Norme per la promozione della soggettività femminile e per il contrasto al femminicidio?

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Abstract: L’Autrice critica un disegno di legge sul femminicidio evidenziando come le scelte terminologiche del testo rivelino un clima socioculturale che deve essere abbandonato.

 

Anche se con la legge n. 77 del 27 giugno 2013 è stata ratificata la “Convenzione sulla prevenzione e il contrasto alla violenza sulle donne e alla violenza domestica” adottata l’11 maggio 2011 ad Istanbul dal Consiglio d’Europa, e nonostante la legge 15 ottobre 2013 n. 119 “Conversione in legge, con modificazioni, del decreto-legge 14 agosto 2013, n. 93, recante disposizioni urgenti in materia di sicurezza e per il contrasto della violenza di genere nonché in tema di protezione civile e di commissariamento delle province” (inadeguata già dalla rubrica, perché non si può assimilare il femminicidio alla protezione civile), uno dei disegni di legge che merita riflessioni per il retaggio socioculturale che lo caratterizza e che deve essere scardinato è il disegno di legge 3390 «Norme per la promozione della soggettività femminile e per il contrasto al femminicidio», presentato per la prima volta al Senato il 4 luglio 2012 durante la XVI Legislatura.

Opinabile è la rubrica che sarebbe potuta essere di più ampio raggio e con un contenuto positivo, come per esempio aggiungendo la locuzione “azioni positive”. La soggettività femminile è tale, per cui non ha tanto bisogno di promozione quanto di riconoscimento e garanzia. La donna nasce già come soggetto e così deve essere considerata (da “fissare attentamente gli occhi della mente in una cosa, come chi fissa una stella”) per tutto l’arco della sua vita.

Apprezzabile nel testo del disegno di legge il riferimento alla «promozione culturale» cui, però, non si è dato il giusto seguito. Infatti, la formazione è stata intesa come iniziative, attività, corsi, come formazione specifica, professionale (si legga l’art. 5) e non come processo continuo e permanente che coinvolge tutti. Per non parlare della concezione limitata e limitante della scuola. L’articolo più censurabile è proprio l’art. 6, dedicato alla scuola, innanzitutto per la sua collocazione dopo i media a cui è dedicato l’art. 4, e per la sua rubrica «Educazione scolastica contro la violenza e la discriminazione di genere», perché sarebbe stato preferibile parlare di “formazione”, perché l’educazione non è solo scolastica e perché in qualsiasi intervento educativo non si deve evidenziare l’aspetto negativo, “contro”, ma quello positivo, “favore”, essendo questo il vero obiettivo dell’educazione. Nel testo dell’articolo per due volte compare l’ipocrita clausola di invarianza finanziaria «nei limiti degli ordinari stanziamenti di bilancio». Non si può ridurre la scuola alla mera previsione dell’«educazione alla relazione» e all’istituzione del «referente per l’educazione alla relazione». La scuola è in toto «educazione alla relazione», è una delle prime formazioni sociali in cui si svolge la personalità umana e in cui si sperimenta l’adempimento dei doveri inderogabili di solidarietà politica, economica e sociale (art. 2 Cost.). Nel disegno di legge si trascura la posizione costituzionale della scuola (artt. 33 e 34 Cost.) che è stata disciplinata dopo la famiglia e la salute e prima del lavoro, che dovrebbero costituire i pilastri di ogni persona e delle relazioni umane. Non si può individuare un «referente per l’educazione alla relazione, preposto alla sollecitazione di misure educative», in quanto ogni insegnante dovrebbe rappresentare questa figura. Anziché l’espressione «autodeterminazione dei generi» che evoca la separazione dei generi sarebbe stato preferibile, tutt’al più, introdurre l’altra, “autorealizzazione” (self-achievement). Altrimenti si rischia di alimentare un clima di malintesa competitività, di crescente conflittualità tra uomini e donne (come, tra l’altro, denunciato da Suzanne Venker, giornalista e scrittrice statunitense, autrice di “Guerra contro gli uomini”). A tale proposito giusta è stata l’indicazione nell’inciso conclusivo del 1° comma dell’art. 6: «L’“educazione alla relazione” è rivolta a favorire il rapporto con l’altro ed è fondata su una cultura delle pari opportunità». Anche se sarebbe stato più opportuno parlare di “relazione” e non di “rapporto”, sia per i differenti significati (“rapporto”, attraverso cui si passa, “relazione”, ciò che si porta da una parte all’altra di nuovo o indietro) sia perché la relazione, di coppia o familiare, è sempre più spesso la sfera in cui si perpetra la violenza come emerge dallo stesso disegno di legge. Continuando la disanima dell’art. 6, in una società multiculturale e multimediale e in una scuola corrispondente che ne è il riflesso non si può continuare a puntare su «un’adeguata valorizzazione della tematica nei libri di testo» (comma 1), ma stimolare lo spirito euristico dei giovani in tutti i libri e in quelli che sarebbero capaci di scrivere mediante, per esempio, la scrittura creativa che ha una grande valenza espressiva e catartica. Nella formulazione dell’art. 6 si sarebbe dovuto recuperare la natura della scuola (da “aver tempo di occuparsi di una cosa per divertimento”) e di quella delle discipline (da “imparare, apprendere”), richiedendo competenza di psicolinguistica a tutto il personale e dando ingresso all’auspicata psicologia scolastica. Perché la scuola è il luogo in cui si imparano il linguaggio – uso della lingua per esprimere i propri pensieri e sentimenti – e i linguaggi specifici e altri. La scuola è questo e non tempo da ridurre per far quadrare i conti o materie sterili da decurtare o da aumentare o progetti da finanziare. “Come in una famiglia, anche in un gruppo-classe si crea una dinamica positiva o negativa, a cui il singolo non si può facilmente sottrarre e che ne condiziona il rendimento intellettuale, le relazioni umane, lo stile comportamentale. Anche qui la cura dell’altro non è un di più, ma la condizione ineludibile per realizzare il proprio fine individuale” (il pedagogista Giuseppe Savagnone)[1]. “Lo stile dei rapporti umani deve scaturire ed essere modellato da questa pratica di generosa comunicazione […]. E proprio esso deve costituire la grande “scuola” che può far crescere i giovani – e non solo loro – nella cura del volto dell’altro”[2].

