Per approfondire su Meta leggi l’articolo: La guerra dei dati tra Meta e l’unione Europea. Come e perchè la privacy è ancora e più che mai una norma sociale
Ma andiamo con ordine.
La base giuridica è, ai sensi dell’art. 6 del GDPR, la condizione di liceità di un trattamento dei dati, ossia ciò che rende un particolare trattamento legittimo. L’articolo 6 ne individua sei:
Secondo il Garante questa base giuridica non sarebbe legittima, perché non è idonea allo scopo per cui i dati vengono raccolti per diverse ragioni. Innanzi tutto, per la scarsa trasparenza dell’informativa, e in secondo, ma non meno importante, luogo per l’evidente asimmetria informativa tra le parti. In altre parole, nella stragrande maggioranza dei casi gli utenti di Facebook o Instagram, nell’iscriversi al social, nemmeno si rendono conto di stare stipulando un contratto, senza poi considerare che, se anche invece se ne rendessero conto, la finalità di profilazione non sarebbe assolutamente necessaria per la stipula dello stesso.
La stipula e l’esecuzione del contratto, quindi, ben si possono compiere a prescindere dalla profilazione degli utenti destinata alla pubblicità mirata e pertanto la scelta del titolare non è stata compiuta secondo i principi che regolano il trattamento dei dati.
Oltre alla sanzione, a Meta è stato dato un tempo di tre mesi dalla notifica del provvedimento per adeguarsi al dettato normativo: in altre parole, dovrà scegliere un’altra e più adeguata base giuridica, modificando di conseguenza le proprie informative ed il proprio modello di business.
Detta così sembra semplice, ma nei fatti Meta dovrà sottoporre al garante una soluzione alternativa che sia rispettosa del Regolamento, ma che allo stesso tempo non vada a inficiare (non più di un limite che potrà essere considerato tollerabile, quanto meno) il fatturato e di conseguenza i ricavi aziendali.
Nel commentare il provvedimento in questione, l’Autorità Garante per il trattamento dei Dati Personali italiana ha affermato che “Non è esagerato sostenere che il provvedimento è, in qualche modo, destinato a avere su Internet l’impatto più rilevante sin qui avuto da un provvedimento in materia di privacy sulle cose della Rete”.
Il modello è semplice: Meta (così come ogni operatore online, solo che Meta, evidentemente, lo fa meglio e con maggior profitto) ha bisogno dei nostri dati, perché ha bisogno di mandare ai propri utenti (parliamo di miliardi di utenti nel mondo) il messaggio commerciale giusto, che permetta all’azienda che lo propone di “convertire” ossia di vendere, che è il motivo per cui la società che vuole pubblicizzare un prodotto paga a Meta fior di soldi per posizionare i propri annunci in maniera “profilata”, Che è il motivo per cui Meta fattura i famosi 27 miliardi di dollari.
Nel marketing si dice che parlare a tutti vuol dire non parlare a nessuno, ma se invece parlassimo proprio a quelle persone che hanno bisogno del nostro prodotto? Allora sì che avremmo la possibilità di vendere e di farlo bene. Per questo il social ci conosce meglio dei nostri genitori e del nostro partner. Perché sa cosa vogliamo e sa come darcelo.
La profilazione, al contrario, costituisce un’ottima opportunità di business non solo per Meta, ma per milioni di aziende che operano nel mondo online, e il business porta con sé benessere, per quanto questo possa fare dispiacere ai nemici dell’imperialismo, americano e non.
Ma essere profilati vuol dire, inevitabilmente, rinunciare ad un po’ di libertà personale, di diritti che dovrebbero essere inalienabili ed alla nostra privacy e sicurezza ed è pertanto dovere della società che ci profila metterci nelle condizioni di conoscere ogni aspetto del processo, affinché noi ne siamo consapevoli e possiamo prendere una decisione libere e informate.
La rete pullula di generosi operatori digitali, che “gratuitamente” propongono corsi, prodotti, contenuti imperdibili di vario genere, ma che in realtà non fanno altro che replicare, in scala ridotta, il medesimo modello di business: la raccolta dei nostri dati per trarre profitti. Uno scopo più che lecito, quando dietro a quell’imperdibile contenuto gratuito c’è una società di capitali e non una onlus, ma come sempre è la modalità con cui si fanno le cose che andrebbe ridiscussa: trasparenza da una parte e consapevolezza dall’altra, due elementi che costituiscono merce rara in rete.
La questione si è posta quando molte testate giornalistiche hanno inventato la trovata del pay wall, ovvero lo sbarramento ai propri contenuti che propone l’alternativa: o mi dai il consenso ai cookie, oppure mi devi pagare per leggere il mio sito (ne abbiamo parlato in questo articolo), questione tuttora sottoposta all’attenzione del nostro Garante.
Stiamo quindi per essere messi di fronte a un Facebook e ad un Instagram a pagamento? Per il momento la questione resta aperta, e pare che l’unica certezza sia, per citare nuovamente il nostro Guido Scorza, che “nella dimensione digitale tanto se non tutto sta per cambiare”.