Medico-paziente: il consenso informato non può essere presunto

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RISARCIMENTO DANNI – CONSENSO INFORMATO – REQUISITI – ONERE DELLA PROVA – CRITERI

In materia di consenso informato, la S.C. ha precisato i seguenti principi: 1) non può esservi un consenso tacito per facta concludentia; 2) la qualità personale del soggetto da informare (nella specie, medico) non fa venire meno l’obbligo di informazione; 3) l’onere della prova con riguardo all’avvenuta illustrazione delle possibili conseguenze dannose della terapia spetta al medico, una volta dedotto dal paziente il relativo inadempimento.

(Cass., III sez. civ, Presidente G. B. Petti, Relatore R. Vivaldi)

La Suprema Corte di Cassazione, con la sentenza in commento, ha accolto il ricorso presentato da un medico che, a seguito di un intervento chirurgico subito presso la struttura ospedaliera ove prestava la propria attività di radiologo, conveniva in giudizio l’azienda ospedaliera.

Egli chiedeva nei confronti di quest’ultima la condanna al risarcimento dei danni per lesioni ossee da patologia articolare femorale e per i gravi postumi delle stesse, subiti a causa della terapia cortisonica somministratagli per curare un’encefalite post-influenzale.

In sostanza, la richiesta di risarcimento dei danni si basava sul fatto che il medico-paziente non era stato edotto dei rischi della terapia somministratagli, e dunque non era stato posto nelle condizioni di prestare il prescritto consenso informato.

In primo grado la domanda viene accolta, considerando che la mancata prestazione del consenso al trattamento da parte del paziente, non adeguatamente informato, costituisce autonoma fonte di responsabilità, restando irrilevanti la correttezza o adeguatezza tecnica delle cure prestate.

La Corte d’Appello di Torino, invece, ha negato il risarcimento dei danni perché il paziente è un medico, quindi in possesso delle cognizioni scientifiche necessarie per rendersi conto del trattamento cui era stato sottoposto.

Inoltre, facendo parte della stessa struttura ospedaliera, ha avuto un contatto frequente con i medici curanti e modo di discutere ampiamente e in maniera approfondita il caso clinico che lo coinvolgeva in prima persona.

In altre parole, l’argomentazione principale del giudice di secondo grado, non dimostra che effettivamente vi fu una richiesta di consenso ed una prestazione di consenso, ma soltanto che i medici hanno, in buona fede, presunto che il paziente fosse d’accordo.

Nella sentenza in commento la Suprema Corte afferma espressamente che “un tale percorso argomentativo non può essere seguito, né le implicazioni che la Corte di merito ne fa scaturire sono condivisibili”.

A ben vedere, la legge richiede altri e rigorosi requisiti.

Il diritto al consenso informato è un vero e proprio diritto della persona e trova fondamento negli artt. 2 (che tutela e promuove i diritti fondamentali),13 (il quale sancisce che la liberà personale è inviolabile) e 32 Cost.(in base al quale nessuno può essere obbligato ad un determinato trattamento sanitario se non per disposizione di legge), secondo la qualificazione indicata dalla Corte Costituzionale con la sentenza n. 438/08. Esso è propriamente inteso quale “espressione della consapevole adesione al trattamento sanitario proposto dal medico”.

In virtù del diritto vivente, costituito da statuizioni costituzionali e da precedenti della Corte di Cassazione, gli interventi sul corpo del paziente obbligano lo Stato e le sue istituzioni, tra cui l’organo giudicante, a mantenere al centro la dimensione della persona umana nella sua concreta esistenza. Ciò in quanto la sua dignità è diritto fondamentale ed inviolabile.

Ne deriva che il diritto al consenso informato va comunque e sempre rispettato dal sanitario, a meno che non ricorrano casi di urgenza, rinvenuti a seguito di un intervento concordato e programmato, per il quale sia stato richiesto ed ottenuto il consenso, e tali da porre in gravissimo pericolo la vita della persona o si tratti di trattamento sanitario obbligatorio.

