Note minime sull’obbligo di didattica frontale per i professori universitari introdotto dalla l. 4.11.2005, n. 230*.

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La legge 4 novembre 2005, n. 230, intitolata “Nuove disposizioni concernenti i professori e i ricercatori universitari e delega al Governo per il riordino del reclutamento dei professori universitari”, tra le molte e discusse novità, prescrive che «Resta fermo, secondo l’attuale struttura retributiva, il trattamento economico dei professori universitari articolato secondo il regime prescelto a tempo pieno ovvero a tempo definito. Tale trattamento è correlato all’espletamento delle attività scientifiche e all’impegno per le altre attività, fissato per il rapporto a tempo pieno in non meno di 350 ore annue di didattica, di cui 120 di didattica frontale, e per il rapporto a tempo definito in non meno di 250 ore annue di didattica, di cui 80 di didattica frontale. Le ore di didattica frontale possono variare sulla base dell’organizzazione didattica e della specificità e della diversità dei settori scientifico-disciplinari e del rapporto docenti-studenti, sulla base di parametri definiti con decreto del Ministro dell’istruzione, dell’università e della ricerca…» (art. 1, comma 16).
Secondo talune opinioni, l’ambito di applicazione di questa prescrizione potrebbe essere inciso dal successivo comma 19, del medesimo art. 1, a mente del quale «I professori, i ricercatori universitari e gli assistenti ordinari del ruolo ad esaurimento in servizio alla data di entrata in vigore della presente legge conservano lo stato giuridico e il trattamento economico in godimento, ivi compreso l’assegno aggiuntivo di tempo pieno. I professori possono optare per il regime di cui al presente articolo e con salvaguardia dell’anzianità acquisita.»
Tralasciando qui ogni commento sull’intollerabile approssimazione della normativa in esame[1], quest’ultima disposizione fa insorgere, invero, la questione della applicabilità ai professori già in servizio alla data del 21 novembre 2005 (entrata in vigore della l. n. 230/2005) delle  prescrizioni di cui al ricordato comma 16 dell’art. 1 (impegno per didattica frontale di 120 annue – 80 per i professori a tempo definito).
Al fine di affrontare compiutamente tale questione occorre preliminarmente ricordare che i professori ordinari e associati in servizio non hanno (melius non avevano fino alla legge 230/05) una predeterminazione legale della durata della propria prestazione di didattica frontale[2].
Invero, il DPR 11 luglio 1980, n. 382, all’articolo 10 (sotto la rubrica “Impegno orario annuale”) stabilisce che, fermi restando gli altri obblighi previsti dalle disposizioni in vigore, i professori ordinari per le attività didattiche devono assicurare la loro presenza per non meno di 250 ore annue nelle quali sono inclusi: a) l’insegnamento ufficiale; b) le attività complementari, come seminari, laboratori, esercitazioni e il ricevimento studenti; c) la partecipazione alle commissioni d’esame e di laurea. I professori a tempo pieno sono tenuti a garantire anche la loro presenza per non meno di altre 100 ore annue che comprendono sia le attività complementari allo svolgimento dell’insegnamento nelle varie forme previste, sia lo svolgimento di compiti di orientamento per gli studenti.
Oltre alla mancanza del benché minimo riferimento alla nozione di didattica frontale, l’art. 10, al pari delle altre disposizioni del DPR 382/80 -stabilita una complessiva determinazione della prestazione dovuta-, nulla dice circa la concreta articolazione oraria della prestazione nell’ambito delle diverse attività elencate.
Viene solo precisato, a scanso di equivoci, che l’impegno didattico, complessivamente considerato, del professore non può essere inferiore all’impegno orario (350/250 ore) per attività didattica innanzi ricordato (art. 9, comma 4, DPR 382/80, art. 12, comma 3, l. 341/1990).
