Onora il padre e la madre

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UM DIÁLOGO ENTRE *********** E ************:

La Sesta Sezione Penale della Corte di Cassazione nella sentenza n. 12798 del 30.03.2010, ha respinto il ricorso di un ragazzo accusato di ripetuti maltrattamenti ai danni del padre, della madre, e della sorella.

A nulla sono servite le motivazioni addotte dalla difesa del ragazzo incentrate sul contesto familiare di “notevole conflittualità” in illo tempore, ridimensionando gli episodi  a meri “accesi ed animati litigi” e nel carattere reticente delle deposizioni rese in sede testimoniale dai suoi congiunti.

I giudici sono stati irremovibili nel respingere tali spiegazioni, valutando l’atteggiamento giustificativo delle vittime  come accettabile conseguenza dell’abbandono da parte del giovane della casa paterna.

Infatti per ciò che era oggetto di analisi la Corte ha affermato che il giovane, “nonostante la giovane età (che, comunque non era tale da impedirgli di compiere liberamente le sue scelte di vita) era consapevole della sofferenza arrecata ai propri congiunti sia con atti di violenza fisica sia con frequenti aggressioni verbali”.

Il nostro diritto penale prevede il reato di “Maltrattamenti in famiglia o verso fanciulli”, che è così definito dall’articolo 572 del codice penale: “Chiunque, (…) maltratta una persona della famiglia, o un minore degli anni 14, o una persona sottoposta alla sua autorità, o a lui affidata per ragioni di educazione, istruzione, cura, vigilanza o custodia, o per l’esercizio di una professione o di un’arte, è punito con la reclusione da uno a cinque anni”.

La pena è aggravata se dal fatto derivano lesioni personali o la morte.

Da una prima analisi scaturisce la deduzione che la definizione del reato nasce in un’altra epoca storica, ed è particolarmente orientata al maltrattamento come violenza fisica. La formulazione generica delle norme, però, è in molti casi da considerarsi un vantaggio, perché permette di adeguarle ai mutamenti sociali.

Proprio grazie alle migliaia di sentenze in merito, il concetto di “maltrattare una persona della famiglia” si è evoluto in maniera diversificata.

In primis ingloba il maltrattamento morale, psicologico, la vessazione, la causazione di sofferenze non fisiche.

Tali atteggiamenti integrano il reato quando sono protratti, abituali, costanti.

Quindi non si parla di fatti episodici, che potranno ricevere tutela da parte di altre norme, ma di un’abitudine familiare, di un clima, di uno stato costante di vessazione, di un disagio prolungato nel tempo.

Si parla dell’esistenza di un vero e proprio sistema di vita di relazione familiare abitualmente doloroso ed avvilente provocato proprio con intento persecutorio.

 

 

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Dottoressa in Scienze dell’educazione

Consulente dell’educazione familiare

Mediatrice Familiare

www.noproblemforyou.it

 

Corte di Cassazione Sez. Sesta Pen. – Sent. del 01.04.2010, n. 12798
Con la sentenza indicata in epigrafe la Corte di Appello di Ancona ha confermato la sentenza in data 12-3-2004, con la quale il GUP del Tribunale di Fermo ha dichiarato A. R. colpevole del delitto di maltrattamenti perpetrato, fino al (…), in danno del padre, della madre e della sorella, e lo ha condannato alla pena di mesi sei di reclusione, con i doppi benefici di legge.
Ricorre l’A., a mezzo del suo difensore, lamentando con un primo motivo la mancanza di motivazione in ordine alle specifiche deduzioni svolte con l’atto di appello, con cui si era evidenziato che il comportamento tenuto dall’imputato non valeva ad integrare il reato di cui all’art. 572 c.p.; e ciò sia perché, come sottolineato anche dal padre in sede di istruttoria dibattimentale, si era trattato sempre e soltanto di accesi e animati litigi familiari, maturati in un clima di notevole conflittualità tra padre e figlio, sia perché nell’evoluzione di tali problematici rapporti aveva avuto un ruolo essenziale la giovanissima età e l’immaturità psicologica del prevenuto.
Con un secondo motivo il ricorrente deduce la mancanza, contraddittorietà e manifesta illogicità della motivazione in ordine alla ritenuta sussistenza della volontà dell’A. di instaurare un clima di sopraffazione e vessazione nei confronti dei propri congiunti. Sostiene che la Corte di Appello ha basato il suo convincimento su una “reiterazione” delle liti che, in realtà, non vi è mai stata, senza compiere alcuna indagine circa l’effettiva volontà dell’imputato.

 

Diritto
Il ricorso è inammissibile.
La Corte di Appello non ha affatto ignorato le doglianze mosse dall’appellante con l’atto di gravame, ma ha dato atto, con argomentazioni prive di manifeste incongruenze logiche, del carattere reticente delle deposizioni rese in sede testimoniale dai congiunti del prevenuto, dovuto al comprensibile tentativo di ridimensionare la vicenda, una volta ritrovata la tranquillità familiare a seguito dello spontaneo allontanamento dell’A. dalla casa paterna. Essa, pertanto, ha ritenuto tali dichiarazioni inidonee a scalfire la prova del carattere abituale del comportamento vessatorio e violento serbato dall’odierno ricorrente nei confronti dei propri familiari, emergente con tutta evidenza dalle dichiarazioni a suo tempo rese da questi ultimi in occasione della proposizione della denuncia, nonché dai ripetuti interventi effettuati dai Carabinieri in conseguenza di violente liti familiari innescate dall’imputato.
La decisione impugnata risulta congruamente motivata anche in relazione all’elemento soggettivo del reato contestato, avendo la Corte di Appello accertato, con apprezzamento in fatto non censurabile in questa sede, che l’A. ha posto in essere i reiterati comportamenti violenti fisici e verbali con la volontà di vessare i propri familiari, facendoli vivere in uno stato di terrore. La motivazione resa al riguardo si integra e si salda con quella della sentenza di primo grado, con la quale il Tribunale, confutando l’assunto difensivo, ha ritenuto certo che l’imputato, nonostante la sua giovane età (che, comunque, non era tale da impedirgli di compiere liberamente le sue scelte di vita), era consapevole della duratura sofferenza arrecata ai propri congiunti sia con gli atti di violenza fisica che con le frequenti e immotivate aggressioni verbali ai quali li sottoponeva.
I giudici di merito, pertanto, hanno fornito adeguata giustificazione delle ragioni della ritenuta responsabilità del prevenuto, mediante un percorso argomentativo corretto sul piano logico e giuridico, a fronte del quale le doglianze mosse dal ricorrente, attraverso la formale denuncia di vizi di motivazione, tradiscono il reale intento di ottenere una rilettura degli atti ed una diversa valutazione delle risultanze processuali, esulanti dai poteri di cognizione riservati a questa Corte.
Alla declaratoria di inammissibilità del ricorso consegue, ai sensi dell’art. 616 c.p.p., la condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali e di una sanzione pecuniaria in favore della cassa delle ammende.

 

P.Q.M.
Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di euro 1.000,00 in favore della cassa delle ammende.
Depositata in Cancelleria il 01.04.2010

Corbi Mariagabriella

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