Negoziazione assistita (dl 132/2014): l’invito e l’accordo (concluso o mancato)

AR redazione 22/09/14
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Articolo estratto dall’e-book “LE NOVITÀ NEL PROCESSO CIVILE-COSA CAMBIA DOPO IL D.L.132/2014” pubblicato da Maggioli Editore di Antonio Di Tullio D’Elisiis

 

 

2. L’invito e l’accordo (concluso o mancato): elementi costitutivi ed effetti processuali

 

Il comma 1 dell’articolo 4 dispone che

 

l’«invito a stipulare la convenzione deve indicare l’oggetto della controversia e contenere l’avvertimento che la mancata risposta all’invito entro trenta giorni dalla ricezione o il suo rifiuto può essere valutato dal giudice ai fini delle spese del giudizio e di quanto previsto dagli articoli 96 e 642, primo comma, del codice di procedura civile».

L’invito a stipulare la convenzione, quindi, deve contenere l’oggetto della controversia.

Ebbene, la ragione di una scelta legislativa di questo genere trova una sua logica spiegazione in virtù del fatto che solo in tal modo la controparte è messa in condizione di poter decidere se accettare o meno l’invito valutando sia la sua pratica fattibilità, sia se vi siano le condizioni preclusive esaminate nel precedente paragrafo.

Pur tuttavia, dato che la norma in commento non prevede alcun decadenza in proposito, ad avviso di chi scrive, anche un invito, privo dell’oggetto della controversia, può essere preso in considerazione purché esso venga successivamente ed espressamente indicato nell’accordo.

Analoghe considerazioni militano per quanto attiene l’avvertimento che la mancata risposta all’invito, entro trenta giorni dalla ricezione o il suo rifiuto, può essere valutato dal giudice ai fini delle spese del giudizio e di quanto previsto dagli articoli 96 e 642, primo comma, del codice di procedura civile (art. 4, c. 1, decreto legge 12/9/2014, n. 132).

 

Inoltre, alla luce di questa previsione legislativa, è chiaro che colui che non ha aderito all’invito:

 

1. qualora abbia agito o resistito in giudizio con mala fede o colpa grave, è condannato «oltre che alle spese, al risarcimento dei danni» (art. 96, c. 1, c.p.p.);

2. quando il credito è fondato su cambiale, assegno bancario, assegno circolare, certificato di liquidazione di borsa, o su atto ricevuto da notaio o da altro pubblico ufficiale autorizzato, può essergli ingiunto, su istanza della controparte, «di pagare o consegnare senza dilazione, autorizzando in mancanza l’esecuzione provvisoria del decreto e fissando il termine ai soli effetti dell’opposizione» (art. 642, c. 1, c.p.c.);

3. è condannato «al rimborso delle spese a favore dell’altra parte» (art. 91, c. 1, c.p.c.).

 

Ebbene, per quanto attiene la responsabilità di cui al numero 1), potrebbe configurarsi una responsabilità di questo genere quando la parte, che ha rifiutato l’invito, sia quella soccombente e la sua pretesa sostenuta in giudizio si rilevi manifestamente infondata fermo restando che la mala fede o colpa grave previste dall’art. 96 c.p.c. richiede un quid pluris dovendo la temerarietà della lite essere ravvisata

 

«nella coscienza dell’infondatezza della domanda (mala fede) o nella carenza della ordinaria diligenza volta all’acquisizione di detta coscienza (colpa grave)» (21) (sul tema inerenti il saggio degli interessi, cfr. infra paragrafo 4, Cap. III).

 

Infine, l’avvocato, che ha formulato l’invito, è tenuto a certificare l’autografia della firma apposta su di esso (art, 4, c. 2) così come analogo onere è imposto ad ambedue i legali in riferimento alla dichiarazione di mancato accordo che quindi, al pari di quest’ultimo, deve essere redatta per iscritto (art. 4, c. 3).

In più, a norma dell’art. 8, in modo non molto dissimile da quanto previsto per la mediazione dall’art. 5, c. 6, decreto legislativo, 4 marzo 2010, n. 28 (22), dal

 

«momento della comunicazione dell’invito a concludere una convenzione di negoziazione assistita ovvero della sottoscrizione della convenzione si producono sulla prescrizione gli effetti della domanda giudiziale» e dalla «stessa data è impedita, per una sola volta, la decadenza, ma se l’invito è rifiutato o non è accettato nel termine di cui all’articolo 4, comma 1, la domanda giudiziale deve essere proposta entro il medesimo termine di decadenza decorrente dal rifiuto, dalla mancata accettazione nel termine ovvero dalla dichiarazione di mancato accordo certificata dagli avvocati».

