Obbligo di segretezza delle offerte_ è sufficiente per determinare una alterazione della par condicio e dei principi di imparzialità, trasparenza e buon andamento il fatto che dalla consultazione del bando di gara pubblicato on line, è emerso che nella sc

Lazzini Sonia 03/04/08
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Partendo dal presupposto che è irrilevante la circostanza che la pubblicazione su internet della normativa di gara sia avvenuta attraverso i servizi resi da un soggetto terzo, in quanto l’inserimento on line degli atti di gara è comunque avvenuto per conto dell’ente ed essendo più ragionevole ritenere che l’ente, come avviene nei normali rapporti di collaborazione, abbia messo a disposizione della società di Servizi on line. anche i file degli atti di gara, la Stazione Appaltante avrebbe dovuto o procedere ad escludere l’ATI, risultata poi aggiudicataria, o quanto meno accertare in via istruttoria in modo maggiormente approfondito, i rapporti tra le due Società, tenuto conto del fatto che una compariva come autore del file degli atti di gara con la conseguenza che la società partecipante (la cui Ati è risultata aggiudicataria) avrebbe potuto conoscere anzitempo, e con vantaggio rispetto agli altri concorrenti, gli elementi necessari per la formulazione dell’offerta_ Spetta al ricorrente la scelta tra il conseguimento degli effetti della tutela demolitorio-conformativa e la tutela risarcitoria, nel caso, in cui comunque il bene della vita controverso è ormai conseguibile solo in parte
 
Meritano di essere riportati i fatti discussi nella decisione numero 213 del 25 gennaio 2008 emessa dal Consiglio di Stato
 
 
Vediamo i fatti sottoposti al Supremo Giudice Amministrativo:
 
Con una prima censura è stato dedotto che dalla consultazione del bando di gara pubblicato on line, è emerso che nella schermata relativa alle “proprietà” dei file in questione appariva “autore” del testo la società DELTA, che verserebbe in una situazione di “intreccio tecnico ed amministrativo” con la società aggiudicataria BETA, con alterazione, quindi, della par condicio e dei principi di imparzialità, trasparenza e buon andamento.
 
La Commissione di gara avrebbe superato tali rilievi senza svolgere un’adeguata istruttoria, ma limitandosi ad affermare che non era stato conferito un incarico esterno per la redazione del bando e che non risulterebbe alcun collegamento tra la società DELTA con le società partecipanti all’ATI vincitrice della gara.
 
Prima di decidere, però, il Consiglio di Stato richiede le seguenti spiegazioni:
 
Gli elementi richiesti erano: a) il nominativo della persona fisica che ha predisposto gli elaborati di gara e i relativi files (con dichiarazione attestante tale circostanza resa da tale soggetto); b) le modalità di pubblicazione degli atti di gara on line; c) una spiegazione in ordine alle contestazioni mosse con riguardo alla “proprietà” dei file in questione; d) una dichiarazione del responsabile del procedimento attestante l’assenza di rapporti tra l’Ente e la società DELTA.
 
 
Il dubbio quindi è il seguente:
 
<La circostanza dedotta dalla società ricorrente è, infatti, del tutto anomala in una procedura di gara, dovendo essere attentamente verificato per quale motivo nella schermata autore dei file degli atti di gara appaia il nominativo di una società, di cui si deduce il collegamento con la vincitrice e che comunque nulla dovrebbe a che fare con la stazione appaltante>
 
 
Come cerca di giustificarsi la Stazione Appaltante?
 
Le spiegazioni, peraltro solo parziali, fornite dell’Ente in risposta alla richiesta istruttoria della Sezione non sono idonee a fornire una giustificazione del suddetto elemento.
Secondo tali spiegazioni, gli atti di gara sarebbero stati redatti personalmente dal responsabile del procedimento e successivamente la pubblicazione sarebbe stata affidata alla ditta Info s.r.l., cui gli atti sarebbero stati consegnati nella sola versione cartacea. La pubblicazione on line sarebbe quindi avvenuta per iniziativa della Info s.r.l., che avrebbe anche provveduto a formare il file.
 
Ma queste spiegazioni non convinco il giudice:
 
Si rileva innanzitutto come la risposta all’istruttoria sia stata solo parziale, non essendo stato allegato quanto richiesto al punto d) e non essendo a tal fine sufficiente la dichiarazione del responsabile unico del procedimento ing. Palmerio, che nel frattempo ha interrotto i rapporti con l’Ente.
 
Tale parziale risposta può essere valutata ai sensi dell’art. 116, comma 2, c.p.c. come elemento a carico dell’ente appellante.
 
Inoltre, è irrilevante il soggetto che ha provveduto alla pubblicazione su internet, in quanto l’inserimento on line degli atti di gara è comunque avvenuto per conto dell’ente, come dimostra la fattura del 31-5-2006, che include tra i servizi resi dalla Info s.r.l. all’ente l’inserimento dell’avviso sul sito internet “infopubblica”.
 
Le prestazioni indicate in tale fattura non sono idonee a dimostrare che la formazione del file sia avvenuta da parte della Info s.r.l., essendo più ragionevole ritenere che l’ente, come avviene nei normali rapporti di collaborazione, abbia messo a disposizione della Info s.r.l. anche i file degli atti di gara.
 
In base a tali elementi continua a mancare una spiegazione del nome “DELTA” nella schermata autore del file.
 
Peraltro, la Commissione non sembra aver approfondito tale elemento, ma si è limitata a negare l’esistenza di un rapporto di collegamento tra aggiudicataria ed DELTA.
 
La società ALFA aveva, invece, introdotto specifici elementi idonei a dimostrare l’esistenza di rapporti tra DELTA e BETA: entrambe le società, con sede in Campobasso, hanno come socio la Tecnosud s.r.l.; l’altro socio (nonché amministratore delegato e direttore tecnico) della BETA (Tucci) ha svolto rilevanti compiti tecnici nella DELTA; altro soggetto (Luciani) è stato, seppur in periodi diversi, ai vertici societari delle due s.r.l. (v. nota della società ALFA del 22-11-2005 e il prospetto riepilogativo all. 11, prodotto in primo grado con i relativi allegati, non smentiti dalle produzioni delle controparti).
 
Che cosa bisognava dunque fare da parte della Stazione Appaltante?
 
Non si trattava in questo caso di verificare ai fini della partecipazione alla gara un collegamento tra le due società, ma di accertare rapporti tra le stesse, tenuto conto del fatto che una compariva come autore del file degli atti di gara con la conseguenza che la società BETA avrebbe potuto conoscere anzitempo, e con vantaggio rispetto agli altri concorrenti, gli elementi necessari per la formulazione dell’offerta.
L’Ente appellante avrebbe dovuto o procedere ad escludere l’ATI, risultata poi aggiudicataria, o quanto meno accertare in via istruttoria in modo maggiormente approfondito le circostanze sopra indicate.
 
Ciò che non era consentito fare era ritenere legittima la partecipazione dell’ATI BETA, in presenza dei gravi elementi dedotti dalla società ALFA
 
 
Accertata quindi l’illegittimità dell’aggiudicazione, il Consiglio di Stato deve ora verificare la richiesta di risarcimento danni
 
Prima di tutto una precisazione (cambia il titolo della responsabilità):
 
. Passando appunto alla domanda risarcitoria, si rileva come a seguito dell’accertamento della fondatezza della pretesa della società ALFA ad essere l’aggiudicataria della gara sia venuto meno il presupposto su cui il Tar aveva fondato il parziale accoglimento della domanda a titolo di responsabilità precontrattuale (impossibilità di accertare che la ricorrente sarebbe risultata aggiudicataria della gara).
 
Quali sono gli oneri a carico del privato e quali sono invece le prove che gravano sulla pa?
 
 
secondo l’orientamento prevalente, al privato non è chiesto un particolare sforzo probatorio per dimostrare la colpa della p.a.: può invocare l’illegittimità del provvedimento quale presunzione (semplice) della colpa o anche allegare circostanze ulteriori, idonee a dimostrare che non si è trattato di un errore non scusabile. Spetterà a quel punto all’amministrazione dimostrare che si è trattato di un errore scusabile, configurabile in caso di contrasti giurisprudenziali sull’interpretazione di una norma, di formulazione incerta di norme da poco entrate in vigore, di rilevante complessità del fatto, di influenza determinante di comportamenti di altri soggetti, di illegittimità derivante da una successiva dichiarazione di incostituzionalità della norma applicata
 
 
attenzione: Il supremo Giudice Amministrativo lancia un’opzione alla ditta ricorrente
 
Tenuto conto che secondo la prevalente giurisprudenza la stipula del contratto non è di ostacolo al subentro del ricorrente in caso di annullamento dell’aggiudicazione e non essendo rilevante in questa sede approfondire la questione del tipo di vizio da cui è affetto il contratto, né quella di giurisdizione connessa, spetterà alla ricorrente ALFA scegliere se procedere al subentro nel contratto, qualora questo non sia stato ancora interamente eseguito, o se optare per il risarcimento del danno anche in relazione alla parte del contratto non eseguita.
 
 
Queste le considerazioni per lasciare la scelta all’impresa che si è vista illegittimamente negare l’appalto
 
 
< Infatti, mentre l’interesse originario della impresa è indirizzato all’esecuzione dell’appalto per il suo complessivo valore, quale identificato dal bando di gara, la prestazione del servizio per un periodo di limitata durata introduce, invece, condizioni nuove negli aspetti economici ed organizzativi, che l’impresa può valutare con la più ampia sfera di autonomia con riguardo sia al diverso impegno di mezzi ed attrezzature, sia al mutato livello di remunerazione che ne può conseguire in relazione all’offerta presentata in sede di gara.
Del resto, la possibilità di optare per il risarcimento per equivalente e di rifiutare l’esecuzione, ormai solo parziale, del giudicato deriva anche dall’applicazione del principio di carattere generale, desumibile dall’art. 1181 c.c., secondo cui il creditore può sempre rifiutare l’offerta di un adempimento parziale rispetto all’originaria configurazione del rapporto obbligatorio (ad un adempimento parziale è equiparabile la possibilità di consentire l’esecuzione solo parziale del contratto).
Deve, quindi, riconoscersi la possibilità per la ricorrente ALFA di optare per il solo risarcimento del danno, rinunciando ad avvalersi degli effetti conformativi del giudicato, non essendo l’esecuzione del giudicato più possibile in modo pieno.>
 
 
Alla fine, quale sarà il danno da riconoscere all’impresa ricorrente?
 
 
Sulla base di tali ponderazioni questi sono i criteri, in base ai quali, l’ente appellante dovrà effettuare, entro il termine di 30 giorni dalla comunicazione della presente decisione, la proposta di pagamento alla società ALFA a titolo risarcitorio:
a) nel caso in cui la società ALFA opti per il subentro nel contratto, dovrà essere corrisposta una somma pari al 10 % del valore della parte di contratto già eseguita, calcolata in base all’offerta presentata in sede di gara dalla ricorrente;
b) nel caso, invece, che la ricorrente scelga il solo risarcimento del danno, la suddetta percentuale del 10 % dovrà essere rapportata all’intero valore del contratto, come determinato alla luce dell’offerta presentata in sede di gara dalla stessa ricorrente.
 
Ma non solo
 
 
Tenuto conto del riconoscimento della percentuale “piena” del 10 %, l’importo dovrà ritenersi comprensivo di ogni voce di danno (compresa la lamentata mancata acquisizione dei requisiti di qualificazione e di valutazione invocabili in successive gare) e già attualizzato alla data di pubblicazione della sentenza e su tale importo dovranno essere riconosciuti gli interessi legali da tale data di pubblicazione fino all’effettivo soddisfo.
 
merita inoltre sapere:
 
Da quando decorrono i termini per impugnare un’aggiudicazione definitiva?
 