Qualcosa in più prescrive in proposito l’articolo 6 della legge 18 marzo 1958, n. 311, a mente del quale i professori hanno «l’obbligo di dedicare al proprio insegnamento, sotto forma sia di lezioni cattedratiche, sia di esercitazioni di seminario, di laboratorio o di clinica, tante ore settimanali quante la natura e la estensione dell’insegnamento richiedono e sono tenuti ad impartire le lezioni settimanali in non meno di tre giorni distinti».
In tal modo, l’obbligo generale di garantire la presenza (non meno di 350/250 ore annue) per svolgere l’insegnamento ufficiale si precisa in quello di tenere lezioni “cattedratiche” settimanali articolate in tre giorni distinti e per tante ore settimanali quante la natura e la estensione dell’insegnamento richiedono.
A dare più preciso contenuto all’obbligo di didattica frontale dei professori universitari non sovviene neppure il disposto dell’art 12, comma 3, prima parte, l. 341/1990, a mente del quale rimane ferma «per i professori la responsabilità didattica di un corso relativo a un insegnamento». Infatti, la circostanza che, nell’ambito di disposizioni dirette a regolamentare i curricula didattici per le lauree quadriennali e i diplomi universitari, sia stata individuata (di norma) la durata della didattica degli insegnamenti annuali e semestrali[3], non modica la ordinaria indeterminatezza del debito orario dei professori per didattica frontale. Anche in tal caso, infatti, ci troviamo di fronte ad un obbligo che non è inderogabilmente fissato nello stato giuridico ma riviene indirettamente da fonti regolamentari alle quali la legge demanda il compito di stabilire contenuto e durata dei corsi di insegnamento: contenuto e durata che, evidentemente, possono cambiare senza che lo stato giuridico del professore possa opporre alcun limite (salvo, ovviamente, il minimo delle 250 ore di attività didattica dell’art. 10, dpr 382/80). A tacere poi della circostanza che si tratta di atti regolamentari oramai abrogati perché riferiti a curricula didattici articolati su ore e non su crediti e relativi ai vecchi titoli di studio sostituiti dalle nuove laureee triennali e magistrali.
Quest’ultima osservazione, peraltro, ci porta a integrare le conclusioni raggiunte con le sopravvenienze normative che hanno incardinato il professore (non più su di un dato, specifico e definitivo insegnamento ufficiale, bensì) nello svolgimento di insegnamenti su materie definite entro le coordinate legali del settore scientifico-disciplinare di appartenenza (identificato per aree tematiche generali senza alcuna elencazione -oramai abolita- delle specifiche materie di competenza del ssd)[4].
Ciò ha comportato che le tante ore settimanali quante la natura e la estensione dell’insegnamento richiedono di cui alla l. 311/58 vanno determinate in relazione all’insegnamento concretamente individuato (melius, composto) entro l’ampia area identificata dal ssd ad opera dei competenti organi accademici, nell’ambito delle prerogative connesse all’autonomia a essi riconosciuta[5].
In proposito, l’art. 11, comma 7, lett. c), del D.M. 22.10.2204 n. 270, prevede che siano i regolamenti didattici di ateneo, cui è devoluta l’organizzazione dell’attività didattica, a stabilire «le procedure di attribuzione dei compiti didattici annuali ai professori … ivi comprese le attività didattiche integrative, di orientamento e di tutorato». Con la precisazione -riveniente dall’art. 12, comma 3, l. n. 341/1990- che «La programmazione (dell’attività didattica) deve in ogni caso assicurare la piena utilizzazione nelle strutture didattiche dei professori e dei ricercatori e l’assolvimento degli impegni previsti dalle rispettive norme sullo stato giuridico» (a cominciare dalle 250 ore minime per attività didattica).
In definitiva, si deve concludere che in merito alle ore di didattica frontale lo stato giuridico dei professori universitari (ante l. 230/05)non contiene alcuna precisa quantificazione in quanto si limita a stabilire che la relativa determinazione compete agli organi didattici in ragione della natura e dell’estensione dell’insegnamento concretamente attribuito al professore, secondo le modalità innanzi sommariamente indicate.
