenziale o di prospettiva e anche se “- per cause estranee al contribuente – la predetta attività non abbia poi potuto concretamente esercitarsi”. Tale questione non ha “nulla a che fare con fattispecie abusive o elusive”, implicando “un tipico accertamento di fatto”.

Avv. Villani Maurizio

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