La conoscenza del provvedimento di aggiudicazione definitiva non può essere ricondotta alla data di pubblicazione dello stesso, sussistendo un onere per le stazioni appaltanti di portare gli esiti delle procedure di gara a conoscenza dei concorrenti per mezzo di apposite : essendo richiesta la comunicazione individuale dell’atto di aggiudicazione, il termine per l’impugnazione non può farsi decorrere dal giorno in cui sia scaduto il termine della pubblicazione.
 
 
Si legga anche:
 
L’ errore scusabile è  configurabile, in caso di contrasti giurisprudenziali sull’interpretazione di una norma, di formulazione incerta di norme da poco entrate in vigore, di rilevante complessità del fatto, di influenza determinante di comportamenti di altri soggetti, di illegittimità derivante da una successiva dichiarazione di incostituzionalità della norma applicata: si deve, peraltro, tenere presente che molte delle questioni rilevanti ai fini della scusabilità dell’errore sono questioni di interpretazione ed applicazione delle norme giuridiche, inerenti la difficoltà interpretativa che ha causato la violazione
 
Il Consiglio di Stato con la decisione numero 3981 del 23 giugno 2006 ci offre alcuni importanti spunti di riflessione in tema di responsabilità della pubblica amministrazione:
 
<le condivisibili esigenze di semplificazione probatoria possono essere parimenti soddisfatte restando all’interno dei più sicuri confini dello schema e della disciplina della responsabilità aquiliana, che rivelano una maggiore coerenza della struttura e delle regole di accertamento dell’illecito extracontrattuale con i caratteri oggettivi della lesione di interessi legittimi e con le connesse esigenze di tutela, utilizzando, per la verifica dell’elemento soggettivo, le presunzioni semplici di cui agli artt.2727 e 2729 c.c
 
Fermo restando l’inquadramento della maggior parte di fattispecie di responsabilità della p.a., tra cui quella in esame, all’interno della responsabilità extracontrattuale, non è comunque richiesto al privato danneggiato da un provvedimento amministrativo illegittimo un particolare sforzo probatorio, sotto il profilo dell’elemento soggettivo. Infatti, pur non essendo configurabile, in mancanza di una espressa previsione normativa, una generalizzata presunzione (relativa) di colpa dell’amministrazione per i danni conseguenti ad un atto illegittimo o comunque ad una violazione delle regole, possono invece operare regole di comune esperienza e la presunzione semplice, di cui all’art. 2727 c.c., desunta dalla singola fattispecie.
 
     Il privato danneggiato può, quindi, invocare l’illegittimità del provvedimento quale indice presuntivo della colpa o anche allegare circostanze ulteriori, idonee a dimostrare che si è trattato di un errore non scusabile.
 
     Spetterà a quel punto all’amministrazione dimostrare che si è trattato di un errore scusabile, configurabile, ad esempio, in caso di contrasti giurisprudenziali sull’interpretazione di una norma, di formulazione incerta di norme da poco entrate in vigore, di rilevante complessità del fatto, di influenza determinante di comportamenti di altri soggetti, di illegittimità derivante da una successiva dichiarazione di incostituzionalità della norma applicata>
 
Inoltre, andando al di fuori dei confini italiani e spaziando in europa, il Supremo giudice Amministrativo ci fa notare che:
 
<Inoltre, va considerato che la stessa Corte di Giustizia, pur non facendo riferimento alla nozione di colpa della p.a., utilizza, a fini risarcitori, il criterio della manifesta e grave violazione del diritto comunitario, sulla base degli stessi elementi, descritti in precedenza e utilizzati nel nostro ordinamento per la configurabilità dell’errore scusabile (Corte Giust. CE, 5 marzo 1996, C- 46 e 48/93, Brasserie du Pecheur, in cui, al punto 78, viene riconosciuto che alcuni degli elementi indicati per valutare se vi sia violazione manifesta e grave sono riconducibili alla nozione di colpa nell’ambito degli ordinamenti giuridici nazionali).>
 
 
Tratto da Consiglio di Stato con la decisione numero 1114 del 9 marzo 2007 :
 
 
< Deve, quindi, essere esaminata la domanda di risarcimento del danno, riproposta in appello.
 
     Con riguardo alla responsabilità della pubblica amministrazione per i danni causati dall’esercizio illegittimo dell’attività amministrativa, questa Sezione ha già aderito a quell’orientamento favorevole a restare all’interno dei più sicuri confini dello schema e della disciplina della responsabilità aquiliana, che rivelano una maggiore coerenza della struttura e delle regole di accertamento dell’illecito extracontrattuale con i caratteri oggettivi della lesione di interessi legittimi e con le connesse esigenze di tutela, (Cons. Stato, VI, 23 giugno 2006 n. 3981; 9 novembre 2006 n. 6607; IV, 6 luglio 2004 n. 5012; 10 agosto 2004 n. 5500).
 
     Sotto il profilo dell’elemento oggettivo dell’illecito, si rileva che la ricorrente ha dimostrato che, in assenza dell’illegittimità commessa dall’amministrazione, avrebbe ottenuto l’aggiudicazione dell’appalto, in quanto le uniche due A.T.I., che la precedevano in graduatoria, avrebbero dovuto essere escluse.
 
     Sussiste, dunque, il danno per non aver potuto eseguire i lavori e non aver tratto il relativo utile di impresa e tale danno si pone in rapporto di diretta causalità con la accertata illegittimità.
 
     3.2. Per quanto concerne, l’elemento soggettivo, sulla base dei richiamati precedenti giurisprudenziali, va ribadito che non è comunque richiesto al privato danneggiato da un provvedimento amministrativo illegittimo un particolare impegno probatorio per dimostrare la colpa della p.a… Infatti, pur non essendo configurabile, in mancanza di una espressa previsione normativa, una generalizzata presunzione (relativa) di colpa dell’amministrazione peri danni conseguenti ad un atto illegittimo o comunque ad una violazione delle regole, possono invece operare regole di comune esperienza e la presunzione semplice, di cui all’art. 2727 c.c., desunta dalla singola fattispecie.
 
     Il privato danneggiato può, quindi, invocare l’illegittimità del provvedimento quale indice presuntivo della colpa o anche allegare circostanze ulteriori, idonee a dimostrare che si è trattato di un errore non scusabile.
 
     Spetterà a quel punto all’amministrazione dimostrare che si è trattato di un errore scusabile, configurabile in caso di contrasti giurisprudenziali sull’interpretazione di una norma, di formulazione incerta di norme da poco entrate in vigore, di rilevante complessità del fatto, di influenza determinante di comportamenti di altri soggetti, di illegittimità derivante da una successiva dichiarazione di incostituzionalità della norma applicata.
 
     Si deve, peraltro, tenere presente che molte delle questioni rilevanti ai fini della scusabilità dell’errore sono questioni di interpretazione ed applicazione delle norme giuridiche, inerenti la difficoltà interpretativa che ha causato la violazione; in simili casi il profilo probatorio resta in larga parte assorbito dalla questio iuris, che il giudice risolve autonomamente con i propri strumenti di cognizione in base al principio iura novit curia.
 
     Spetta, quindi, al giudice valutare, in relazione ad ogni singola fattispecie, la configurabilità concreta della colpa, che spetta poi all’amministrazione superare; inoltre, in assenza di discrezionalità o in presenza di margini ridotti di essa, le presunzioni semplici di colpevolezza saranno più facilmente configurabili, mentre in presenza di ampi poteri discrezionali ed in assenza di specifici elementi presuntivi, sarà necessario uno sforzo probatorio ulteriore, gravante sul danneggiato, che potrà ad esempio allegare la mancata valutazione degli apporti resi nella fase partecipativa del procedimento o che avrebbe potuto rendere se la partecipazione non è stata consentita.
 
     Va, infine, precisato che alcun elemento contrario alla effettuata ricostruzione della nozione di colpa della p.a. può trarsi dalla giurisprudenza comunitaria.
 
     Con una recente sentenza la Corte di Giustizia ha sanzionato lo Stato del Portogallo per aver subordinato la condanna al risarcimento dei soggetti lesi in seguito alle violazioni del diritto comunitario che regolano la materia dei pubblici appalti alla allegazione della prova, da parte dei danneggiati, che gli atti illegittimi dello Stato o degli enti di diritto pubblico siano stati commessi colposamente o dolosamente (Corte Giust., 14 ottobre 2004, C-275/03).
 
     Tuttavia, tale decisione appare riferirsi all’onere della prova in relazione all’elemento soggettivo della responsabilità della p.a. e non alla esigenza di accertare la responsabilità, prescindendo dalla colpa dell’amministrazione.
 
     Come illustrato, nell’ordinamento italiano la possibilità per il privato danneggiato di utilizzare presunzioni pone sostanzialmente a carico della p.a. l’onere di dimostrare l’esistenza di un errore scusabile, senza alcuna lesione, quindi, dei principi comunitari.
 
     Inoltre, va considerato che la stessa Corte di Giustizia, pur non facendo riferimento alla nozione di colpa della p.a., utilizza, a fini risarcitori, il criterio della manifesta e grave violazione del diritto comunitario, sulla base degli stessi elementi, descritti in precedenza e utilizzati nel nostro ordinamento per la configurabilità dell’errore scusabile (Corte Giust. CE, 5 marzo 1996, C- 46 e 48/93, Brasserie du Pecheur, in cui, al punto 78, viene riconosciuto che alcuni degli elementi indicati per valutare se vi sia violazione manifesta e grave sono riconducibili alla nozione di colpa nell’ambito degli ordinamenti giuridici nazionali).
 
     Precisata la nozione di colpa della p.a., si tratta ora di applicare i suesposti principi alla fattispecie in esame.
 
     Nel caso di specie, l’amministrazione ha ammesso alla procedura due A.T.I., che non avevano i requisiti per partecipare, violando lo stesso bando da lei predisposto.
 
     Né può essere invocata la poca chiarezza della lex specialis, in quanto questa è stata appunto approvata dalla stessa amministrazione.
 
     Va, infine, evidenziato che non esclude la colpa la circostanza che il giudice di primo grado abbia dato ragione all’amministrazione con decisione ribaltata in appello, in quanto anche il Tar può incorrere in errore (come nel caso di specie, causa l’erronea applicazione dell’art. 28 del d.P.R. n. 34/00) e comunque non appare ragionevole dare rilevanza ad un fatto successivo a quello che ha generato l’illecito; aderendo a tale impostazione, la sussistenza della colpa sarebbe ravvisabile nelle sole ipotesi in cui il privato ottenga ragione in entrambi i gradi del giudizio, finendo il giudizio di primo grado ad essere quello decisivo.
 
     Si è trattato, quindi, di un evidente errore, che in alcun modo può essere ritenuto scusabile e ciò conduce a ritenere sussistente l’elemento della colpa dell’amministrazione appellata.
 
     3.3. Sotto il profilo della quantificazione del danno, la ricorrente ha indicato il criterio del 25 % dell’offerta presentata, quale mancato ammortamento delle spese generali di azienda (15 %) e mancato utile che l’impresa avrebbe tratto dall’aggiudicazione dell’appalto (10 %).
 
     Il criterio indicato non corrisponde a quello utilizzato dalla prevalente giurisprudenza (10 % dell’importo offerto dal ricorrente).
 
     Tuttavia, la giurisprudenza ha anche precisato che il danno derivante ad una impresa dal mancato affidamento di un appalto è quantificabile nella misura dell’utile non conseguito (10 %), solo se e in quanto l’impresa possa documentare di non aver potuto utilizzare mezzi e maestranze, lasciati disponibili, per l’espletamento di altri servizi, mentre quando tale dimostrazione non sia stata offerta (come nel caso di specie) è da ritenere che l’impresa possa avere ragionevolmente riutilizzato mezzi e manodopera per lo svolgimento di altri, analoghi servizi, così vedendo in parte ridotta la propria perdita di utilità, con conseguente riduzione in via equitativa del danno risarcibile, (Cons. Stato, V, 24 ottobre 2002 n. 5860; VI, 9 novembre 2006 n. 6607).
 