“In quanto comunità educante, la scuola genera una diffusa convivialità relazionale, intessuta di linguaggi affettivi ed emotivi, e è anche in grado di promuovere la condivisione di quei valori che fanno sentire i membri della società come parte di una comunità vera e propria. La scuola affianca al compito «dell’insegnare ad apprendere» quello «dell’insegnar a essere»” (dalle “Indicazioni nazionali per il curricolo della scuola dell’infanzia e del primo ciclo d’istruzione” di settembre 2012).

Positivo è che si parli di «donna, ancorché (o anche) minorenne» (artt. 3 e 7 comma 3), perché evidenzia che la femminilità è innata anche se quest’aspetto non è stato, poi, ripreso.

Apprezzabile la previsione di un «Codice dei media per la promozione della soggettività femminile» (art. 4 comma 1) che «impegna a non rappresentare la donna come oggetto sessuale», ma è fondamentale che la donna impari a non rappresentarsi e presentarsi come oggetto sessuale e che non scenda a certi frequenti compromessi.

Si parla di «rispetto della dignità delle donne» una sola volta (art. 4 comma 1), invece si sarebbe dovuto richiamarlo più volte perché il rispetto, da “guardare di nuovo, dietro”, implica l’educazione allo sguardo e dello sguardo.

Nell’art. 5 «Campagne di sensibilizzazione, informazione e formazione» contraddittoria la previsione, al comma 1, «le prefetture-uffici territoriali possono promuovere, nei limiti degli ordinari stanziamenti di bilancio, protocolli d’intesa», quando invece nel successivo comma 3 si legge: «Le amministrazioni pubbliche, nell’ambito delle proprie competenze promuovono iniziative».

Per quanto sia apprezzabile e utile la previsione di «statistiche sulla violenza e l’Osservatorio sulla violenza nei confronti delle donne» (art. 7), al tempo stesso si rischia una sorta di segregazione, di ghettizzazione, di vittimizzazione preventiva delle donne. Occorre cambiare prospettiva e non vedere le donne come vittime, attuali o potenziali. “Per intervenire alla radice del problema e cambiare le cose sul serio è fondamentale, prima di tutto, individuare le cause profonde delle molestie e degli attacchi aggressivi. Impegnandosi nella protezione solo di determinate vittime, si finisce per lasciare prive di difesa altre categorie per così dire «deboli»” (Lucetta Savino, giornalista e storica). Perché risolto o arginato il problema del femminicidio o altra forma di violenza alle donne, ci si dovrà occupare e preoccupare di altre violenze e altre vittime, come quella larvata o manifesta che subiscono pure gli uomini (anche attraverso la PAS – Sindrome d’Alienazione Parentale – nei confronti dei figli contesi).

Rilevante la previsione di «nuclei specializzati per l’assistenza delle vittime di violenza nei confronti delle donne» (art. 9), ma nella rubrica si poteva inserire la locuzione più adeguata «cura della persona vittima», usata poi  nella stesura dell’articolo 9. Criticabili altresì la solita clausola di invarianza finanziaria, «senza costi aggiuntivi per la finanza pubblica» (comma 4) e le formule riferite all’équipe specializzata, «può predisporre» e «può costituire» (comma 5), anziché quelle che sarebbero state più opportune, “predispone” e “costituisce” per incidere nel tessuto socionormativo.

