Ordinanza di rimessione alla Corte Costituzionale da parte della Corte di Appello di Genova della normativa transitoria sui contratti a termine recentemente approvata dal parlamento

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Contratto a termine-norma transitoria-art.4bis d.lgs.368/2001
Corte di Appello di Genova Sezione lavoro
Ordinanza di rimessione alla Corte Costituzionale
del 29 settembre 2008
Pres. Meloni,Rel.Ravera;Ric. ESO Srl. ;Res. CHAL. Zitou
 
Questione di legittimità costituzionale del comma 1 bis dell’art.21 della legge 6 Agosto 2008 n.133,con cui, dopo l’articolo 4 del decreto legislativo 6 settembre 2001, n.368,è stato inserito l’art.4 bis,
per contrasto con gli artt. 3 e 117,co.1,Cost..
 
Il Tribunale di Genova, in prime cure, aveva dichiarato che il contratto di lavoro dedotto in giudizio doveva considerarsi convertito in contratto a tempo indeterminato.
La Società convenuta ha quindi proposto ricorso in appello contro la predetta sentenza.
L’appellato si costituiva in giudizio chiedendo il rigetto dell’appello e la conferma dell’impugnata sentenza previa disapplicazione dell’art. 21 comma 1 bis della legge n. 133/2008 (legge emanata in corso di causa ed introduttiva dell’art. 4 bis comma 1 nel D. Ivo n. 368/01) perché in violazione della Direttiva 1999/70/ CE (in particolare della clausola di non regresso) e modificativa, senza rispettarne l’iter procedurale, della normativa di recepimento della Direttiva comunitaria. Chiedeva comunque sollevarsi questione di illegittimità costituzionale dell’art. 21 comma 1 bis della legge n. 133/2008 per violazione di diversi parametri costituzionali (in particolare artt. 3 e 117 Costituzione).
La Corte non accoglieva l’istanza di disapplicazione proposta dall’appellato .Riteneva invece non manifestamente infondata la questione di illegittimità costituzionale dell’art. 21 comma 1 bis della legge n.133/2008.
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Con riguardo al merito, la Corte confermava l’orientamento della sentenza di 1^ grado in quanto il contratto per cui è causa < non specifica la ragione produttiva utile a giustificare l’apposizione del termine>.
Dovendo quindi- continuava la Corte- ritenersi il contratto a tempo determinato, per cui è causa, illegittimo per violazione del primo e secondo comma dell’art. 1 del D. Lgs. 6/9/2001 n. 368, l’apposizione del termine deve essere considerata priva di effetto ed il contratto dichiarato sin dall’inizio a tempo indeterminato.
Ma la conversione del contratto da tempo determinato a tempo indeterminato non sarebbe nel caso più praticabile-aggiunge ancora la Corte – per effetto dell’art. 21, co. 1 bis, della Legge 6/8/2008, n. 133 (“Conversione in legge, con modificazioni, del decreto-legge 25 giugno 2008, n. 112,recante disposizioni urgenti per lo sviluppo economico, la semplificazione, la competitività, la stabilizzazione della finanza pubblica e la perequazione tributaria”).
Sui vari punti di diritto della rimessione la Corte di appello di Genova così argomenta.
Sulla rilevanza della questione di legittimità
In base al tenore della riportata disposizione legislativa, tenuto conto che il presente giudizio era in corso alla data di entrata in vigore della medesima ed è tuttora pendente la Corte, una volta affermata la illegittimità del contratto a tempo determinato stipulato tra le parti <non potrebbe confermare l’impugnata sentenza nella parte in cui ha dichiarato che l’apposizione del termine è priva di effetto ed il contratto sin dall’inizio a tempo indeterminato -con conseguente diritto del ricorrente alla prosecuzione del rapporto di lavoro ed alla corresponsione delle retribuzioni dalla messa in mora- ma dovrebbe liquidargli un’indennità di importo compreso tra un minimo di 2,5 ed un massimo di 6 mensilità dell’ultima retribuzione globale di fatto.>
Sulla possibile disapplicazione della norma:
Ritiene  il Collegio che la citata disposizione, introdotta dalla legge nell’estate scorsa, non possa costituire oggetto di disapplicazione per un suo preteso contrasto con la normativa comunitaria sotto il duplice profilo di violazione della clausola di non regresso e della violazione delle regole procedurali della legge comunitaria, in quanto,
secondo l’interpretazione del giudice comunitario, con riferimento alla clausola c.d. “di non regresso”, si è affermato che una riforma peggiorativa “della protezione offerta ai lavoratori nel settore dei contratti a tempo determinato non è, in quanto tale, vietata dall’accordo quadro quando non è in alcun modo collegata con l’applicazione di questo”(Corte di Giustizia 22 novembre 2005, c 144/04, caso Mangold).
La clausola di non regresso può quindi essere invocata solo nell’ambito di ciò che viene disciplinato dalla Direttiva (interpretazione fatta propria anche dalla Corte Costituzionale nella sentenza 25.2.2008, n. 44).