     In applicazione di detto principio, il danno risarcibile deve essere ridotto al 5 % dell’importo offerto e corrisponde ad euro 27.727,95 (5 % di euro 544.559,19).
 
     Tale somma deve intendersi già attualizzata e deve essere aumentata, in via equitativa, ad Euro 35.000,00 in considerazione dell’ulteriore danno, consistente nell’incidenza del mancato svolgimento del rapporto con la p.a. sui requisiti di qualificazione e di valutazione, invocabili in successive gare (cfr., sempre, Cons. Stato, VI, 9 novembre 2006 n. 6607); l’aumento è in questo caso particolarmente rilevante, in considerazione della specificità dei lavori in questione e della difficoltà di svolgere lavori dello stesso tipo ai fini della formazione di una pregressa esperienza dell’impresa.>
 
 
 
Tratto dalla decisione numero 5012 del 6 luglio 2004 emessa dal Consiglio di Stato :
 
<4.2- Giova premettere alcune considerazioni di sistema in merito all’accertamento del requisito dell’elemento soggettivo nella fattispecie di responsabilità dell’amministrazione per attività provvedimentale illegittima, dando conto, in particolare, del tormentato percorso evolutivo seguìto dalla giurisprudenza nell’individuazione dei caratteri della colpa dell’apparato pubblico.
4.3- Com’è noto, l’impostazione giurisprudenziale tradizionale (cfr. ex multis Cass. Civ., sez. III, 9 giugno 1995, n.6542), formatasi prima della sentenza delle Sezioni Unite n.500 del 22 luglio 1999, risolveva la questione ritenendo la colpa dell’amministrazione insita nell’esecuzione di un provvedimento amministrativo illegittimo.
Secondo tale ricostruzione, quindi, l’illegittimità dell’atto amministrativo portato ad esecuzione integrava, di per sé, gli estremi della colpevolezza postulata dall’art.2043 c.c. per la costituzione dell’obbligazione risarcitoria.
La nozione di culpa in re ipsa si fondava, in particolare, sul rilievo che la semplice adozione ed esecuzione di un provvedimento illegittimo da parte di un soggetto dotato di capacità istituzionale e di competenza funzionale ad operare nel settore di riferimento concretasse quella consapevole violazione di leggi, regolamenti o norme di condotta non scritte nella quale si risolve la colpa, secondo la definizione del suo contenuto essenziale fornita dall’art.43 c.p. 
La categoria concettuale della presunzione assoluta di colpa (chè di questo si tratta), concepita dalla giurisprudenza anche per semplificare l’accertamento dell’illecito e per favorire la tutela risarcitoria del privato danneggiato (altrimenti onerato di una prova complessa e priva di parametri certi), è parsa, comunque, incompatibile con i principi generali della natura personale della responsabilità civile e del carattere eccezionale di quella oggettiva, risolvendosi nell’ingiusta assegnazione all’amministrazione di un trattamento deteriore rispetto a quello degli altri soggetti di diritto.
4.4- Tali dubbi di coerenza sistematica della presunzione assoluta di colpa sono stati risolti dalla Suprema Corte (con la nota sentenza a Sezioni Unite n.500/99), mediante il superamento della teoria della culpa in re ipsa e la contestuale definizione di indici identificativi della colpa, indicati nell’ascrizione all’amministrazione, intesa come apparato, e non al funzionario agente, della “violazione delle regole di imparzialità, di correttezza e di buona amministrazione alle quali l’esercizio della funzione amministrativa deve ispirarsi e che…si pongono come limiti esterni alla discrezionalità”.
Va, tuttavia, fin da subito rilevato che la scarna descrizione degli elementi essenziali della colpa rinvenibile nel passaggio della motivazione della sentenza n.500/99 dedicato alla questione si rivela carente ed inidonea a fornire agli operatori paradigmi valutativi certi ed al sistema una catalogazione concettuale definita.
La Suprema Corte chiarisce, innanzitutto, che l’indagine riservata al giudice deve riferirsi alla pubblica amministrazione come apparato impersonale e non al funzionario che ha adottato l’atto illegittimo.
Tale prima indicazione, se vale a svincolare l’accertamento giudiziale dai canoni d’indagine utilizzati ordinariamente per la verifica della sussistenza della colpevolezza in capo alle persone fisiche, non serve, tuttavia, in positivo, ad orientare l’indagine verso un centro d’imputazione della responsabilità agevolmente individuabile e, soprattutto, non offre sicuri criteri di giudizio nel compimento della disamina contestualmente suggerita.
Le ragioni di tali difficoltà si risolvono, a ben vedere, sull’improprio riferimento dello stato psicologico di colpevolezza all’organizzazione dell’ente, anziché alla persona fisica legittimata ad esprimerne la volontà o ad esso legata da un vincolo di subordinazione (come accade per le ipotesi di responsabilità, diretta e indiretta, degli enti privati).
La colpa d’apparato sembra, quindi, coincidere con la verifica di una disfunzione della funzione amministrativa, determinata dalla disorganizzazione nella gestione del personale, dei mezzi e delle risorse degli uffici cui è imputabile l’adozione o l’esecuzione dell’atto illegittimo.
Sennonchè, se tale è il carattere essenziale della colpa d’apparato la stessa si rivela impropriamente introdotta nella struttura dell’illecito, sia perché l’eventuale disorganizzazione amministrativa e gestionale non è necessariamente causa dell’illegittimità dell’atto, sia perché la stessa risulta essenzialmente estranea al profilo psicologico dell’azione amministrativa immediatamente produttiva del danno e, quindi, al campo d’indagine riservato al giudice chiamato a pronunciarsi sulla pretesa risarcitoria.
Non solo, ma la descrizione (appena riferita) dei requisiti della colpa omette qualsiasi considerazione e valorizzazione di circostanze esimenti, con ciò precludendo, di fatto, proprio quella penetrante indagine della riferibilità soggettiva del danno alla colpevole azione amministrativa che si raccomanda contestualmente al giudice del risarcimento.  
4.5- Le ricostruzioni più recenti si sono, invece, basate, in antitesi all’indirizzo della Suprema Corte, sul rilievo critico che il criterio della “…violazione delle regole di imparzialità, di correttezza e di buona amministrazione alle quali l’esercizio della funzione amministrativa deve ispirarsi…” (indicato nella sentenza n.500/99) si risolve, se non attenuato da uno spazio di non colpevolezza (tuttavia non evidenziato dalla Cassazione), nella tautologica affermazione della coincidenza della colpa con l’illegittimità del provvedimento, con surrettizia reintroduzione della tesi che si è dichiarato di voler abbandonare.
4.6- In una delle prime e più importanti pronunce che si sono occupate della questione (Cons. St., sez. IV, 14 giugno 2001, n.3169) è stata condivisa la concezione oggettiva della colpa suggerita dalla Cassazione, che si basa cioè sull’apprezzamento dei vizi che inficiano il provvedimento, ma sono stati mutuati dalla giurisprudenza comunitaria diversi indici valutativi quali “…la gravità della violazione commessa dall’amministrazione, anche alla luce dell’ampiezza delle valutazioni discrezionali rimesse all’organo, dei precedenti della giurisprudenza, delle condizioni concrete e dell’apporto eventualmente dato dai privati nel procedimento”.
In applicazione di tali canoni di valutazione, il giudice deve, quindi, formulare il giudizio sulla colpevolezza dell’amministrazione, affermandola quando la violazione risulta grave e commessa in un contesto di circostanze di fatto e in un quadro di riferimenti normativi e giuridici tale da palesare la negligenza e l’imperizia dell’organo nell’assunzione del provvedimento viziato e, viceversa, negandola quando l’indagine presupposta conduce al riconoscimento di un errore scusabile (per la sussistenza di contrasti giurisprudenziali, per l’incertezza del quadro normativo di riferimento o per la complessità della situazione di fatto).
4.7- In una successiva pronuncia (Cons. St., sez. V, 6 agosto 2001, n.4239), sono stati ulteriormente chiariti i caratteri della responsabilità della pubblica amministrazione da attività provvedimentale ed, accedendo ad una ricostruzione dogmatica della stessa in termini di responsabilità da contatto sociale qualificato, si è precisato che, in analogia alle forme di accertamento giudiziale dell’illecito contrattuale o precontrattuale (e, in particolare, del criterio di imputazione del danno definito dall’art.1218 c.c.), la responsabilità dell’amministrazione per l’adozione di un atto illegittimo può presumersi, sotto il profilo dell’ascrivibilità del pregiudizio ad una condotta colposa dell’apparato.
In esito alla presupposta catalogazione concettuale della natura della responsabilità dell’amministrazione, svincolata dalla struttura e dalla disciplina dell’illecito aquiliano, è stato, quindi, ammesso il privato alla mera allegazione del danno patito e della sua riconducibilità eziologia all’adozione od all’esecuzione di un provvedimento viziato ed imposto all’amministrazione l’onere di dimostrare la propria incolpevolezza per mezzo della deduzione di elementi di fatto e di diritto idonei a documentare la ricorrenza di un errore scusabile e, quindi, a dimostrare l’assenza di colpa nel proprio operato.
Tale semplificazione probatoria viene, in particolare, giustificata e legittimata non tanto con il ricorso a presunzioni semplici, pure limitatamente invocabili nell’accertamento dell’elemento soggettivo, ma con una distribuzione dell’onere della prova che, sotto un profilo sostanziale, appare rispondere ad esigenze di garanzia e di favore per la posizione processuale del privato e, sotto un profilo di coerenza logico-sistematica dell’ordinamento processuale, si fonda su una lettura dell’illecito dell’amministrazione in termini analoghi a quelli propri dell’inadempimento di un’obbligazione contrattuale o dei doveri di correttezza ravvisabili nella fase delle trattative (e, quindi, tipici della responsabilità precontrattuale).
In tale ottica, viene superata l’equivalenza, precedentemente riconosciuta dalla stessa giurisprudenza amministrativa, colpa-violazione grave, ritenendosi, di contro, che quella enunciazione teorica si risolva in un’inammissibile limitazione della responsabilità dell’amministrazione ai soli casi di colpa grave (ma in difetto di una previsione positiva in tal senso) e che, quindi, anche la sussistenza di un vizio non macroscopico possa implicare responsabilità dell’amministrazione nella colpevole inosservanza dei pertinenti canoni d’azione.
Siffatta ricostruzione teorica è stata, poi, confermata sia dalla giurisprudenza amministrativa (Cons. St., sez. VI, 20 gennaio 2003, n.204), sia da quella ordinaria (Cass. Civ., sez. I, 10 gennaio 2003, n.157) che, in conformità alla riferita elaborazione concettuale, hanno condiviso l’assimilazione della responsabilità dell’amministrazione per attività provvedimentale (segnatamente per lesione degli interessi c.d. pretensivi) a quella contrattuale per violazione di diritti relativi, con le implicazioni già evidenziate in tema di accertamento della colpa.
4.8- Il Collegio dissente, tuttavia, dalla ricostruzione che ha fatto applicazione dei principi che presiedono alla responsabilità contrattuale per inadempimento al fine di giustificare l’affermazione della presunzione relativa di colpa e l’ascrizione all’amministrazione dell’onere di dimostrare la propria incolpevolezza e reputa, di contro, che le condivisibili esigenze di semplificazione probatoria sottese all’impostazione criticata possono essere parimenti soddisfatte restando all’interno dei più sicuri confini dello schema e della disciplina della responsabilità aquiliana, che rivelano una maggiore coerenza della struttura e delle regole di accertamento dell’illecito extracontrattuale con i caratteri oggettivi della lesione di interessi legittimi e con le connesse esigenze di tutela, ma utilizzando, per la verifica dell’elemento soggettivo, le presunzioni semplici di cui agli artt.2727 e 2729 c.c.
In tale ottica, il privato danneggiato, ancorchè onerato della dimostrazione della colpa dell’amministrazione, risulta agevolato dalla possibilità di offrire al giudice elementi indiziari – acquisibili, sia pure con i connotati normativamente previsti, con maggior facilità delle prove dirette – quali la gravità della violazione (qui valorizzata quale presunzione semplice di colpa e non come criterio di valutazione assoluto), il carattere vincolato dell’azione amministrativa giudicata, l’univocità della normativa di riferimento ed il proprio apporto partecipativo al procedimento.
Così che, acquisiti gli indici rivelatori della colpa, spetta poi all’amministrazione l’allegazione degli elementi (pure indiziari) ascrivibili allo schema dell’errore scusabile e, in definitiva, al giudice, così come, in sostanza, voluto dalla Cassazione con la sentenza n.500/99, apprezzarne e valutarne liberamente l’idoneità ad attestare o ad escludere la colpevolezza dell’amministrazione.