Tale consenso è talmente inderogabile che non assume alcuna rilevanza, al fine di escluderlo, il fatto che il trattamento sia stato effettuato in modo tecnicamente corretto.

Ciò che rileva è che il paziente, a causa del totale deficit di informazione, non sia stato posto nella condizione di assentire al trattamento, consumandosi nei suoi confronti una lesione di quella dignità che connota l’esistenza nei momenti cruciali della sofferenza fisica e psichica (Cass. 28.7.2011 n. 16543).

Dunque, il consenso informato costituisce, di norma, legittimazione e fondamento del trattamento sanitario. Se questo manca, l’intervento del medico è sicuramente illecito.

In ordine alle modalità e ai caratteri del consenso, esso deve essere personale (cioè provenire dal paziente), specifico ( ossia riguardare ogni singolo trattamento), esplicito, reale ed effettivo (non è ammesso il consenso presunto), attuale (cioè persistere al momento dell’inizio dell’intervento) e consapevole (cioè basato su informazioni dettagliate fornite dal medico).

Non esiste un consenso tacito per facta concludentia, tenuto conto dei valori in gioco. Non è richiesta la prova scritta ad substantiam, ma certamente una manifestazione di volontà effettiva e reale.

La Corte di Cassazione con la pronuncia in commento afferma che la finalità dell’informazione che il medico è tenuto a dare è quella di assicurare il diritto all’autodeterminazione del paziente, il quale sarà libero di accettare o rifiutare la prestazione medica.

A tal fine è irrilevante la qualità del paziente.

Quest’ultima può incidere sulle modalità con cui il medico deve informare l’assistito, in considerazione del grado di conoscenze specifiche di quest’ultimo; tuttavia, l’importanza di una manifestazione espressa di volontà esclude che sia sufficiente un consenso tacito o presunto.

I giudici di legittimità proseguono poi nel trattare il profilo riguardante la prova dell’intervenuto o mancato adempimento dell’obbligo informativo spettante al sanitario.

Essi affermano la natura contrattuale della responsabilità da inadempimento degli obblighi informativi nei confronti del paziente, collocando la mancata informazione sul piano dell’inadempimento dell’obbligazione che discende da un contratto già concluso.

Ciò in quanto “l’intervento stesso del medico, anche solo in funzione diagnostica, determina l’instaurazione di un rapporto di tipo contrattuale. Con la conseguenza che, una volta effettuata la diagnosi in esecuzione del contratto, l’illustrazione al paziente delle conseguenze della terapia o dell’intervento, al fine di ottenere il necessario consenso all’esecuzione della prestazione terapeutica, costituisce un’obbligazione, il cui adempimento deve essere provato dalla parte che l’altra affermi inadempiente. Dunque dal medico a fronte dell’allegazione di inadempimento da parte del paziente”.

Questo è attualmente l’orientamento prevalente in dottrina e giurisprudenza.

Tuttavia, secondo l’elaborazione dottrinale minoritaria, la descritta responsabilità ha natura extra contrattuale. Ciò in quanto l’obbligo d’informazione gravante sul medico è da collegarsi al comportamento secondo buona fede a cui le parti sono tenute nello svolgimento delle trattative e nella formazione del contratto ai sensi dell’art. 1337 c.c., e quindi da collocarsi in ambito precontrattuale.

Tra detta tesi e l’orientamento prevalente seguito dalla Suprema Corte si colloca una tesi intermedia secondo cui, allo scopo di individuare la natura dell’illecito, occorre distinguere tra l’ipotesi in cui l’obbligo informativo sia stato inadempiuto parzialmente, e l’ipotesi in cui esso è del tutto assente.