 

Quindi, anche in questo caso, vi sarà, come parimenti stabilito dall’art. 2943, c. 2, c.c. (ai sensi del quale:

la prescrizione è «pure interrotta dalla domanda proposta nel corso di un giudizio»), l’interruzione della prescrizione

 

«protraentesi fino al passaggio in giudicato della sentenza che definisca il giudizio decidendo il merito o eventuali questioni processuali di carattere pregiudiziale, con riguardo a tutti i diritti da essa coinvolti o che si ricolleghino, con stretto nesso di causalità, al rapporto cui essa inerisce» (23).

 

Ebbene, pur non essendo espressamente stabilito in nessuna disposizione che il termine entro cui dover rispondere all’invito (trenta giorni dalla ricezione) è imposto a pena di decadenza, ciò risulta proprio in questo articolo in cui si fa espressa menzione di questa parola stabilendo per l’appunto che il medesimo termine di decadenza decorre per la domanda giudiziale qualora, una volta che l’invito è stato rifiutato o non accettato entro trenta giorni dalla richiesta, essa non venga riproposta entro e non oltre trenta giorni dal rifiuto, dalla mancata accettazione nel termine ovvero dalla dichiarazione di mancato accordo certificata dagli avvocati.

 

Va da sé dunque che, come si può decadere dalla domanda giudiziale, alla stessa preclusione può incorrere

la parte che non risponde all’invito entro trenta giorni dalla ricezione della richiesta trattandosi in ambedue i casi di termini stabiliti a pena di decadenza.

L’accordo, una volta definita la controversia, viene sottoscritto dalle parti e dagli avvocati che le assistono e «costituisce titolo esecutivo e per l’iscrizione di ipoteca giudiziale» (art. 5, c. 1).

Tale previsione normativa stabilisce quindi, evitando possibili profili di criticità ermeneutica, che l’accordo costituisce titolo esecutivo che, a norma dell’art. 474, c. 1, c.p.c., è necessario affinché si possa procedere ad esecuzione forzata nonché perché si possa iscrivere l’ipoteca giudiziale.

Ebbene, posto che l’art. 2818 c.c. prevede che l’ipoteca giudiziale può derivare solo da una «sentenza che porta condanna al pagamento di una somma o all’adempimento di altra obbligazione ovvero al risarcimento dei danni da liquidarsi successivamente» (comma 1) ovvero da «altri provvedimenti giudiziali ai quali la legge attribuisce tale effetto» (comma 2), si ritiene come il riferimento compiuto dal comma 1 dell’articolo 5 così strutturato possa presentare un profilo di criticità giuridica dato che la negazione assistita, come suesposto in precedenza, non è un altro che un accordo di natura transattiva molto similare allo schema dell’arbitrato irrituale.

Ebbene, proprio perché si tratta di un mero accordo esso, proprio in quanto tale, non potrebbe essere considerato alla stregua di un provvedimento giurisdizionale.

Ed in effetti, non sembra essere un caso che il legislatore, nel caso di arbitrato realizzato attraverso una determinazione contrattuale, nello stabilire che la controversia viene definita in deroga rispetto a quanto disposto dall’art. 824-bis c.p.c., ha implicitamente preso atto come un accordo di questo tipo, proprio perché di matrice meramente contrattuale, non possiede «gli effetti della sentenza pronunciata dall’autorità giudiziaria » (art. 824-bis c.p.c.).

Quindi, in virtù di questa discrasìa, sarebbe forse opportuno emendare in sede di conversione il comma succitato prevedendo espressamente che la negoziazione assistita, una volta positivamente conclusa ed eventualmente definita “lodo contrattuale” (utilizzando quindi la dizione richiamata nell’art. 808-ter, c. 1, c.p.c.), ha gli stessi effetti della sentenza pronunciata dall’autorità giudiziaria e, in quanto tale, idonea a costituire titolo esecutivo per iscrivere ipoteca giudiziale.

Pur tuttavia, non può non farsi presente che tale effetto è stato espressamente previsto per la mediazione che, al pari di quella in commento, consiste in mero accordo.