Va allora precisato, secondo la Corte    che l’accordo quadro (recepito dalla Direttiva) non stabilisce un obbligo generale degli Stati membri di prevedere una eventuale trasformazione in contratti a tempo indeterminato dei contratti di lavoro a tempo determinato: il tema delle “conseguenze” non rientra quindi nell’area di operatività della Direttiva comunitaria invocata e quindi non pare possibile la richiesta disapplicazione della normativa interna>
Sulla non manifesta infondatezza   della questione di incosituzionalità:
·         per quanto riguarda il contrasto con l’art.3 Cost.:
La Corte   asserisce che il Legislatore ha introdotto una regolamentazione delle conseguenze scaturenti dalla illegittimità dell’apposizione del termine che si affianca a quella prevista dalla Direttiva, regolamentazione però che riguarda non tutti i contratti a termine stipulati ad una certa data ma solamente quelli per i quali è in corso un giudizio, indipendentemente dalla data in cui sono stati stipulati: per tutti i contratti per i quali non era pendente un giudizio alla data di entrata in vigore della legge, sia se stipulati prima che successivamente a tale data, le conseguenze continuano ad essere invece quelle derivanti dall’azione di annullamento parziale.
< Il Legislatore ha quindi ritenuto di disciplinare diversamente (nelle conseguenze) solo alcuni contratti a termine illegittimi ancorando la diversità delle conseguenze al fatto del tutto casuale che il lavoratore avesse o meno iniziato il giudizio>.
In questo caso non si tratta di un trattamento differenziato nel tempo,che sarebbe legittimo ma , chiarisce la Corte di Genova :< lavoratori nella stessa situazione di fatto, che hanno cioè stipulato un contratto a tempo determinato con clausola del termine illegittima, senza giustificazione alcuna, se non quella di avere o meno iniziato la causa ad una certa data, vengono ad avere diversa tutela dei propri diritti, con evidente violazione del principio di ragionevolezza. >.
In aggiunta alle predette osservazioni si afferma dalla predetta Magistratura che il discrimine temporale non sarebbe neppure idoneo a realizzare pienamente il fine che la norma introdotta dovrebbe conseguire: <se infatti scopo della disposizione è quello di sottrarre alle aziende i costi che derivano dalla illegittimità dei contratti a termine, allora non si comprende – da parte dell’Organo giudicante – il discrimine temporale che sottrae i soli contenziosi in essere e non tutto il potenziale contenzioso (cioè, ad esempio tutti i contratti stipulati ad una certa data).>.
E infine   la differenziazione di regime non   sarebbe finalizzata a realizzare interessi costituzionalmente rilevanti e non si fonderebbe neppure sulle dimensioni dell’impresa.
E la Corte così conclude.
< In sostanza, tra i lavoratori a tempo determinato ne viene enucleata una quota (quelli che avevano un giudizio pendente) che viene sottratta alla tutela ordinaria accordata a tutti gli altri lavoratori (che non avevano ancora iniziato la causa e che costituiscono il tertium comparationis nella valutazione della violazione del principio di eguaglianza), tutela ordinaria che il Legislatore aveva ben presente e che non ha inteso modificare, perché diversamente non avrebbe dettato l’art. 4 bis che espressamente è applicabile ai soli procedimenti in corso, ma avrebbe invece introdotto una disciplina stabile destinata a regolamentare la materia.>
·         per quanto riguarda il contrasto con l’art. 117 co.1 Cost. in relazione all’ art. 6 della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’Uomo e delle libertà fondamentali del 4/11/1950, resa esecutiva con L. 4 agosto 1955, n. 848.
La norma della Convenzione, ricorda la Corte di Appello, alla quale lo Stato Italiano deve conformarsi, nell’affermare che ogni persona ha diritto ad un giusto processo dinanzi ad un Tribunale indipendente ed imparziale, impone al potere legislativo di non intromettersi nell’amministrazione della giustizia allo scopo di influire sulla risoluzione di una controversia o di una determinata categoria di controversie in corso. In proposito la CEDU ha affermato che <il principio della preminenza del diritto e la nozione di equo processo consacrati dall’art. 6 CEDU si oppongono, salvo per imperiose esigenze di interesse generale, all’ingerenza del potere legislativo nell’amministrazione della giustizia con lo scopo d’influenzare la risoluzione giudiziaria di una causa> (§ 126 sentenza CEDU Grande Camera nella causa Scordino c. Italia, 29.3.2006): nel caso in esame vengono proprio mutati per factum principis i diritti sostanziali a tutela dei quali si è agito in giudizio, senza che ricorrano, a parere della Corte, quelle <imperiose ragioni d’interesse generale> richieste dalla CEDU come condizione per superare il divieto d’ingerenza.
 
Viceconte Massimo

Avv. Viceconte Massimo

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