Mediazione familiare: normativa Italiana e Comunitaria a confronto

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L’elaborato stilato, tratta il tema della mediazione familiare con maggior riferimento alla normativa Italiana e Comunitaria. Di seguito, vedremo come entrambe le norme agiscono e se vi è tra di loro conflittualità. Il legislatore, con l’introduzione dell’istituto della mediazione familiare, ha voluto “snellire” il carico giudiziario. Di seguito troveremo i dettagli.

Indice

1.  Mediazione familiare in Italia 

Tra le materie indicate dal recente d.lgs. 28/2010, che ha introdotto nel nostro ordinamento una disciplina organica in materia di mediazione finalizzata alla conciliazione delle controversie civili e commerciali, non è indicata quella relativa alla materia familiare, dunque, nel diritto di famiglia la nuova normativa non troverà applicazione.
Probabilmente la ratio seguita dal legislatore è stata di sottrarre dall’obbligo del previo percorso di mediazionele controversie che non hanno un evidente contenuto economico come nel caso della separazione personale tra coniugi, lo scioglimento del matrimonio e la cessazione dei suoi effetti civili che possono avere sì ricadute di natura finanziaria per l’esistenza degli interessati, ma non sono queste ultime a emergere in primo piano.
Sta di fatto che i preoccupanti livelli di litigiosità riscontrati nei giudizi di separazione e divorzio e il conseguente disagio per i figli hanno stimolato la ricerca di strumenti alternativi di intervento sulle controversie familiari che aiutassero i coniugi a riappropriarsi della gestione del conflitto e a raggiungere, quantomeno, un dialogo costruttivo.
A questi obiettivi sono finalizzati gli interventi di “mediazione familiare”, i quali occupano un ruolo determinante nell’ambito della moderna tendenza verso la previsione di modelli alternativi di gestione delle controversie, nonché di trattamento informale dei conflitti, volti all’autoregolazione degli interessi.
La definizione di mediazione familiare a cui si fa generalmente riferimento è quella contenuta nello Statuto della Società Italiana di Mediazione Familiare (S.I.Me.F.), in conformità con quanto espresso nella Charte européenne pour la formation à la médiation familiale del 1992, che fissa i criteri principali del profilo professionale, della formazione e della deontologia del mediatore familiare in campo europeo. «La mediazione familiare è un percorso per la riorganizzazione delle relazioni familiari in vista o in seguito alla separazione o al divorzio: in un contesto strutturato, il mediatore, come terzo neutrale e con una formazione specifica, sollecitato dalle parti, nella garanzia del segreto professionale in autonomia dall’ambito giudiziario, si adopera affinché i genitori elaborino in prima persona un programma di separazione soddisfacente per sé e per i figli in cui possano esercitare la comune responsabilità genitoriale».
La mediazione mira, quindi, a ristabilire la comunicazione fra le parti per poter raggiungere un obiettivo concreto: la realizzazione di un progetto di organizzazione delle relazioni dopo la separazione o il divorzio. L’obiettivo finale della mediazione familiare si realizza quando i genitori, nell’interesse proprio e dei figli, si riappropriano, pur separati, della comune responsabilità genitoriale, ad essi spettando ogni decisione finale.

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2. Normativa Italiana e Comunitaria