4.9- La rilevata semplificazione dell’onere probatorio (a carico e a discarico) appena descritta impone, quindi, di definire i caratteri che devono possedere gli elementi addotti a propria discolpa dalla pubblica amministrazione, a fronte della produzione degli indizi a suo carico, perché la situazione allegata integri gli estremi dell’errore scusabile e consenta, perciò, di escludere la colpa dell’apparato amministrativo.
Appare utile, al riguardo, riferirsi alla giurisprudenza comunitaria (Corte Giustizia C.E., 5 marzo 1996, cause riunite nn.46 e 48 del 1993; 23 maggio 1996, causa C5 del 1994) che, pur assegnando valenza pressoché decisiva alla gravità della violazione, indica, quali parametri valutativi di quel carattere, il grado di chiarezza e precisione della norma violata e la presenza di una giurisprudenza consolidata sulla questione esaminata e definita dall’amministrazione, nonché la novità di quest’ultima, riconoscendo così portata esimente all’errore di diritto, in analogia all’elaborazione della giurisprudenza penale in tema di buona fede nelle contravvenzioni.
Esclusa la correttezza di ogni riferimento, pure in astratto invocabile, al livello culturale ed alle condizioni psicologiche soggettive del funzionario che ha adottato l’atto, risulta, in proposito, accettabile il criterio della comprensibilità della portata precettiva della disposizione inosservata e della univocità e chiarezza della sua interpretazione, potendosi ammettere l’esenzione da colpa solo in presenza di un quadro normativo confuso e privo di chiarezza; restando, altrimenti, l’amministrazione soggetta all’inevitabile giudizio di colpevolezza nella violazione di un canone di condotta agevolmente percepibile nella sua portata vincolante.
Così come appaiono condivisibili i riferimenti, da più parti suggeriti, al criterio di imputazione soggettiva della responsabilità del professionista di cui all’art.2236 c.c. che, riconnettendo il grado di colpevolezza richiesto per la costituzione dell’obbligazione risarcitoria alla difficoltà dei problemi tecnici affrontati nell’esecuzione dell’opera, introduce un parametro di ascrizione del danno che tiene conto del grado di complessità delle questioni implicate dall’esecuzione della prestazione e che attenua la responsabilità del prestatore d’opera quando il livello di difficoltà risulti rilevante.
La medesima ratio sottesa alla richiamata disposizione civilistica può, infatti, ravvisarsi nelle fattispecie nelle quali la situazione di fatto esaminata dal funzionario comporta la risoluzione di problemi tecnici particolarmente rilevanti ed in cui, in definitiva, l’accertamento dei presupposti di fatto dell’azione amministrativa implica valutazioni scientifiche complesse o verifiche difficoltose della realtà fattuale.
A fronte, infatti, di una situazione connotata da apprezzabili profili di complessità, può, in particolare, ritenersi giustificata, in analogia con la disciplina della responsabilità del prestatore d’opera intellettuale, un’attenuazione di quella dell’amministrazione che la circoscriva alle sole ipotesi di colpa grave.
4.10- La ricostruzione appena esposta soddisfa, in particolare, al contempo, le esigenze di superare l’inaccettabile equazione illegittimità dell’atto-colpa dell’apparato pubblico, surrettiziamente reintrodotta con la sentenza n.500/99, di valorizzare gli aspetti obiettivi della condotta antigiuridica dell’amministrazione, di restituire coerenza sistematica alla regola di riparto dell’onere della prova da applicarsi nello schema di responsabilità in questione e, in definitiva, di agevolare le parti (rispettivamente interessate) nell’adempimento del dovere di dimostrare la colpa, in prima battuta, o la sua mancanza, negli estremi dell’esimente dell’errore scusabile.
4.11- Così definiti i caratteri costitutivi della colpa della pubblica amministrazione, risulta agevole rilevare, in ordine alla fattispecie in esame, che la predisposizione di una regola di gara che determina una disparità di trattamento tra i concorrenti, favorendo una delle imprese partecipanti, si rivela lesiva della regola di condotta più sicura ed evidente che deve osservare l’amministrazione nella gestione di una procedura competitiva: la parità di trattamento dei competitori.
A fronte della violazione del dovere di garantire la par condicio (definitivamente accertata con il capo della decisione appellata passato in giudicato), non risulta, di contro, apprezzabile alcun elemento, peraltro neanche allegato dall’amministrazione (oneratavi), riconducibile ad una delle situazioni, sopra descritte, che autorizzano la configurabilità dell’errore scusabile.
4.12- Va, quindi, confermata la correttezza della statuizione appellata, là dove ha riconosciuto gli estremi dell’elemento psicologico della condotta lesiva scrutinata, con conseguente reiezione anche del secondo motivo dell’appello incidentale.
5.-La reiezione dell’appello incidentale impone l’esame di quello principale.
5.1- Come già rilevato, la società ricorrente fonda la sua iniziativa sull’insoddisfazione dei contenuti della tutela risarcitoria accordatale dai primi giudici e sulla conseguente aspirazione ad ottenere, con l’accoglimento dell’appello, un risultato più favorevole.
A tal fine, prospetta due distinte tesi difensive: con la prima invoca l’accertamento incidentale della spettanza a sé dell’appalto, con conseguente rideterminazione della misura del pregiudizio risarcibile; con la seconda si duole dell’esiguità del quantum riconosciutole dai primi giudici, seppur nella forma della fissazione dei criteri di determinazione ai sensi dell’art.35 d. lgs. n.80/98.
5.2- Risulta indispensabile, anche qui, una preliminare ricognizione dei parametri di determinazione del danno connesso alla lesione di interessi pretensivi (con particolare riferimento a quelli emergenti nelle procedure di aggiudicazione degli appalti pubblici).
Si deve premettere, in via generale, che la tutela risarcitoria serve ad assicurare al danneggiato la restitutio in integrum del suo patrimonio e, quindi, a garantire l’eliminazione delle conseguenze pregiudizievoli dell’attività illecita ascritta al soggetto responsabile.
La riparazione delle conseguenze dannose viene garantita dall’ordinamento mediante due modelli di tutela, tra loro alternativi: quello del risarcimento per equivalente, che riconosce al danneggiato il diritto ad una somma di denaro equivalente al valore della lesione patrimoniale patita e quello della reintegrazione in forma specifica, che attribuisce al soggetto passivo la medesima utilità, giuridica od economica, sacrificata o danneggiata dalla condotta illecita.
5.3- L’analisi che segue viene circoscritta alla sola tecnica del risarcimento per equivalente, unicamente rilevante in quanto l’unica nella specie invocata dalla ricorrente (per come appresso evidenziato).
Tale modalità di riparazione si risolve, a ben vedere, in una forma di tutela per così dire surrogatoria, nel senso che garantisce, non l’utilità perduta o compromessa, ma, in sua sostituzione, una somma di denaro corrispondente al valore del bene della vita pregiudicato.
Il vero problema di tale forma di tutela coincide, allora, con la liquidazione del danno e cioè con la determinazione della misura dell’obbligazione pecuniaria dovuta in sostituzione del bene della vita ormai irrimediabilmente perduto o danneggiato.
Se tale opera di quantificazione risulta agevole nei casi, configurabili per lo più nelle attività illecite materiali, in cui il valore del bene leso è facilmente individuabile (si pensi ai danni subiti da un autoveicolo in un incidente stradale), non altrettanto può dirsi per le ipotesi, quali quelle interessate dall’attività provvedimentale lesiva, in cui la situazione soggettiva pregiudicata è connessa ad aspettative o interessi difficilmente apprezzabili nella loro consistenza economica.
Occorre, quindi, avvertire fin da ora che le maggiori difficoltà incontrate dal legislatore e dalla giurisprudenza nel definire i contorni della nuova forma di tutela introdotta nell’ordinamento con il riconoscimento della risarcibilità della lesione degli interessi legittimi sono riconducibili proprio alla catalogazione di criteri e parametri certi, funzionali alla determinazione della misura del pregiudizio risarcibile.
E’ vero, infatti, che, nell’impossibilità di dimostrare la misura esatta del danno, soccorre il metodo di liquidazione equitativa dettato dall’art.1226 c.c., certamente utilizzabile anche dal giudice amministrativo, ma, mentre nel sistema delineato dal codice civile l’ipotesi considerata viene contemplata come eccezionale, le pretese risarcitorie svolte contro la pubblica amministrazione (soprattutto per lesione di interessi legittimi) risultano endemicamente connotate da estrema difficoltà nella definizione del valore economico della posizione soggettiva lesa dall’atto illegittimo, sicchè compete per lo più alla giurisprudenza l’individuazione di canoni valutativi sufficientemente certi e satisfattivi delle esigenze di effettività della tutela postulate dalla nuova forma di protezione degli interessi legittimi.
Le difficoltà appena registrate risultano, in particolare, maggiormente avvertite nei casi di lesione di interessi pretensivi e procedimentali (nei quali la verifica della spettanza del bene della vita postula un’intermediazione amministrativa favorevole e risultano, quindi, difficilmente apprezzabili le effettive implicazioni economiche della violazione accertata), mentre si rivela più agevole la quantificazione del danno nei casi di lesione di interessi oppositivi (nei quali si tratta di determinare il valore del bene illegittimamente sacrificato).  
5.4- Così illustrati in astratto i confini problematici del tema della quantificazione del danno, occorre esaminare i riflessi processuali della dimostrazione e determinazione del pregiudizio risarcibile.
La comune ascrizione dell’illecito commesso dall’amministrazione nell’esercizio dell’attività provvedimentale allo schema della responsabilità extracontrattuale implica, innanzitutto, che incombe al ricorrente (presunto danneggiato) l’onere di dimostrare l’esistenza di un pregiudizio patrimoniale, la sua riconducibilità eziologia all’adozione del provvedimento illegittimo e la sua misura, come riconosciuto dall’indirizzo prevalente formatosi in seno alla giurisprudenza amministrativa (cfr. ex multis Cons. St., sez. V, 25 gennaio 2002, n.416, in cui si ribadisce che incombe al danneggiato la prova di tutti gli elementi costitutivi dell’illecito).
Ne consegue che il ricorrente non potrà limitarsi ad addurre l’illegittimità dell’atto, valendosi, ai fini della sua quantificazione, del principio dispositivo con metodo acquisitivo e, quindi, della sufficienza dell’allegazione di un principio di prova, ma dovrà compiere l’ulteriore sforzo probatorio di documentare il pregiudizio patrimoniale del quale chiede il ristoro nel suo esatto ammontare (pur con i limiti ontologici dell’assolvimento di tale onere).
In merito al contenuto della dimostrazione richiesta, va, peraltro, precisato che, poiché l’annullamento dell’atto illegittimo può determinare, da solo, l’integrale riparazione delle sue conseguenze lesive, compete al ricorrente provare che la rimozione del provvedimento non soddisfa, di per sé, l’interesse azionato e che residua un danno ulteriore nella sua sfera patrimoniale, non interamente reintegrato (in forma specifica) per effetto della caducazione dell’atto.
5.5- Come già rilevato, tuttavia, quando la lesione lamentata concerne interessi pretensivi o procedimentali la dimostrazione della misura del danno patrimoniale patito dal privato si rivela difficile, se non impossibile.
A fronte, infatti, del diniego di un’autorizzazione, della mancata aggiudicazione di un appalto o dell’omessa partecipazione al procedimento, risulta estremamente arduo definire l’esatto ammontare della perdita economica patita dall’interessato.
Appare utile, a tal riguardo, rammentare che il pregiudizio risarcibile si compone, secondo la definizione offerta dall’art.1223 c.c., del danno emergente e del lucro cessante: e cioè della diminuzione reale del patrimonio del privato, per effetto di esborsi connessi alla (inutile) partecipazione al procedimento, e della perdita di un’occasione di guadagno o, comunque, di un’utilità economica connessa all’adozione o all’esecuzione del provvedimento illegittimo.
Se per la prima voce di danno (quello emergente) non si pongono particolari problemi nell’assolvimento dell’onere della prova (è sufficiente documentare le spese sostenute), per la seconda (lucro cessante) si configurano, viceversa, rilevanti difficoltà.
Per avere accesso al risarcimento, infatti, il privato deve dimostrare, non solo che la sua sfera giuridica ha subito una diminuzione per effetto dell’atto illegittimo, ma che non si è accresciuta nella misura che avrebbe raggiunto se il provvedimento viziato non fosse stato adottato o eseguito. 
Come si vede, tale ultima dimostrazione presenta implicazioni di notevole complessità, attenendo a profili prognostici difficilmente apprezzabili nella loro effettiva consistenza ed attendibilità.
Soccorre, allora, l’applicazione di criteri presuntivi di determinazione del quantum, certamente invocabili dal privato in presenza della lesione di aspettative di ampliamento della sua sfera giuridica e patrimoniale.