Venendo allora alla disposizione introdotta dal comma 16 dell’art. 1 della l. 230/2005, deve dedursene, in primo luogo, che essa, piuttosto che modificare lo stato giuridico preesistente incida sulle fonti di individuazione dell’obbligo a svolgere didattica frontale[6].
In altri termini, nella sua discrezionalità (sottoposta ai principi di razionalità e di ragionevolezza), il legislatore ha avocato a sé, sottraendola ai regolamenti didattici e alle deliberazioni degli organi didattici, la competenza a determinare il quantum di didattica frontale dovuto da ogni professore[7].
A questa prima portata regolativa della norma in esame si accompagna, poi, il concreto esercizio della competenza a disciplinare la materia avocata utilizzata, in modo da: -modulare l’obbligo di didattica frontale in ragione del trattamento economico dei professori articolato secondo il regime (a tempo pieno o definito) prescelto; –in conseguenza, quantificare l’obbligo di didattica frontale in 120 ore (sulle 350 complessive) ovvero in 80 ore (su 250 complessive) rispettivamente per i professori a tempo pieno e a tempo definito; -stabilire l’obbligo di didattica frontale nella stessa quantità oraria per tutti gli insegnamenti; -prevedere che l’obbligo di didattica frontale, così determinato, possa, eventualmente, variare (sulla base dell’organizzazione didattica e della specificità e della diversità dei settori scientifico-disciplinari e del rapporto docenti-studenti) con decreto del MIUR.
Nel complesso, si tratta di una scelta[8] che, seppure criticabile per il modo oscuro e, in fondo, poco consapevole con cui è stata effettuata (specie alla luce del ricordato disposto del comma 19 dell’art. 1 della l. 230/2005), ha una sua intrinseca ragionevolezza in quanto risolve l’ingiustificata differenziazione delle regole di svolgimento della prestazione didattica dei professori diversificata per insegnamenti (corso/crediti) e ulteriormente frantumata per effetto di ognuna delle determinazioni assunte nelle diverse sedi accademiche chiamate ad abbinare insegnamento e orario.
La prescrizione del comma 16 dell’art. 1, l. 230/05, ha altresì l’effetto di eliminare la parificazione delle medesime regole tra professori a tempo pieno e professori a tempo definito. E in proposito, è significativo che l’obbligo delle 120/80 ore annuali è strettamente ancorato al trattamento retributivo che, anche per i professori universitari, deve essere rispettoso del disposto dell’art. 36 cost. e del principio di proporzionalità ivi sancito[9].
In definitiva, gli argomenti esposti portano a concludere che il comma 19 dell’art. 1 della l. 230/2005, nel salvaguardare lo statuto giuridico dei professori in servizio alla data del 21.11.2005, non riguarda la disciplina del precedente comma 16 che trova quindi applicazione a tutti i professori (assunti prima o dopo il 21.11.2005).
Peraltro, questa conclusione è, in certa misura, necessaria perché evita artificiose diversificazioni nello stato giuridico proprio in riferimento al compito qualificante della didattica che, con la ricerca scientifica, caratterizza l’attività del professore universitario.
Vi è, infatti, che, diversamente argomentando (applicazione delle nuove regole ai soli professori assunti dopo il 21.11.2005), ne risulterebbe una disciplina palesemente incostituzionale per violazione del principio di razionalità e giustificatezza di cui all’art. 3 cost., poiché rimarrebbe completamente oscura la ragione della diversa articolazione dell’obbligo (melius, delle fonti di disciplina dell’obbligo e, quindi, del suo contenuto variabile) in ragione della data di assunzione, nonostante le molte ed evidenti incongruenze che tale articolazione è idonea a provocare (v. supra).
Non solo. L’esclusione dei professori in servizio dall’obbligo orario dell’art. 1, comma 16, l. 230/05, configurerebbe una violazione dell’art. 36 cost. in quanto provocherebbe, a parità di trattamento economico, una diversificazione nell’applicazione di un elemento essenziale di determinazione della retribuzione proporzionata e sufficiente che tale non potrebbe essere, contemporaneamente, per gli uni e per gli altri (nonostante il differente regime orario).