Qualche anno dopo, rispetto agli altri paesi europei, la mediazione familiare viene introdotta in Italia come conseguenza della profonda e complessa trasformazione che ha interessato la famiglia.
Avendo trovato un background socio-culturale favorevole, anche in Italia comincia a diffondersi la cultura della mediazione familiare, viste l’attualità delle tematiche implicate e la progressiva valorizzazione dell’accordo tra i coniugi come mezzo per realizzare la parità e l’unità all’interno del nucleo familiare oltre che l’autonomia e la parità di ciascun membro della coppia di fronte alle scelte in merito al vincolo matrimoniale.
Dopo una fase iniziale di diffidenza e astensione, il nostro legislatore ha iniziato, cautamente, a dare riconoscimento all’istituto della mediazione familiare in alcune previsioni normative. Innanzitutto, la L. 28 agosto 1997 n. 285 (c.d. Legge Turco-Napolitano), recante norme in tema di Disposizioni per la promozione di diritti e opportunità per l’infanzia e l’adolescenza che, all’art. 4, lett. i), prevede i servizi di mediazione familiare fra quelli che possono essere utilizzati per perseguire le finalità che la legge si prefigge, in attuazione della Convenzione di New York del 1989, resa esecutiva in Italia con L. 176/1991.
Il secondo richiamo alla mediazione familiare nella legislazione nazionale, sia pure riferita ad uno specifico ambito applicativo, si trova nella L. 4 aprile 2001, n. 154, recante norme in tema di Misure contro la violenza nelle relazioni familiari, che introduce nel codice civile l’art. 342-ter, nel quale si prevede espressamente che «il giudice possa disporre dove occorra l’intervento dei servizi sociali del territorio o di un centro di mediazione familiare».
Negli ultimi anni alcune amministrazioni regionali, tra cui Emilia Romagna, Valle d’Aosta, Liguria, Sicilia, hanno legiferato in materia di mediazione, istituendo e finanziando centri o corsi di formazione in mediazione familiare. Queste leggi regionali dimostrano l’attenzione degli Enti Locali verso lo strumento della mediazione familiare quale servizio che va garantito al cittadino.
Più specifica e dettagliata risulta, invece, una delibera della Giunta provinciale della Provincia autonoma di Bolzano, che non solo riconosce la mediazione familiare come servizio sociale da garantire ai cittadini della Provincia, ma definisce, nell’allegato A, le caratteristiche dell’istituto.
Il Consiglio di Giustizia e Affari interni dell’UE del 30 novembre 2000 ha sottolineato l’importanza di promuovere la mediazione familiare come metodo di risoluzione delle controversie familiari, in conformità a quanto stabilito nel regolamento “Bruxelles II“.
L’entrata in vigore, il 19 aprile 2003 (con L. 20 marzo 2003 n. 77), della Convenzione europea sull’esercizio dei diritti dei fanciulli di Strasburgo ha segnato una fase fondamentale nel percorso di diffusione e valorizzazione della mediazione: infatti, all’art. 13 la mediazione viene indicata come uno dei principali strumenti a tutela dei minori dei quali si vuole evitare il coinvolgimento nelle liti giudiziarie a garanzia della loro serenità.
Un ruolo importante nel processo di riconoscimento e di definizione dell’istituto della mediazione familiare è svolto dalla Risoluzione n. 616 del 21 gennaio1998 del Comitato dei Ministri del Consiglio d’Europa, che contiene la Raccomandazione n. R (98) 1 sulla mediazione familiare, nella quale si afferma la necessità di incrementare l’utilizzo della mediazione quale «metodo nell’ambito del quale un terzo imparziale e neutrale aiuti le parti a negoziare, ponendosi al di sopra del conflitto, e a raggiungere un accordo comune».
La suddetta Raccomandazione non solo individua nella mediazione familiare lo strumento più idoneo per affrontare i conflitti familiari, ma incoraggia i governi degli Stati membri ad «introdurre o promuovere la mediazione familiare anche attraverso la predisposizione di programmi informativi, o, dove necessario, potenziare l’opera di mediazione già esistente». Fondamentale nella Raccomandazione in esame è la sua appendice che sintetizza in maniera chiara e sistematica i principi della mediazione familiare che i singoli Stati membri dovranno impegnarsi ad applicare. Vengono, inoltre, affrontati e risolti molti problemi applicativi, che da tempo sono oggetto di discussione nel nostro paese: innanzitutto, l’area d’azione della mediazione pare possa estendersi a tutte le dispute familiari – dunque anche alle coppie di fatto – sia perché manca il riferimento esclusivo ai “coniugi”, sia perché si rinvia alla disciplina nazionale che ormai, nel nostro Paese, appare orientata verso un sempre maggiore riconoscimento della famiglia “non fondata sul matrimonio”.
Altro punto affrontato nella Raccomandazione riguarda l’organizzazione del servizio di mediazione, che può svilupparsi sia nel settore pubblico sia in quello privato; in particolare si consiglia la non obbligatorietà dell’accesso al servizio, la previsione di specifiche procedure di selezione, formazione e qualificazione dei mediatori, nonché una serie di principi metodologici e deontologici relativi alla figura del mediatore. Sul valore giuridico degli accordi raggiunti attraverso il processo di mediazione, è previsto solamente un invito agli Stati membri a favorirne la ratifica dell’autorità giudiziaria se le parti ne facciano richiesta. Riguardo al delicato tema del rapporto tra mediazione e procedimento giudiziario, la Raccomandazione riconosce l’autonomia della mediazione in relazione ai tempi e alle fasi del procedimento legale, e consente di sospendere il processo finché dura il percorso di mediazione, fatta salva la necessità da parte del giudice di prendere decisioni urgenti a tutela delle parti.