Infatti, l’art. 12 decreto legislativo, 4 marzo 2010, n. 28 dispone che, ove

 

«tutte le parti aderenti alla mediazione siano assistite da un avvocato, l’accordo che sia stato sottoscritto dalle parti e dagli stessi avvocati costituisce titolo esecutivo per l’espropriazione forzata, l’esecuzione per consegna e rilascio, l’esecuzione degli obblighi di fare e non fare, nonché per l’iscrizione di ipoteca giudiziale».

 

Ebbene, come allora, anche in questo caso, può ritenersi compatibile a quanto statuito dall’art. 2818 c.c. la previsione normativa di cui al comma 1 dell’art. 5 dato che, anche con tale fattispecie, come quella prevista dalla norma appena richiamata, è stata integrata

 

«la comune normativa sulle ipoteche introducendone una giudiziale fondata sull’accordo siglato dalle parti anziché sul decreto di omologa»(24).

 

Posto ciò, si fa presente che anche in questo caso i legali hanno l’obbligo di attestare, come previsto per la mediazione dall’art. 12, c. 1, decreto legislativo, 4 marzo 2010, n. 28, «l’autografia delle firme e la conformità dell’accordo alle norme imperative e all’ordine pubblico» (art. 5, c. 2) dato che la nullità dell’arbitrato può derivare sia per contrasto alle norme imperative (Cass. civ., sez. un., sentenza 7 ottobre 2008 (dep. 27 ottobre 2008), n. 25770, in Guida al diritto, 2008, 48, 48) sia per contrarietà all’ordine pubblico (art. 829, c. 3, c.p.c.).

Del resto, tale invalidità giuridica sarebbe comunque discesa in virtù della previsione di ordine generale contenuta nell’art. 1418, c. 2, c.c. che stabilisce la nullità del contratto per illiceità della causa la quale, a sua volta, ai sensi dell’art. 1343 c.c., deriva proprio quando, oltre per contrasto al buon costume, essa sia «contraria alle norme imperative all’ordine pubblico» (25).

Il comma 3 dell’art. 5 dispone a sua volta che se,

 

«con l’accordo le parti concludono uno dei contratti o compiono uno degli atti previsti dall’articolo 2643 del codice civile, per procedere alla trascrizione dello stesso la sottoscrizione del processo verbale di accordo deve essere autenticata da un pubblico ufficiale a ciò autorizzato» (ossia l’ufficiale rogante che coincide a norma dell’art. 2671, c. 1, c.c. con il notaio).

 

Si tratta difatti di tutti quegli atti che si devono rendere pubblici per mezzo della trascrizione (esempio: contratti che trasferiscono la proprietà di beni immobili).

Infine, il comma quarto dell’art. 5 dispone che costituisce «illecito deontologico per l’avvocato impugnare un accordo alla cui redazione ha partecipato» vale a dire una prescrizione normativa perfettamente speculare a quella prevista dall’art. 44, c. 1, del codice deontologico forense secondo cui di norma l’«avvocato che abbia raggiunto con il collega avversario un accordo transattivo, accettato dalle parti, deve astenersi dal proporne impugnazione», in entrambi i casi, risultano violati i doveri di lealtà e correttezza che, ai sensi dell’art. 9 del codice deontologico forense, devono connotare lo svolgimento di qualsivoglia attività defensionale.

 

Note

21. Cass. civ., sez. II, sentenza 8 gennaio 1992, n. 126, in Giust. Civ. Mass. 1992, fasc. 1. Sull’argomento vedasi, tra gli ultimi autori

intervenuti sul tema, il seguente: F. Toppetti (a cura di), Il risarcimento del danno da lite temeraria, Milano, Giuffrè editore, 2014.

22. Ai sensi del quale: dal «momento della comunicazione alle altre parti, la domanda di mediazione produce sulla prescrizione

gli effetti della domanda giudiziale. Dalla stessa data, la domanda di mediazione impedisce altresì la decadenza per una sola volta,

ma se il tentativo fallisce la domanda giudiziale deve essere proposta entro il medesimo termine di decadenza, decorrente dal

deposito del verbale di cui all’articolo 11 presso la segreteria dell’organismo».

23. Cass. civ., sez. I, sentenza 21 maggio 2013 (dep. 7 giugno 2013), n. 14427, in Giust. Civ. Mass., 2013.

24. Trib. Varese, sez. I, sentenza 12 luglio 2012, in Diritto & Giustizia, 2012, 4 agosto.

25. Sull’argomento, tra i tanti autori intervenuti sul tema, vedasi: V. Roppo, Il contratto, Milano, Giuffrè editore, II ed., 2011, pagina

382 e seguenti.

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