Altra questione è, infine, quella della “sostenibilità” di un obbligo così commisurato che, associato alle molteplici e crescenti incombenze burocratiche, rischia di mortificare la specificità della figura del professore universitario, quella sua dimensione di studioso e di “ricercatore” che costituisce il fondamento e, in fondo, la stessa ragion d’essere della didattica universitaria. Ma, evidentemente, non è creando artificiose distinzioni tra professori che può essere affrontato un disagio ormai profondo (che l’obbligo delle 120 ore di didattica frontale contribuisce a mettere a nudo), legato alla progressiva professionalizzazione degli studi universitari che ci affligge[10].
 
                                                                                  prof. Pasquale Chieco


* Il contributo è in corso di pubblicazione su Il lavoro nelle pubbliche amministrazioni, n. 2/2006.
[1] In particolare, ciò vale -per stare al tema che ci occupa- per il comma 19 dell’art. 1 che, esclusa la parte di cui si dirà (v. infra), non sembra avere alcuna attitudine regolativa in quanto dispone la salvaguardia di diritti (trattamento economico, anzianità, assegno aggiuntivo a tempo pieno ecc.) che nessuna delle altre disposizioni della legge sembra mettere in discussione per i nuovi assunti. D’altro canto, ove questa salvaguardia dovesse avere qualche efficacia, dovremmo allora ritenere che i primi quattro commi dell’art. 1 della l. 230/2005 disegnino un sistema di libertà, di diritti e di doveri riservato ai “nuovi” professori universitari; la qualcosa, ove si scorrano tali disposizioni, sembra davvero insostenibile vista la loro attinenza al concreto atteggiarsi delle libertà di cui all’art. 33, comma 1, cost.. che non possono variare in ragione di una data arbitrariamente fissata.
[2] In mancanza di più precisi riferimenti normativi generali, nella nozione di didattica frontale dovrebbero includersi tutte le attività di insegnamento svolte dal professore a favore di una pluralità di studenti e, quindi, anche seminari, laboratori, esercitazioni. In definitiva, in mancanza di una nozione legale, saranno le scelte delle singole facoltà a dare preciso contenuto alla didattica frontale (nelle sue diverse modalità) richiesta ai professori e, perciò, utilizzabile ai fini dell’assolvimento dell’obbligo introdotto dall’art.1, comma 16, l. 230/2005.
[3] V. ad es., tra gli altri, il D.M. 31.7.1992 (C.U. 29.10.1992, n. 255) che, nel disciplinare i curricula didattici dei corsi di diploma universitario in area economica, ha stabilito che «Gli insegnamenti annuali comprendono di norma settanta ore di didattica, quelli semestrali comprendono di norma trentacinque ore di didattica».
[4] A mente dell’art. 15 della l. 19.11.1990, n. 341, «I professori di ruolo e i ricercatori vengono inquadrati, ai fini delle funzioni didattiche, nei settori scientifico-disciplinari. L’attribuzione dei compiti avviene, sentiti gli interessati, nel rispetto della loro libertà di insegnamento e delle loro specifiche competenze»: v. nota successiva.