Nel primo caso, l’iniziale sussistenza di un contatto sociale rende innegabile l’esistenza di un rapporto negoziale tra le parti; invece, nel caso in cui il sanitario abbia omesso di fornire le informazioni circa la prestazione medica eseguita, la sua condotta integra certamente gli estremi di un illecito aquiliano.

Seguendo questa tesi, quando l’inadempimento dell’obbligo informativo è totale, il paziente è esonerato dalla relativa prova; in caso di inadempimento parziale, invece, ha l’onere di provare l’inesattezza dell’adempimento.

Seguendo la tesi maggioritaria (dell’inadempimento contrattuale), il paziente dovrà limitarsi ad allegare l’inadempimento del sanitario, spetterà invece a quest’ultimo fornire la prova liberatoria, dimostrando di aver provveduto ad informare il paziente in modo compiuto e diligente.

Viceversa, optando per la tesi della responsabilità aquiliana, incomberà sul paziente l’onere di provare la violazione del dovere di informazione.

Gli Ermellini affermano altresì che “ il rispetto dell’autodeterminazione del paziente – che è ciò che si vuole tutelare, con il conseguente risarcimento del danno per mancato consenso – deve essere valutato in concreto, tenendo presenti le reali possibilità di scelta che si ponevano di fronte al paziente, nel caso in cui fosse stato adeguatamente informato”.

A ciò consegue che la rilevanza causale del mancato consenso sussiste soltanto quando una tale disinformazione abbia comportato una scelta terapeutica che, altrimenti, sarebbe stata, con alta probabilità, rifiutata o modificata, dal paziente stesso (v. anche Cass. 13.7.2010 n. 16394; Cass. 9.2.2010 n. 2847).

Ciò vuol dire che, nell’ambito dell’azione di responsabilità per risarcimento del danno, nelle obbligazioni c.d. di comportamento, rileva solo l’inadempimento che costituisce causa (o concausa) efficiente del danno”.

Detto altrimenti, il diritto all’autodeterminazione del paziente deve essere valutato considerando le effettive possibilità che si sarebbero prospettate al paziente qualora fosse stato informato: se non sussistevano alternative diagnostiche o terapeutiche e se risulta che il paziente, anche se adeguatamente informato, avrebbe ugualmente prestato il consenso al trattamento sanitario (nello stesso tempo e con le stesse modalità) non è individuabile alcun inadempimento causalmente rilevante.

Il mancato consenso, al contrario, rileva causalmente laddove esso abbia condotto ad un trattamento terapeutico che altrimenti sarebbe stato rifiutato o comunque sarebbe stato diverso rispetto a quello in concreto eseguito, rispondendo, in questo modo, pienamente alla ratio del consenso informato che sta nella tutela della libertà all’autodeterminazione.

Peraltro, la Suprema Corte precisa che tale diritto fondamentale, violato dalla mancata acquisizione del consenso, è diverso dal diritto alla salute, con la conseguenza che può certamente esserci violazione del consenso informato senza lesione dell’integrità psico-fisica e che, in caso di violazione del primo ma non del secondo, il risarcimento si fonda su diverso titolo.

Più precisamente e richiamando in particolare la pronuncia della Corte di Cassazione, III sez., n.2847 del 9 febbraio 2010, anche in assenza di un danno alla salute o in presenza di un tale danno non ricollegabile alla lesione del diritto all’informazione, l’inadempimento dell’obbligo informativo che sussiste nei confronti del paziente assume rilievo ai fini risarcitori tutte le volte in cui siano configurabili, a suo carico, conseguenze pregiudizievoli di carattere non patrimoniale di apprezzabile gravità, derivanti dalla violazione del diritto fondamentale all’autodeterminazione in sé considerato.

Ciò sempre che tale danno superi la soglia minima di tollerabilità, da determinarsi ad opera del giudice mediante il bilanciamento tra principio di solidarietà e tolleranza, secondo il parametro costituito dalla coscienza sociale in un determinato momento storico.

