Mobbing, parliamone

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Secondo i Giudici del Lavoro, il mobbing è quel comportamento illecito del datore di lavoro (e, spesso, dei colleghi) protratto nel tempo, preordinato e finalizzato all’emarginazione, all’eliminazione del lavoratore.
In altre parole, si ha mobbing in presenza di precisi criteri, oggettivi e soggettivi, che possono così essere riassunti: il carattere persecutorio e discriminatorio della condotta datoriale, il protrarsi nel tempo di tale condotta (almeno sei mesi, anche se l’estensione temporale è da valutare caso per caso) e il preciso intento vessatorio del datore di lavoro.
Si parla, in concreto, di demansionamento o dequalificazione professionale, di carico eccessivo di lavoro o di completo svuotamento delle mansioni, di visite fiscali ‘a pioggia’, di molestie e di tutti quei comportamenti, commissivi e omissivi, che – seppur in sé leciti o da soli giuridicamente insignificanti – diventano rilevanti in un contesto d’insieme.
Gli effetti negativi del mobbing non sono legati soltanto alla sfera economica e professionale (ad esempio, l’autoeliminazione della vittima che molto spesso si dimette), ma possono essere ben più gravi.
Il mobbing determina lo svilimento della personalità professionale e della dignità umana e può provocare disturbi psicofisici, perdita di fiducia e di autostima e altre conseguenze devastanti che finiscono inevitabilmente col ripercuotersi nella sfera sociale, personale, familiare, spesso intima, del lavoratore vittima di mobbing.
Mi occupo di mobbing dal mio primo giorno di pratica, ancor prima di diventare avvocato.
Devo dire, in base alla mia esperienza, che è tutt’altro che facile fornire la prova del mobbing.
Spesso è addirittura impossibile (soprattutto se la prova si basa su testimonianze di colleghi che continuano a lavorare per il ‘mobber’).
E’ difficile, nel corso di un processo, acquisire elementi di prova sufficienti perché il Giudice possa ritenere esistente, nel singolo caso, la condotta mobbizzante.
A volte, mi rendo conto di quanto sia addirittura difficile per lo stesso lavoratore distinguere l’ordinario esercizio del potere direttivo e disciplinare del datore dall’illecito comportamento persecutorio.
Nemmeno la prova del danno da mobbing è facile.
Occorre infatti accertare e dimostrare, con l’aiuto della medicina legale, l’esistenza di una patologia di natura psicofisica che sia strettamente collegata sul piano causale alla condotta datoriale illecita.
In Italia, nonostante il riconoscimento giurisprudenziale del fenomeno, manca ancora una legge sul mobbing.
Tuttavia, il fatto che il mobbing sia difficile da provare e il fatto che manchi una (auspicabile) legge ad hoc, non significa affatto che il mobbing non esista né che non valga la pena discuterne in un’aula di Tribunale.
Sono sempre più numerose, infatti, le sentenze a favore di lavoratori che dicono ‘no’ al mobbing.
Tra le tante, una recente sentenza del Tribunale di Milano sottolinea come l’elemento caratterizzante il mobbing non sia la legittimità o illegittimità di per sé considerata dei singoli atti del datore di lavoro, bensì una sorta di disegno complessivo di vessazione psicologica, sistematica e ripetuta per un apprezzabile periodo di tempo, tale da esplicitare una valenza persecutoria dei comportamento del datore (sentenza n. 925/2008).
Per quanto riguarda, poi, la durata del comportamento mobbizzante, la Suprema Corte di Cassazione ha di recente ribadito che sono sufficienti anche pochi mesi di tempo per configurare una continuità delle azioni lesive a danno del lavoratore, identificando tale comportamento come vero e proprio mobbing (sentenza n. 22858/2008).
 
 

Russo Maximilian Maria

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