Significativa la predisposizione della «tutela lavorativa» (art. 10), conforme al disegno costituzionale (art. 37 Cost.) e finalizzata a ridare la quotidianità alle donne violate, anche se criticabile è l’incipit «le vittime di violenza di genere».

Non è stato sottolineato che la «promozione della soggettività femminile e il contrasto al femminicidio» necessita dell’interrelazione tra le donne e gli uomini, come accennato nelle espressioni «pari dignità dei generi» (art. 4 comma 1), «pari dignità tra uomo e donna» (art. 5 ultimo comma), «operatrici ed operatori» (art. 15 comma 3). Sembra quasi discriminatorio nei confronti degli uomini la previsione di «predisporre progetti di uscita dalla violenza mediante una relazione tra donne che renda ogni singola donna protagonista di un percorso autonomo» (art. 15 comma 3) e la «gestione delle case e dei centri delle donne da parte di associazioni o cooperative di donne» (art. 16). Anzi, per far riacquistare fiducia e sicurezza alle donne e per spezzare i legacci della violenza sarebbe stato auspicabile prevedere la presenza degli uomini. “A mio parere, infine, è prioritario lavorare sugli uomini e non in modo unilaterale sulle donne in considerazione che la dialettica tra vittime e carnefice, fin troppo nota, è sempre in qualche modo circolare” (la giornalista e scrittrice Ilaria Guidantoni[3]). Gli «interventi di rete» […] «al fine di offrire le differenti risposte» (di cui all’art. 14 lettera d) devono stabilirsi innanzitutto tra donne e uomini. È anche questo il senso di “cittadinanza” che nel disegno di legge è riportato solo come requisito formale.

Nel disegno di legge è insufficiente la dimensione personalistica, anche nei confronti della donna stessa che non è vista come soggetto ma quasi esclusivamente come vittima e quindi subordinata, anche nelle «disposizioni in materia di case e centri delle donne» (art. 15) e di certo non è sufficiente la formula «ogni singola donna protagonista di un percorso autonomo». Si parla di «sofferenze» una sola volta nell’art. 3 lettera a e di «cura della persona» solo a proposito dei nuclei specializzati per l’assistenza delle vittime quando, invece, la cura dovrebbe caratterizzare ogni relazione. Anche perché gli atteggiamenti “care-oriented” (prendersi cura degli altri, interessarsi delle persone e delle relazioni interpersonali) sono tipici delle donne e in tal modo si sarebbe sottolineata la soggettività femminile a livello relazionale. Sempre a proposito della dimensione personalistica, si sarebbero potute evitare ancora locuzioni come «minori testimoni di violenza» e «autori di violenza» (art. 12) e scriverle diversamente.

Meritevoli le «previsioni di programmi di riabilitazione da parte dell’amministrazione penitenziaria» (art. 21), ma l’impostazione è stata mal formulata perché non vi è alcun accenno alla mediazione penale, perché non sembra molto rispettosa delle vittime questa previsione generalizzata di programmi di riabilitazione e perché sembrano troppo brevi «tre mesi di trattamento» per una prima valutazione.

A differenza dei lavori preparatori e della relazione introduttiva, nel testo presentato sono stati trascurati molti concetti; non sono menzionate la “consapevolezza”, la “comunicazione”, la “famiglia” (come soggetto attivo e non solo come luogo in cui, troppo spesso, si consumano violenze e maltrattamenti), la “partecipazione”, la “società”, la “comunità”. Le sane relazioni tra i due generi sorgono e si costruiscono su questi elementi e si riverberano su questi elementi.

L’estensore avrebbe dovuto articolare meglio il contenuto e la terminologia perché le parole divengono semi di nuova cultura, foriera di nuova civiltà, tentativo di cui si è fatta promotrice, tra le tante iniziative, la “Carta dei diritti della bambina” del 1997 (in cui è paradigmatico l’uso del singolare). “Parola” da “parabola”, discorso, insegnamento, originariamente “mettere vicino, confrontare”: l’atteggiamento necessario per le relazioni tra i due generi.

Donne e uomini devono essere educati e devono coeducarsi alle differenze e alla bellezza e ricchezza delle differenze come: “Gli Africani suonano coralmente il loro “Inno alla gioia”. Lo fanno con gli sguardi che cercano di creare relazioni significative, con corpi che danzano…, con occhiate complici” (Valentino Salvoldi, già docente di filosofia e teologia morale).

La donna è “padrona di casa, sovrana, regina, sposa, amata” (dai significati del latino “domina”) e lo è e può esserlo nella coralità tra donne e uomini. “Essere donna è terribilmente difficile perché consiste principalmente nel trattare con gli uomini” (lo scrittore polacco Joseph Conrad).

 


[1] G. Savagnone, A. Briguglia, “Il coraggio di educare”, Elledici 2009, p. 75.

[2] Ibidem, p. 77.

[3] In un’intervista relativa alla Giornata contro la violenza sulle donne del 25 novembre 2013.

Dott.ssa Marzario Margherita

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