Sarà pertanto risarcibile il danno non patrimoniale corrispondente sia alla privazione della possibilità di scelta spettante al paziente, sia al turbamento e alla sofferenza provocati dal verificarsi di conseguenze del tutto inaspettate.

Invece, “in presenza di un trattamento medico necessario e correttamente eseguito, la mancanza di una preventiva informazione del paziente circa i possibili effetti pregiudizievoli dell’intervento implica – qualora questi vengano a verificarsi – la risarcibilità, da parte del medico, del correlato danno alla salute esclusivamente qualora si accerti che il paziente avrebbe rifiutato, ove adeguatamente informato, il trattamento medico stesso” (Cass. civ. III sez., 30 marzo 2011 n.7237).

Ciò si spiega chiarendo che il diritto invocato dal paziente non è il diritto alla salute in quanto tale, bensì il diritto al consenso.

La salute, infatti, qui è invocata non come danno -evento, ma come danno-conseguenza di un evento lesivo di un diritto fondamentale.

In conclusione, la Corte di Cassazione ha accolto il ricorso proposto dal medico-paziente, cassando la sentenza impugnata e rinviando la causa alla Corte d’Appello di Torino affinché riesamini la vicenda in questione.

I giudici di legittimità, attraverso questa rilevante e condivisibile pronuncia, fanno chiarezza, in tema di responsabilità medica, sull’operatività di un presupposto imprescindibile di liceità dei trattamenti sanitari (salvo i casi di trattamenti necessari o obbligatori per legge) e sulla quaestio del riparto dell’onere probatorio tra medico e paziente.

Principio fondamentale sancito dalla Corte di Cassazione, in tema di responsabilità medica, è quello in base al quale “il consenso non può essere presunto”.

Dunque, è necessario non sottovalutare l’indispensabilità e l’importanza dell’esercizio del diritto all’autodeterminazione, e di conseguenza, sul piano pratico, della scrupolosa lettura e attenta sottoscrizione dei moduli prestampati di “consenso informato”, fermo restando che la sottoscrizione non esonera il medico dal fornire al paziente le dovute informazioni verbali, attraverso spiegazioni adeguate al suo livello culturale ed intellettuale e tenendo conto del suo particolare stato soggettivo.

In tal modo, il paziente viene posto in una condizione di “alleanza terapeutica” con il medico, e agevolato nell’affrontare il trattamento sanitario in una sorta di condivisione della speranza che tutto vada a buon fine.

In questa prospettiva, il paziente sarà propenso ad accettare in maniera meno traumatica un eventuale esito sgradevole ed avrà tendenzialmente una minore propensione ad incolpare il sanitario.

E’ diritto del paziente e preciso dovere del medico tutelare la libertà morale e fisica individuale, come si rinviene, oltre che nei citati artt. 13 e 32 Cost., nell’art. 33 L. n. 833 del 1978 (istitutiva del Servizio Sanitario Nazionale) – in base al quale gli accertamenti ed i trattamenti sanitari sono di norma volontari. Nei casi previsti da detta legge e in quelli espressamente previsti da leggi dello Stato possono essere disposti dall’autorità sanitaria accertamenti e trattamenti sanitari obbligatori, secondo l’articolo 32 della Costituzione, nel rispetto della dignità della persona e dei diritti civili e politici, compreso per quanto possibile il diritto alla libera scelta del medico e del luogo di cura – e

nell’art. 3 della Dichiarazione Universale dei diritti dell’uomo, a norma del quale “Ogni individuo ha diritto alla vita, alla libertà e alla sicurezza della propria persona”.

L’ordinamento giuridico italiano predispone adeguati mezzi a tal fine, spetta ad ogni individuo, svolgere il proprio ruolo secondo i principi di diritto e sempre nel rispetto dei diritti fondamentali della persona, e non incorrere nel grave errore di agire facendo affidamento a mere presunzioni come accaduto nel caso trattato.

Celentano Giusy Fabiola

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