Si tratta di presunzioni semplici che indicano, secondo la comune esperienza, parametri valutativi sufficientemente puntuali dell’entità della perdita economica patita dal privato per effetto dell’adozione dell’atto illegittimo ovvero della colpevole inerzia dell’amministrazione.
Perché sia ritualmente assolto l’onere della prova, è, tuttavia, necessario che il ricorrente danneggiato alleghi gli elementi di fatto e gli indizi sulla cui base possono individuarsi i parametri presuntivi di determinazione del danno.
L’esigenza di ricorrere a criteri presuntivi ed astratti di determinazione del danno è stata avvertita sia dalla giurisprudenza, che ha individuato un preciso canone indiziario (di seguito illustrato) per la determinazione del pregiudizio connesso alla perdita di un’occasione di successo in una procedura concorsuale, sia dallo stesso legislatore, laddove ha definito, con l’art.35 d. lgs. n.80/98, un peculiare metodo di liquidazione del danno fondato proprio sulla definizione giudiziale di parametri valutativi indeterminati o quando ha previsto, all’art.17, comma 1, lett. f), legge 15 marzo 1997, n.59, la definizione “di forme di indennizzo automatico e forfettario a favore dei soggetti richiedenti il provvedimento…per i casi di mancato rispetto del termine del procedimento o di mancata o ritardata adozione del provvedimento” stesso.
Merita, ancora, avvertire che non può valere ad esonerare dalla prova del danno la parte sulla quale incombe il relativo onere, il ricorso, anche su istanza del ricorrente, alla consulenza tecnica d’ufficio (pure, ormai, utilizzabile dal giudice amministrativo), posto che tale accertamento non si configura come un mezzo di prova in senso tecnico e può essere disposto solo al fine di acquisire apprezzamenti tecnici altrimenti non formulabili dal giudice, ma non può servire ad acquisire gli elementi che compongono il danno lamentato e, quindi, la sua dimostrazione (Cons. St., sez. IV, 14 giugno 2001, n.3169).
5.6- La più importante applicazione del ricorso a criteri presuntivi per la quantificazione del danno è rinvenibile nell’elaborazione giurisprudenziale in materia di valutazione del pregiudizio connesso a perdita di chance.
Si tratta dei casi in cui il ricorrente ha perso l’occasione di aggiudicarsi un appalto o di vincere un concorso per effetto dell’illegittima selezione di un altro concorrente o della propria indebita esclusione dal procedimento.
Si deve qui avvertire che, mentre non si pongono particolari problemi per la liquidazione del danno emergente (pari alle spese – documentate – sostenute per la partecipazione al procedimento), risulta più difficile la determinazione del lucro cessante.
A proposito di quest’ultima voce, occorre, anzitutto, chiarire che il suo contenuto cambia notevolmente se si accede alla qualificazione come precontrattuale della responsabilità dell’amministrazione per illegittima conduzione di una procedura ad evidenza pubblica.
Se si ravvisano, infatti, gli estremi della culpa in contraendo di cui agli artt.1337 e 1338 c.c., si deve, infatti, limitare l’area del pregiudizio risarcibile al solo interesse negativo: composto dalle spese sostenute per partecipare al procedimento ed alla perdita di occasioni di guadagno alternative, con esclusione, quindi, del mancato conseguimento dell’utile ricavato dall’esecuzione dell’appalto.
Se, invece, la violazione delle regole che presiedono alla corretta conduzione delle procedure ad evidenza pubblica viene ascritta allo schema astratto dell’illecito aquiliano, da valersi quale conclusione più plausibile della prima e maggiormente coerente con le pregnanti esigenze di tutela postulate dall’ordinamento comunitario in tema di competizioni concorrenziali per l’accesso agli appalti pubblici, si deve conseguentemente ritenere risarcibile anche l’interesse positivo e, cioè, nella voce relativa al lucro cessante, la perdita del guadagno (o della sua occasione) connesso all’esecuzione del contratto.
L’accesso a quest’ultima opzione, condivisa dalla Sezione, implica la necessità di provvedere alla determinazione di criteri valutativi astratti e presuntivi della misura del pregiudizio risarcibile, nella configurazione sopra tratteggiata.
La giurisprudenza amministrativa si è fatta carico di quest’onere ed ha individuato nell’art.345 della legge 20 marzo 1865, n.2248, Allegato F, un prezioso riferimento positivo, laddove quantifica nel 10% del valore dell’appalto l’importo da corrispondere all’appaltatore in caso di recesso facoltativo dell’amministrazione, nella determinazione forfettaria ed automatica del margine di guadagno presunto nell’esecuzione di appalti di lavori pubblici (cfr. ex multis Cons. St., sez. V, 8 luglio 2002, n.3796).
Ulteriore conferma positiva della validità di tale criterio presuntivo è stata, poi, rinvenuta nell’art.37 septies, comma 1, lett.c) della legge 11 febbraio 1994, n.109, laddove prevede, in materia di project financing, che, nelle ipotesi in cui la concessione sia risolta per inadempimento del concedente o revocata per motivi di interesse pubblico, al concessionario spetti un indennizzo, a titolo di risarcimento del mancato guadagno, pari al 10% delle opere ancora da eseguire.
Può, in definitiva, registrarsi il consolidamento di un indirizzo giurisprudenziale, ormai univoco e dal quale non si ravvisano ragioni per discostarsi, che, sulla base delle predette indicazioni normative, riconosce nella misura del 10% dell’importo a base d’asta, per come eventualmente ribassato dall’offerta dell’impresa interessata, l’entità del guadagno presuntivamente ritratto dall’esecuzione dell’appalto.
Occorre, tuttavia, ancora distinguere la fattispecie in cui il ricorrente riesce a dimostrare che, in mancanza dell’adozione del provvedimento illegittimo, avrebbe vinto la gara (ad esempio perché, se non fosse stato indebitamente escluso, sarebbe stata selezionata la sua offerta) dai casi in cui non è possibile acquisire alcuna certezza su quale sarebbe stato l’esito della procedura in mancanza della violazione riscontrata.
La dimostrazione della spettanza dell’appalto all’impresa danneggiata risulta ovviamente configurabile nei soli casi in cui il criterio di aggiudicazione si fonda su parametri vincolati e matematici (come, ad esempio, nel caso del massimo ribasso in un pubblico incanto in cui l’impresa vincitrice avrebbe dovuto essere esclusa), mentre si rivela impossibile là dove la selezione del contraente viene operata sulla base di un apprezzamento tecnico-discrezionale dell’offerta (come nel caso dell’offerta economicamente più vantaggiosa).
Nella prima ipotesi spetta, evidentemente, all’impresa danneggiata un risarcimento pari al 10% del valore dell’appalto (come eventualmente ribassato dalla sua offerta), ferma restando la possibilità di conseguire una somma superiore, in presenza della dimostrazione che il margine di utile sarebbe stato maggiore di quello presunto.
Viceversa, quando il ricorrente allega solo la perdita di una chance a sostegno della pretesa risarcitoria (e cioè quando non riesce a provare che l’aggiudicazione dell’appalto spettava proprio a lui, secondo le regole di gara), la somma commisurata all’utile d’impresa deve essere proporzionalmente ridotta in ragione delle concrete possibilità di vittoria risultanti dagli atti della procedura.
Al fine di operare tale decurtazione vanno valorizzati tutti gli indici significativi delle potenzialità di successo del ricorrente, quali, ad esempio, il numero di concorrenti, la configurazione della graduatoria eventualmente stilata ed il contenuto dell’offerta presentata dall’impresa danneggiata.
5.7- La verifica della fondatezza della pretesa risarcitoria in questione e la conseguente determinazione dell’entità del pregiudizio risarcibile devono essere, quindi, condotte in coerenza con i parametri valutativi sopra descritti.
5.8- Deve, anzitutto, rilevarsi che la domanda principale, fondata sui motivi rubricati ai numeri I, II, e III dell’atto d’appello ed intesa ad ottenere l’ordine che l’aggiudicazione “abbia luogo secondo i criteri corretti risultanti dalla sentenza” (tali i termini letterali con cui è stata formulata nelle conclusioni dell’atto d’appello), risulta inammissibile per difetto di interesse, atteso che l’effetto precettivo voluto dalla ricorrente risulta già prodotto dal giudicato demolitorio-conformativo del capo della decisione rimasto inappellato, sicchè, con riferimento alla relativa statuizione, risulta inconfigurabile qualsiasi ipotesi di riforma o di decisione sostituiva più favorevole per la società appellante.
Tale conclusione si fonda anche sul rilievo che la causa pretendi ed il petitum della domanda in esame, per come formulati nell’atto d’appello, non ne consentono una qualificazione come richiesta di condanna alla reintegrazione in forma specifica, difettando di tale peculiare strumento di tutela il carattere indefettibile del riconoscimento diretto e privo di ulteriore intermediazione provvedimentale del diritto al bene della vita asseritamente pregiudicato (nel caso di specie: l‘aggiudicazione dell’appalto). La stessa ricorrente domanda, a ben vedere, la statuizione che l’aggiudicazione venga disposta in conformità ai “criteri corretti risultanti dalla sentenza” e non anche la condanna dell’amministrazione all’assegnazione a sé dell’appalto, con la conseguenza che va esclusa la configurabilità, nella pretesa in questione, dei connotati propri della reintegrazione in forma specifica.     
5.9- In subordine, la ricorrente pretende, innanzitutto, un risarcimento pari all’intero utile che avrebbe ritratto dall’esecuzione dell’appalto e, in ulteriore subordine, la correzione dei criteri stabiliti in prima istanza ed il conseguente riconoscimento (almeno) della metà del mancato guadagno. 
Entrambe tali domande risultano infondate e vanno disattese.
5.10- Anche prescindendo dall’assorbente rilievo che la ricorrente non ha assolto l’onere di dimostrare l’inidoneità della rinnovazione degli atti di gara annullati a riparare (in forma specifica) il pregiudizio patrimoniale lamentato, è sufficiente rilevare, quanto alla prima delle domande, che l’invocato accertamento, seppur in via incidentale, della spettanza all’appellante del punteggio più elevato, per le caratteristiche tecniche degli automezzi offerti, e, quindi, dell’aggiudicazione dell’appalto risulta precluso proprio dal metodo di selezione nella specie previsto: l’offerta economicamente più vantaggiosa.
Quest’ultimo criterio di aggiudicazione, infatti, risulta fondato su apprezzamenti tecnico-discrezionali delle caratteristiche qualitative dell’offerta che non tollerano alcuna sostituzione da parte del giudice nel compimento delle pertinenti valutazioni riservate in via esclusiva all’amministrazione. 
Come sopra rilevato, infatti, la verifica della spettanza dell’aggiudicazione alla ricorrente è ammessa nelle sole ipotesi, diverse dalla presente, nelle quali la selezione del contraente avviene in applicazione di parametri rigidi e matematici, sicchè l’attività dell’amministrazione aggiudicatrice risulta vincolata e priva di ogni discrezionalità nella scelta dell’offerta.
5.11- Esclusa, così, la praticabilità (anche con lo strumento della c.t.u.) dell’invocata indagine sulla pretesa debenza alla ricorrente del punteggio più alto e, quindi, della stessa aggiudicazione, deve rilevarsi che anche le critiche rivolte alla presunta esiguità del risarcimento per perdita di chance riconosciuto in prima istanza (per come determinato e condizionato dai criteri valutativi dettati dai primi giudici) si rivelano destituite di fondamento.
Ribadito, infatti, che, nelle ipotesi in cui la ricorrente non può dimostrare che avrebbe vinto la gara, la misura presunta del lucro cessante (pari al 10% dell’importo del contratto) va decurtata in ragione degli indici sopra elencati e che la relativa determinazione giurisdizionale dei criteri sfugge a canoni valutativi rigidi (servendo solo ad orientare la successiva negoziazione delle parti, ma senza statuire, con valenza di giudicato, sulla misura dell’obbligazione risarcitoria), si rileva che la riduzione operata in prima istanza (si ripete: ai soli fini della successiva pattuizione del quantum) risulta immune da vizi di illogicità o di manifesta iniquità e si rivela, anzi, coerente con l’esigenza di circoscrivere l’entità del pregiudizio risarcibile (per perdita di chance), in ragione delle effettive e concrete possibilità di aggiudicazione dell’appalto.
Resta inteso che eventuali contestazioni sulla misura concreta dell’importo offerto dall’amministrazione e sulla sua conformità ai parametri stabiliti e, più in generale, sulla sua coerenza con le regole che presiedono alla corretta liquidazione del danno, e, in particolare, della voce del lucro cessante, dovranno essere svolte nella sede processuale propria, definita e prevista dall’art.35 d. lgs. n.80/98 mediante il richiamo della disciplina relativa al ricorso per esecuzione del giudicato.      
6.- Alle considerazioni che precedono conseguono, in definitiva, la reiezione dell’appello principale e la conferma del capo della decisione di primo grado con lo stesso impugnato.      >
 