[5] Sul delicato rapporto tra libertà di insegnamento e poteri decisionali degli organi didattici in merito all’assegnazione annuale dei compiti didattici ai professori (specie per quelli entrati in ruolo dopo l’entrata in vigore della l. n. 341/1990), v. L. Mazzarolli, Professori universitari, Università e garanzia costituzionale dell’autonomia universitaria, in Quad. cost, 1997, 77 ss. Ma v., altresì, R. Balduzzi, L’autonomia universitaria dopo la riforma del Titolo V della costituzione, in Le istituzioni del federalismo, 2004, 263 ss., nonché S. Mangiameli, Università e costituzione (considerazioni sulla recente evoluzione dell’ordinamento, Riv. dir., cost., 2000, 209, spec. 210-211, sulla funzionalizzazione costituzionale dell’autonomia universitaria alla libertà di ricerca e di insegnamento e, quindi, sul fondamento del suo riconoscimento «nell’interesse dei componenti dell’istituzione, e non in quello di quest’ultima, intesa come collettività». Argomenti che determinano quest’ultimo A. a dubitare della legittimità costituzionale dell’art. 15, comma 2, l. 341/1990 lì dove prevede l’attribuzione dei compiti didattici sentiti gli interessi e non -come per i professori in servizio alla data di entrata in vigore della legge- con il loro consenso (comma 3); ma già adde sul punto A. D’Atena, Profili costituzionali dell’autonomia universitaria, in Lezioni tematiche di diritto costituzionale, II ed., La Sapienza, Roma, 1998, 146 ss.
[6] Sulla nozione di stato giuridico come complesso di capacità, diritti e doveri v., per tutti, C. Mignone, L’osservanza delle norme di stato giuridico come limite all’autonomia statutaria delle università, in Dir. amm., 1994, 149, nonché S. Raimondi, Lo stato giuridico dei professori universitari tra legge, autonomia statutaria e spinte corporative, in Dir. ammi., 2002, 218-219.
[7] In generale sul rapporto tra autonomia universitaria e riserva di legge con riferimento allo stato giuridico dei professori v., per tutti, R. Finocchi, Le università, in Trattato di diritto amministrativo, a cura di S. Cassese, Diritto amministrativo speciale, tomo II, Giuffrè, Milano, 2000, 973 ss., spec., 1020-1023, e ivi per ulteriori riferimenti bibliografici.
Interessanti risvolti su tale questione presentano i pronunciamenti di Corte cost. n. 1017, del 9.11.1988, e n. 383, del 27.11.1998 (entrambe in www.cortecostituzionale.it), che accentuano il potere dello Stato di porre limiti all’autonomia universitaria (tanto sotto il profilo della organizzazione che dei diritti e dei servizi in vista della cui attuazione l’Università opera). Sui rapporti tra Stato e Regioni nell’interazione con l’autonomia universitaria v. R. Balduzzi, L’autonomia universitaria dopo la riforma del Titolo V della costituzione, cit. 271 ss.
[8] Portata a termine, con la l. 230/05, nella XIV legislatura, ma non nuova in quanto già ipotizzata nei disegni di legge discussi nella precedente legislatura. Sull’obbligo delle 120 ore di didattica frontale in questi ultimi, v. per diffusi rilievi critici S. Raimondi, Lo stato giuridico dei professori universitari tra legge, autonomia statutaria e spinte corporative, cit., 249-251; S. Mangiameli, Università e costituzione (considerazioni sulla recente evoluzione dell’ordinamento, Riv. dir., cost., 2000, 226. Peraltro, il riferimento alle 120 ore di lezione era altresì normativamente previsto quale una delle condizioni per accedere, da parte dei professori a tempo pieno, al fondo per l’incentivazione dell’impegno didattico istituito presso il Miur dall’art. 4, l. n. 370/1999: cfr. R. Finocchi, Le università, cit., 1022.
[9] Il trattamento retributivo non può variare irragionevolmente, tantomeno per la stessa materia. Così, ad es. a parità di regime prescelto (tempo pieno), se è proporzionata e sufficiente la retribuzione A per X ore di didattica frontale (su 350 di impegno complessivo), non lo sarà la medesima retribuzione A per X+1 ore di didattica frontale (su 350 di impegno complessivo); a maggior ragione, analoga conclusione vale per il caso inverso dell’attribuzione dello stesso incarico di X ore di didattica frontale a due professori diversamente pagati (uno A e l’altro A-1) in ragione del regime prescelto (a tempo pieno o definito).
[10] Cfr., per tutti, G.L. Beccaria (a cura di), Tre più due uguale zero. La riforma dell’Università d Berlinguer alla Moratti, Garzanti, Milano, 2004.

Chieco Pasquale

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