 
A cura di Sonia LAzzini
 
 
 
Riportiamo qui di seguito la decisione numero 213 del 25 gennaio 2008 emessa dal Consiglio di Stato
 
 
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
N.213/08
Reg.Dec.
N. 5066 Reg.Ric.
ANNO   2007
Disp.vo 532/2007
Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale (Sezione Sesta) ha pronunciato la seguente
DECISIONE
sul ricorso in appello proposto dall’ENTE AMBITO N. 6 – CHIETINO, in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentato e difeso dall’Avv. Pierluigi Maria Tenaglia con domicilio eletto in Roma viale delle Milizie n. 106 presso l’Avv. Domenico Bellantoni;
contro
SOC. C. ALFA & ASSOCIATI SOCIETA’ DI INGEGNERIA P.A., in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentato e difeso dagli Avv.ti Daniele Vagnozzi e Giulio Cerceo con domicilio eletto in Roma via L. Bissolati, 76, presso l’Avv. Daniele Vagnozzi – Studio legale Villata e Associati;
e nei confronti
BETA S.R.L. IN PR. E N.Q. MANDATARIA CAPOGRUPPO A.T.I. con IMPRESE BETA BIS INGEGNERIA SRL e SIF S.R.L., in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentato e difeso dall’Avv. Antonio Boschetti con domicilio eletto in Roma via Albalonga n. 7, presso l’Avv. Clementino Palmiero;
per l’annullamento
Visto il ricorso con i relativi allegati e i ricorsi in appello incidentale;
Visto l’atto di costituzione in giudizio di SOC. C. ALFA & ASSOCIATI SOCIETA’ DI INGEGNERIA P.A., BETA S.R.L. IN PR. E N.Q. MANDATARIA CAPOGRUPPO A.T.I. con IMPRESE BETA BIS INGEGNERIA SRL e SIF S.R.L.;
Viste le memorie prodotte dalle parti a sostegno delle rispettive difese;
Visti gli atti tutti della causa;
Alla pubblica udienza del 20-11-2007 relatore il Consigliere Roberto Chieppa.
Uditi l’Avv. Tenaglia, l’Avv. Vagnozzi e l’Avv. Masini per delega dell’Avv. Boschetti;
Ritenuto e considerato in fatto e in diritto quanto segue:
F A T T O    E    D I R I T T O
1. Con bando di gara pubblicato sulla G.U.C.E. del 6 aprile 2005, l’Ente Ambito n. 6 – Chietino ha indetto un pubblico incanto per l’affidamento dei servizi inerenti la mappatura delle reti idriche, la ricerca ed il recupero delle perdite nei Comuni di Lanciano, Ortona, Vasto, Casoli e Casalbordino, da aggiudicarsi a favore dell’offerta economicamente più vantaggiosa ai sensi dell’art. 23, I comma, lettera b), del D.Lgs. 17 marzo 1995, n. 157, con i criteri specificati al punto 5 del Disciplinare di Gara.
Con determinazione del 19 aprile 2006, n. 21, il Responsabile dei servizi dell’Ente Ambito n. 6 – Chietino ha aggiudicato la gara in via definitiva all’a.t.i. costituita tra le società BETA s.r.l. (mandataria), BETA BIS Ingegneria s.r.l. e S.I.F. s.r.l. (punti 84,09), mentre la Società C. ALFA & Ass.ti Società di Ingegneria p.a. si è classificata al secondo posto della graduatoria (punti 80,50).
Con sentenza n. 373/2007 il Tar per l’Abruzzo, dopo aver respinto alcune eccezioni pregiudiziali, ha accolto il ricorso della società ALFA, ritenendo assorbente e fondato il motivo relativo alla carenza di motivazione in ordine all’attribuzione dei punteggi, ed ha accolto la domanda di risarcimento del danno, quantificato, a titolo di responsabilità precontrattuale, in Euro 35.000.
L’Ente Ambito n. 6 – Chietino ha impugnato tale decisione e si sono costituite in giudizio, proponendo entrambe ricorso in appello incidentale, la società BETA s.r.l., in proprio e quale mandataria dell’A.T.I. con BETA BIS Ingegneria s.r.l. e S.I.F. s.r.l. e la Società C. ALFA & Ass.ti Società di Ingegneria p.a..
Con ordinanza n. 4085/2007 questa Sezione ha respinto la domanda di sospensione dell’efficacia dell’impugnata sentenza ed ha disposto in via istruttoria l’acquisizione del fascicolo di primo grado e di una relazione dall’Ente appellante, comprensiva dei seguenti elementi: a) il nominativo della persona fisica che ha predisposto gli elaborati di gara e i relativi files (con dichiarazione attestante tale circostanza resa da tale soggetto); b) le modalità di pubblicazione degli atti di gara on line; c) una spiegazione in ordine alle contestazioni mosse con riguardo alla “proprietà” dei file in questione; d) una dichiarazione del responsabile del procedimento attestante l’assenza di rapporti tra l’Ente e la società DELTA.
Espletata l’istruttoria, alla odierna udienza la causa è stata trattenuta in decisione.
2. L’oggetto del presente giudizio è costituito dal contestato esito di una procedura di gara per l’affidamento di servizi inerenti la mappatura delle reti idriche e la ricerca ed il recupero delle perdite di tali reti.
La sentenza con cui il Tar ha accolto il ricorso della seconda classificata, condannando l’Ente al risarcimento del danno è stata contestata da tutte le tre parti del giudizio di primo grado.
Si tratta di tre appelli autonomi, i quali hanno assunto la sola forma dell’appello incidentale perché proposti dopo la notificazione dell’appello principale dell’Ente Ambito n. 6 – Chetino.
Deve, quindi, essere seguito un ordine logico per stabilire il criterio di priorità nell’esame delle censure.
3. Seguendo l’ordine logico, è prioritario l’esame del primo motivo proposto in appello dalla società ALFA, avente ad oggetto l’ordine seguito dal Tar nell’esaminare i motivi del ricorso di primo grado e l’erroneo assorbimento dei motivi ulteriori rispetto a quello accolto.
Da tale ordine di esame delle censure dipende, infatti, anche la rilevanza delle diverse censure di tardività del ricorso di primo grado e dei motivi aggiunti, sollevate dalle altre due parti appellanti.
Il motivo è fondato.
Il giudice di primo grado ha esaminato una sola censura proposta dalla società ALFA, relativa al difetto di motivazione nell’attribuzione dei punteggi, ritenendola fondata ed assorbendo gli altri motivi.
La società ALFA aveva proposto diverse altre censure, riguardanti la mancata esclusione della prima classificata ed aveva indicato tali censure in ricorso prima di quella accolta (IV motivo).
L’ordine del giudice di esaminare le censure non può prescindere dal principio dispositivo, che regola anche il processo amministrativo e comporta la necessità di esaminare prima quelle censure, da cui deriva un effetto pienamente satisfattivo della pretesa del ricorrente.
E’ evidente che in presenza di un motivo diretto ad escludere il primo classificato di una gara di appalto e di altro motivo tendente ad una rinnovazione (parziale o totale) delle operazioni di gara, solo l’accoglimento della prima censura soddisfa l’interesse della seconda classificata ad ottenere l’aggiudicazione dell’appalto.
Tali censure dovevano quindi essere esaminate per prime.
Peraltro, anche seguendo un diverso ordine, risulta errato il disposto assorbimento degli ulteriori motivi di ricorso; infatti, quale sia l’ordine di esame dei motivi, il giudice è tenuto a proseguire tale esame finché è certo che dall’accoglimento di un ulteriore motivo non deriva più alcuna utilità al ricorrente.
Non era proprio questo il caso, come dimostra il fatto che la domanda risarcitoria sia stata poi solo in parte accolta in quanto “avendo il vizio in parola travolto l’intera gara, non [può] ritenersi che la ricorrente sarebbe risultata di certo aggiudicataria della gara”.
Ma il mancato accertamento dell’aggiudicazione della gara in favore della ricorrente è dipeso proprio dall’omesso esame delle censure, con cui questa, seconda classificata, intendeva contestare la non avvenuta esclusione della prima in graduatoria.
La prassi del giudice amministrativo di assorbire alcuni motivi del ricorso, che già in precedenza poteva condurre a risultati errati, deve essere del tutto riconsiderata ora che è ammesso il risarcimento del danno derivante dall’esercizio illegittimo dell’attività amministrativa, in quanto, per assorbire un motivo, deve essere evidente che dall’eventuale accoglimento della censura assorbita non possa derivare alcun vantaggio al ricorrente, neanche sotto il profilo risarcitorio.
Va, infine, rilevato che il mancato esame delle prime censure non può essere escluso in quanto – come affermato dal Tar – “occorrerebbe svolgere un’ulteriore attività istruttoria”, in quanto in alcun modo difficoltà istruttorie o esigenze di economia processuale possono condurre ad una limitazione della tutela.
Avrebbe, quindi, dovuto il giudice di primo grado svolgere quell’attività istruttoria, che è stata poi disposta in questa sede di appello con la già richiamata ordinanza.
La fondatezza di tale motivo conduce ad esaminare in via prioritaria le censure attinenti alla mancata esclusione dell’aggiudicataria, con la conseguenza che il motivo del ricorso di primo grado relativo ai punteggi sarà esaminato, unitamente alle contestazioni delle appellanti sul punto, solo in caso di rilevanza all’esito delle statuizioni sulle precedenti censure.
4. In relazione a tali motivi è prioritario l’esame dei motivi di appello con cui l’Ente Ambito n. 6 e l’aggiudicataria hanno eccepito la tardività dell’impugnativa di primo grado.
L’eccezione di tardività è infondata in relazione alle censure relative all’omessa esclusione dell’aggiudicataria.
Tali censure sono state in parte proposte con il ricorso introduttivo di primo grado (questione della asserita predisposizione degli elaborati di gara da parte della società DELTA) ed in parte con i motivi aggiunti (assenza del requisito del fatturato e violazione dell’art. 6, comma 8 della legge n. 415/98 e mancata produzione di documenti entro il termine di 15 giorni).
Con riferimento al ricorso introduttivo, premesso che correttamente la contestazione è stata mossa avverso l’aggiudicazione e non avverso l’atto, ancora non lesivo, dell’ammissione dell’aggiudicataria alla procedura, è infondata l’eccezione secondo cui il ricorso sarebbe tardivo perché la notificazione si è perfezionata dopo il termine di sessanta giorni decorrente dalla pubblicazione dell’atto impugnato all’albo dell’ente.
Infatti, anche senza dover entrare nel merito della questione dell’effettiva data di perfezionamento della notificazione, è sufficiente rilevare che costituisce principio pacifico quello secondo cui la conoscenza del provvedimento di aggiudicazione definitiva non può essere ricondotta alla data di pubblicazione dello stesso, sussistendo un onere per le stazioni appaltanti di portare gli esiti delle procedure di gara a conoscenza dei concorrenti per mezzo di apposite comunicazioni (cfr., fra tutte, Cons. Stato, VI, n. 2445/2006; principio poi codificato dall’art. 11, comma 10, del D. Lgs. n. 163/2006).
Essendo richiesta la comunicazione individuale dell’atto di aggiudicazione, il termine per l’impugnazione non può farsi decorrere dal giorno in cui sia scaduto il termine della pubblicazione.
Nessun rilievo assumono, quindi, le argomentazioni dell’aggiudicataria relative alla dedotta mancata annotazione delle ragioni per cui non era andato a buon fine il primo tentativo di notificazione nei suoi confronti.
Alcuna prova dell’effettiva conoscenza del provvedimento impugnato in data antecedente di sessanta giorni a quella della notificazione è stata data dalle parti, che hanno eccepito la tardività del ricorso e ciò è sufficiente per respingere l’eccezione e il relativo motivo di appello proposto dalla controinteressata.
5. Entrambe le parti hanno invocato la tardività dei motivi aggiunti proposti dalla società ALFA in primo grado.
Anche questa eccezione è infondata, quanto meno con riferimento all’aspetto – che qui ora interessa – delle contestazioni mosse alla mancata esclusione dell’aggiudicataria.
Infatti, la presenza del rappresentante dell’impresa ALFA alla seduta della Commissione dell’11-11-2005 (verbale n. 8) e l’avvenuta lettura in tale sede del verbale n. 7 non hanno determinato alcuna conoscenza dei profili di censura, sopra sintetizzati e relativi all’omessa esclusione dell’ATI BETA.
Da tali verbali si ricavano elementi relativi all’attribuzione dei punteggi, ma non anche i suddetti ulteriori profili.
Né le controparti hanno dimostrato che la conoscenza di tali profili sia avvenuta prima dell’accesso agli atti di gara esercitato dalla società ALFA nel giugno del 2006.
6. Si può ora passare ad esaminare i motivi proposti dalla società ALFA e relativi all’omessa esclusione dell’ATI aggiudicataria.
Con una prima censura è stato dedotto che dalla consultazione del bando di gara pubblicato on line, è emerso che nella schermata relativa alle “proprietà” dei file in questione appariva “autore” del testo la società DELTA, che verserebbe in una situazione di “intreccio tecnico ed amministrativo” con la società aggiudicataria BETA, con alterazione, quindi, della par condicio e dei principi di imparzialità, trasparenza e buon andamento.
La Commissione di gara avrebbe superato tali rilievi senza svolgere un’adeguata istruttoria, ma limitandosi ad affermare che non era stato conferito un incarico esterno per la redazione del bando e che non risulterebbe alcun collegamento tra la società DELTA con le società partecipanti all’ATI vincitrice della gara.
Tale questione è stata oggetto di specifica richiesta istruttoria con la richiamata ordinanza della Sezione.
Gli elementi richiesti erano: a) il nominativo della persona fisica che ha predisposto gli elaborati di gara e i relativi files (con dichiarazione attestante tale circostanza resa da tale soggetto); b) le modalità di pubblicazione degli atti di gara on line; c) una spiegazione in ordine alle contestazioni mosse con riguardo alla “proprietà” dei file in questione; d) una dichiarazione del responsabile del procedimento attestante l’assenza di rapporti tra l’Ente e la società DELTA.
La circostanza dedotta dalla società ALFA è, infatti, del tutto anomala in una procedura di gara, dovendo essere attentamente verificato per quale motivo nella schermata autore dei file degli atti di gara appaia il nominativo di una società, di cui si deduce il collegamento con la vincitrice e che comunque nulla dovrebbe a che fare con la stazione appaltante.
Non è dubitabile che nel file degli atti di gara, pubblicato on line, dalla schermata proprietà emerge come autore del file “DELTA”.
Tale elemento non era stato posto in dubbio in sede di gara e la commissione – come detto – si era limitata a contestare il collegamento tra l’aggiudicataria e la società risultante come autore del file.
Solo nell’ultima memoria, la controinteressata avanza l’ipotesi che il file non avesse tale nome nella schermata proprietà, che è modificabile da chiunque; sennonché, tale giustificazione appare debole di fronte al fatto che già in sede di gara ben due concorrenti avevano rilevato tale elemento (v. verbale n. 8).
Le spiegazioni, peraltro solo parziali, fornite dell’Ente in risposta alla richiesta istruttoria della Sezione non sono idonee a fornire una giustificazione del suddetto elemento.
Secondo tali spiegazioni, gli atti di gara sarebbero stati redatti personalmente dal responsabile del procedimento e successivamente la pubblicazione sarebbe stata affidata alla ditta Info s.r.l., cui gli atti sarebbero stati consegnati nella sola versione cartacea. La pubblicazione on line sarebbe quindi avvenuta per iniziativa della Info s.r.l., che avrebbe anche provveduto a formare il file.
Si rileva innanzitutto come la risposta all’istruttoria sia stata solo parziale, non essendo stato allegato quanto richiesto al punto d) e non essendo a tal fine sufficiente la dichiarazione del responsabile unico del procedimento ing. Palmerio, che nel frattempo ha interrotto i rapporti con l’Ente.
Tale parziale risposta può essere valutata ai sensi dell’art. 116, comma 2, c.p.c. come elemento a carico dell’ente appellante.
Inoltre, è irrilevante il soggetto che ha provveduto alla pubblicazione su internet, in quanto l’inserimento on line degli atti di gara è comunque avvenuto per conto dell’ente, come dimostra la fattura del 31-5-2006, che include tra i servizi resi dalla Info s.r.l. all’ente l’inserimento dell’avviso sul sito internet “infopubblica”.
Le prestazioni indicate in tale fattura non sono idonee a dimostrare che la formazione del file sia avvenuta da parte della Info s.r.l., essendo più ragionevole ritenere che l’ente, come avviene nei normali rapporti di collaborazione, abbia messo a disposizione della Info s.r.l. anche i file degli atti di gara.
In base a tali elementi continua a mancare una spiegazione del nome “DELTA” nella schermata autore del file.
Peraltro, la Commissione non sembra aver approfondito tale elemento, ma si è limitata a negare l’esistenza di un rapporto di collegamento tra aggiudicataria ed DELTA.
La società ALFA aveva, invece, introdotto specifici elementi idonei a dimostrare l’esistenza di rapporti tra DELTA e BETA: entrambe le società, con sede in Campobasso, hanno come socio la Tecnosud s.r.l.; l’altro socio (nonché amministratore delegato e direttore tecnico) della BETA (Tucci) ha svolto rilevanti compiti tecnici nella DELTA; altro soggetto (Luciani) è stato, seppur in periodi diversi, ai vertici societari delle due s.r.l. (v. nota della società ALFA del 22-11-2005 e il prospetto riepilogativo all. 11, prodotto in primo grado con i relativi allegati, non smentiti dalle produzioni delle controparti).
Non si trattava in questo caso di verificare ai fini della partecipazione alla gara un collegamento tra le due società, ma di accertare rapporti tra le stesse, tenuto conto del fatto che una compariva come autore del file degli atti di gara con la conseguenza che la società BETA avrebbe potuto conoscere anzitempo, e con vantaggio rispetto agli altri concorrenti, gli elementi necessari per la formulazione dell’offerta.
L’Ente appellante avrebbe dovuto o procedere ad escludere l’ATI, risultata poi aggiudicataria, o quanto meno accertare in via istruttoria in modo maggiormente approfondito le circostanze sopra indicate.
Ciò che non era consentito fare era ritenere legittima la partecipazione dell’ATI BETA, in presenza dei gravi elementi dedotti dalla società ALFA.
Il motivo del ricorso in appello è, quindi, fondato.
7. Parimenti fondata è la censura, con cui la società ALFA ha dedotto la violazione dell’art. 3, lettere h) ed i) del disciplinare di gara, non possedendo l’ATI aggiudicataria i requisiti di fatturato, dichiarati attraverso l’illegittimo utilizzo dei requisiti di professionisti soci e direttori tecnici delle società. Ed ha anche dedotto la violazione dell’art. 6, comma 8, della L. 18 novembre 1998, n. 415 in considerazione della inapplicabilità della norma alla gara in questione.
Il bando di gara richiedeva una determinata soglia di fatturato globale negli ultimi cinque esercizi e di fatturato per prestazioni simili negli ultimi dieci esercizi.
Per raggiungere il fatturato minimo le società dell’ATI aggiudicataria si sono avvalse della disposizione dell’art. 6, comma 8, della L. 18 novembre 1998, n. 415, che prevede che “ai fini della partecipazione alla gara per gli affidamenti di cui all’art. 17 della legge n. 109, come modificato dal presente articolo, le società costituite dopo la data di entrata in vigore della presente legge, per un periodo di tre anni dalla loro costituzione, possono documentare il possesso dei requisiti economico-finanziari e tecnico-organizzativi richiesti dal bando di gara anche con riferimento ai requisiti dei soci delle società, qualora costituite nella forma di società di persone o di società cooperativa, e dei direttori tecnici o dei professionisti dipendenti della società con rapporto a tempo indeterminato e con qualifica di dirigente o con funzioni di collaborazione coordinata e continuativa, qualora costituite nella forma di società di capitali; per le società costituite fino a tre anni prima della data di entrata in vigore della presente legge detta facoltà è esercitabile per un periodo massimo di tre anni da tale data”.
Gli affidamenti di cui all’art. 17 della legge n. 109, cui si applica la disposizione, sono quelli inerenti le attività di progettazione, direzione dei lavori e accessorie (Cons. Stato, V, n. 1996/03), mentre nel caso in esame si è al di fuori di tale ambito, trattandosi di attività di rilevazione (servizio di mappatura e ricerca perdite); né l’applicabilità della norma deriva dalla lex specialis della procedura, che in alcun modo richiama tale disposizione.
A tale elemento, che già determina l’insussistenza del requisito in capo all’ATI aggiudicataria e la sua conseguente necessaria esclusione dalla gara, si aggiunge che comunque la norma non determina l’acquisizione in via permanente dei requisiti dei direttori tecnici, ma consente ciò solo nel limitato periodo di un triennio dalla data di costituzione delle nuove società, già decorso nel caso di specie per la società BETA BIS, costituita il 31-1-2001 in relazione al bando pubblicato il 6-4-2005 (in senso conforme, v. Cons. Stato, V, n. 3840/2007).
Tenuto conto che non è contestato che l’ATI aggiudicataria non possedeva i requisiti di fatturato senza considerare quello del direttore dei lavori, la stessa andava esclusa dalla gara per l’assenza del predetto requisito, oltre che per la questione dei rapporti con la DELTA, in relazione alla quale – come già detto – l’Ente avrebbe quanto meno dovuto procedere ad accertamenti istruttori.
8. L’accoglimento di tali motivi del ricorso della società ALFA conduce ad accertare la fondatezza della pretesa di tale impresa, seconda classificata, a risultare aggiudicataria in conseguenza dell’esclusione della prima in graduatoria.
Il pieno effetto satisfattivo dell’accoglimento dei due motivi rende superfluo esaminare le altre censure, che devono, quindi, essere assorbite, non potendo derivare dall’esame di queste alcuna ulteriore utilità alla ricorrente.
Resta, quindi, assorbita anche la questione della motivazione dei punteggi attribuiti in sede di gara, che non avrebbe dovuto essere esaminata dal Tar, se avesse proceduto all’esame delle censure nell’ordine corretto; si ricorda che la statuizione del Tar in ordine alla censura della motivazione del punteggio è da ritenersi caducata a seguito dell’accoglimento del primo motivo dell’appello incidentale della società ALFA.
Ciò determina anche l’improcedibilità degli ulteriori motivi proposti con il ricorso in appello dall’Ente ambito n. 6 (ad eccezione di quello relativo al risarcimento del danno trattato di seguito) e con il ricorso in appello incidentale dell’ATI BETA.
9. Passando appunto alla domanda risarcitoria, si rileva come a seguito dell’accertamento della fondatezza della pretesa della società ALFA ad essere l’aggiudicataria della gara sia venuto meno il presupposto su cui il Tar aveva fondato il parziale accoglimento della domanda a titolo di responsabilità precontrattuale (impossibilità di accertare che la ricorrente sarebbe risultata aggiudicataria della gara).
Ora tale prova è stata acquisita e si deve, quindi, esaminare la domanda risarcitoria per il danno derivante dalla mancata aggiudicazione della gara.
Tale danno si pone in rapporto di diretta causalità con illegittima mancata esclusione dell’ATI aggiudicataria e, anche sotto il profilo soggettivo, non può che rilevarsi la sussistenza della colpa dell’amministrazione appellante, con conseguente reiezione del relativo motivo di appello proposto dall’Ente Ambito n. 6.
Al riguardo, si ricorda che, secondo l’orientamento prevalente, al privato non è chiesto un particolare sforzo probatorio per dimostrare la colpa della p.a.: può invocare l’illegittimità del provvedimento quale presunzione (semplice) della colpa o anche allegare circostanze ulteriori, idonee a dimostrare che non si è trattato di un errore non scusabile. Spetterà a quel punto all’amministrazione dimostrare che si è trattato di un errore scusabile, configurabile in caso di contrasti giurisprudenziali sull’interpretazione di una norma, di formulazione incerta di norme da poco entrate in vigore, di rilevante complessità del fatto, di influenza determinante di comportamenti di altri soggetti, di illegittimità derivante da una successiva dichiarazione di incostituzionalità della norma applicata (Cons. St., sez. VI, 3 giugno 2006 n. 3981; 9 marzo 2007 n. 1114).
Nessuna di tali circostanze idonee ad integrare l’errore scusabile è presente nel caso di specie, dove anzi l’ente appellante si è reso responsabile quanto meno di una grave negligenza in sede di formazione degli atti di gara, oltre ad aver valutato in modo superficiale la sussistenza del requisito del fatturato in capo alla ATI aggiudicataria.
Con riferimento al rapporto tra l’azione risarcitoria e gli effetti conformativi dell’annullamento dell’aggiudicazione si rileva il contratto stipulato con l’aggiudicataria è stato (certamente almeno in parte) eseguito e che per la parte già eseguita non può che residuare la tutela risarcitoria, secondo i criteri che saranno di seguito indicati ai sensi dell’art. 35, comma 2, del D. Lgs. n. 80/1998.
La possibilità di indicare i criteri del risarcimento consente di prescindere dall’accertamento dell’esatto stato di esecuzione del contratto.
Tenuto conto che secondo la prevalente giurisprudenza la stipula del contratto non è di ostacolo al subentro del ricorrente in caso di annullamento dell’aggiudicazione (v., da ultimo, Cons. Stato, VI, n. 1523/2007 e Cass. Civ., I, n. 7481/2007) e non essendo rilevante in questa sede approfondire la questione del tipo di vizio da cui è affetto il contratto, né quella di giurisdizione connessa, spetterà alla ricorrente ALFA scegliere se procedere al subentro nel contratto, qualora questo non sia stato ancora interamente eseguito, o se optare per il risarcimento del danno anche in relazione alla parte del contratto non eseguita.
Infatti, questa Sezione ha già affermato che spetta al ricorrente la scelta tra il conseguimento degli effetti della tutela demolitorio-conformativa e la tutela risarcitoria, nel caso, che qui ricorre, in cui comunque il bene della vita controverso è ormai conseguibile solo in parte (Cons. Stato, VI, 10 novembre 2004, n. 7256).
Infatti, mentre l’interesse originario della impresa è indirizzato all’esecuzione dell’appalto per il suo complessivo valore, quale identificato dal bando di gara, la prestazione del servizio per un periodo di limitata durata introduce, invece, condizioni nuove negli aspetti economici ed organizzativi, che l’impresa può valutare con la più ampia sfera di autonomia con riguardo sia al diverso impegno di mezzi ed attrezzature, sia al mutato livello di remunerazione che ne può conseguire in relazione all’offerta presentata in sede di gara.
Del resto, la possibilità di optare per il risarcimento per equivalente e di rifiutare l’esecuzione, ormai solo parziale, del giudicato deriva anche dall’applicazione del principio di carattere generale, desumibile dall’art. 1181 c.c., secondo cui il creditore può sempre rifiutare l’offerta di un adempimento parziale rispetto all’originaria configurazione del rapporto obbligatorio (ad un adempimento parziale è equiparabile la possibilità di consentire l’esecuzione solo parziale del contratto).
Deve, quindi, riconoscersi la possibilità per la ricorrente ALFA di optare per il solo risarcimento del danno, rinunciando ad avvalersi degli effetti conformativi del giudicato, non essendo l’esecuzione del giudicato più possibile in modo pieno.
Sulla base di tali ponderazioni questi sono i criteri, in base ai quali, l’ente appellante dovrà effettuare, entro il termine di 30 giorni dalla comunicazione della presente decisione, la proposta di pagamento alla società ALFA a titolo risarcitorio:
a) nel caso in cui la società ALFA opti per il subentro nel contratto, dovrà essere corrisposta una somma pari al 10 % del valore della parte di contratto già eseguita, calcolata in base all’offerta presentata in sede di gara dalla ricorrente;
b) nel caso, invece, che la ricorrente scelga il solo risarcimento del danno, la suddetta percentuale del 10 % dovrà essere rapportata all’intero valore del contratto, come determinato alla luce dell’offerta presentata in sede di gara dalla stessa ricorrente.
La percentuale del 10 % si giustifica quale utile presuntivo dell’utile economico che sarebbe derivato all’impresa dall’esecuzione dell’appalto (Cons. Stato, IV, 6 luglio 2004 n. 5012), non ricorrendo, in considerazione della peculiarità della fattispecie, i presupposti che hanno condotto questa Sezione in altre occasioni a ridurre tale percentuale (Cons. Stato, sez. VI, 9 novembre 2006 n. 6607).
Tenuto conto del riconoscimento della percentuale “piena” del 10 %, l’importo dovrà ritenersi comprensivo di ogni voce di danno (compresa la lamentata mancata acquisizione dei requisiti di qualificazione e di valutazione invocabili in successive gare) e già attualizzato alla data di pubblicazione della sentenza e su tale importo dovranno essere riconosciuti gli interessi legali da tale data di pubblicazione fino all’effettivo soddisfo.
In conclusione, l’appello incidentale proposto dalla società ALFA deve essere accolto nei sensi indicati in precedenza e deve essere confermato l’annullamento degli atti impugnati, seppur per diversi motivi rispetto a quelli accolti dal Tar.
Sempre in riforma dell’impugnata sentenza, l’ente appellante deve essere condannato al risarcimento del danno in favore della società ALFA secondo i sopra menzionati criteri ai sensi dell’art. 35, comma 2, del D. Lgs. n. 80/1998.
Devono, invece, essere in parte respinti e in parte dichiarati improcedibile i ricorsi in appello proposti dall’Ente Ambito n. 6 Chietino e dalla BETA s.r.l., in proprio e n.q. di mandataria dell’ATI aggiudicataria.
Alla soccombenza dell’Ente appellante e della controinteressata seguono le spese del presente grado di giudizio nella misura indicata in dispositivo (euro 7.000, oltre IVA e C.P., che ciascuna parte dovrà corrispondere alla società ALFA, in aggiunta a quanto statuito dal giudice di primo grado sulle spese giudiziali).
P. Q. M.
Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale, Sezione Sesta, in parte respinge e in parte dichiara improcedibile il ricorso in appello principale proposto dall’Ente Ambito n. 6 Chietino e il ricorso in appello incidentale proposto dalla BETA s.r.l., in proprio e n.q. di mandataria dell’ATI;
Accoglie il ricorso in appello incidentale proposto dalla società ALFA e, per l’effetto, in parziale riforma della sentenza impugnata, conferma con diversa motivazione l’annullamento degli atti impugnati e condanna l’Ente ambito n. 6 Chietino al risarcimento del danno in favore della società ALFA nei termini di cui in parte motiva.
Condanna l’appellante principale e l’appellante incidentale BETA al pagamento, in favore della società ALFA, delle spese di giudizio, liquidate in Euro 7.000,00 oltre IVA e CP, a carico di ciascuna parte.
Ordina che la presente decisione sia eseguita dall’Autorità amministrativa.
Così deciso in Roma, il 20-11-2007 dal Consiglio di Stato in sede giurisdizionale – Sez.VI -, riunito in Camera di Consiglio, con l’intervento dei Signori:
Giovanni Ruoppolo                                                   Presidente
Carmine Volpe                                                          Consigliere
Paolo Buonvino                                                         Consigliere
Luciano Barra Caracciolo                                          Consigliere
Roberto Chieppa                                                       Consigliere Est.
 
Presidente
GIOVANNI RUOPPOLO
Consigliere                                                                           Segretario
ROBERTO CHIEPPA                                           GIOVANNI CECI
 
 
DEPOSITATA IN SEGRETERIA
Il 25/01/2008
(Art. 55, L.27/4/1982, n.186)
Il Direttore della Sezione
MARIA RITA OLIVA
 
 
DEPOSITATA IN SEGRETERIA
 
il……………………………….
(Art. 55, L.27/4/1982, n.186)
Il Direttore della Sezione
 
 
 
CONSIGLIO DI STATO
In Sede Giurisdizionale (Sezione Sesta)
 
Addì……………………………..copia conforme alla presente è stata trasmessa
 
al Ministero………………………………………………………………………………….
 
a norma dell’art. 87 del Regolamento di Procedura 17 agosto 1907 n.642
 
                                                                                              Il Direttore della Segreteria
 

Lazzini Sonia

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