Sono stati in discussione alla Camera dieci proposte di legge, raccolte dal 23 luglio 2003 in un unico testo di sintesi c.d. Testo Paniz 2, testo base per le successive discussioni, intitolato Nuove norme in materia di separazione dei coniugi e affidamento condiviso dei figli. Il testo stabiliva uno stretto collegamento tra il nuovo istituto dell’affidamento condiviso e la mediazione familiare; si prevedeva, infatti, che in tutti i casi in cui sia disposto l’affidamento condiviso il giudice “deve” inserire nel provvedimento, su comune indicazione delle parti o anche d’ufficio, l’indicazione di un centro o di un esperto in mediazione familiare al quale le parti hanno l’ “obbligo” di rivolgersi.
La previsione della mediazione come passaggio obbligatorio all’interno del procedimento giudiziario, quasi come “condizione di procedibilità”, rischiava di snaturare un principio fondamentale della mediazione stessa rappresentato dalla volontarietà della scelta, sull’assunto che la spontaneità dell’adesione dei genitori al percorso mediativo costituisse presupposto indefettibile per la buona riuscita della mediazione stessa.
Alcuni autori ritengono più opportuno che la mediazione venga qualificata come una causa “volontaria” di sospensione del processo, nel caso in cui il giudice, accogliendo una comune richiesta delle parti, fissi un termine per la ripresa del
processo per evitare che la mediazione venga utilizzata come sterile strumento dilatorio.
La Legge 8 febbraio 2006 n. 54, Disposizioni in materia di separazione dei genitori e affidamento condiviso dei figli, costituisce l’epilogo definitivo del lungo iter parlamentare svolto dal testo Paniz 2.
L’affidamento condiviso si fonda sul principio che il fallimento di due individui come coppia non debba comportare necessariamente il loro fallimento come genitori. La mediazione familiare si inserisce perfettamente nella logica di evitare al minore il trauma legato alla perdita di un genitore, facendo in modo che durante la separazione i coniugi riescano a differenziare i problemi legati alla conflittualità della coppia da quelli relativi al proprio ruolo di genitore.
Nell’ultimo comma dell’articolo 1 della L. 54 è prevista l’introduzione dell’art. 155-sexies c.c., che al secondo comma, prevede nel nostro ordinamento il possibile ricorso all’istituto della mediazione familiare.
La norma in questione stabilisce che «il giudice, qualora ne ravvisi l’opportunità, sentite le parti e ottenuto il loro consenso, può rinviare l’adozione dei provvedimenti temporanei per consentire che i coniugi, avvalendosi di esperti, tentino una mediazione per raggiungere un accordo, con particolare riferimento alla tutela dell’interesse morale e materiale dei figli».
L’originario art. 2 del testo Paniz 2 e, con esso, la previsione relativa all’obbligatorietà del passaggio attraverso la mediazione familiare nella fase preliminare della separazione sono stati esclusi nella normativa di riforma.
Ciò è, in parte, dipeso dalla convinzione che “mediazione obbligatoria” sia un ossimoro, una contraddizione in termini, e che il successo della mediazione sia subordinato ad una profonda e volontaria adesione dei soggetti che intraprendono tale percorso.
Il legislatore con l’introduzione dell’art.155-sexies c.c. affida, dunque, alla sensibilità e alla cultura del giudice la possibilità di suggerire un percorso alternativo alla lite giudiziaria. E’ lasciata, quindi, al giudice la valutazione circa l’opportunità di rinviare l’adozione dei provvedimenti di cui all’art. 155 c.c. al fine di consentire un tentativo di accordo tra i coniugi al di fuori dell’aula del Tribunale, con specifica attenzione per le possibilità di accordo sulla tutela dei figli e del loro benessere morale e materiale.
Un primo presupposto è, dunque, rappresentato dalla discrezionalità valutativa del giudice che reputi “opportuna” la mediazione. L’opportunità non è legata ad una prognosi riguardante le sorti della mediazione ma ad un esame sommario del livello di conflittualità rilevato tra le parti, in relazione all’idoneità del “tentativo” di mediazione (mezzo) non già “dell’accordo” (risultato). Ciò che dovrà verificare non è tanto la probabilità di riuscita dell’accordo quanto la fattibilità del tentativo.
Altri requisiti indicati dalla norma in esame sono rappresentati dall’aver sentito direttamente le parti e dal loro consenso. Il giudice solo ascoltando direttamente le parti può esprimere quel giudizio di opportunità. Inoltre, solamente dopo aver verificato il consenso delle parti si giustifica e può risultare produttivo un rinvio che, altrimenti, costituirebbe un mero rallentamento della procedura.
Va, peraltro, sottolineato che la nuova disciplina, nel suo insieme, rimane alquanto vaga sotto vari profili: la figura del mediatore non viene identificata, poiché si parla genericamente di “esperti”; la scelta dell’esperto sembra dover essere fatta direttamente dalle parti, le quali non solo si trovano in una fase particolarmente delicata della loro vita, ma il più delle volte non hanno mai sentito parlare di mediazione; non viene indicato il momento più opportuno per tentare la mediazione (anteriore oppure in qualunque fase del processo) né, tantomeno, viene disciplinata in alcun modo l’efficacia (in termini di vincolatività oppure no) dell’accordo raggiunto al termine del percorso di mediazione.
E’ mancato in questa nuova legge, nonostante le aspettative, un intervento organico che si occupasse della mediazione familiare non in modo frettoloso ed in via incidentale, ma che disciplinasse con rigore il profilo professionale, la deontologia del mediatore e i criteri della formazione alla mediazione familiare.
Alla legge va, pertanto, riconosciuto il merito di aver previsto, tramite l’introduzione dell’art. 155-sexies, per la prima volta nel nostro ordinamento, il possibile ricorso all’istituto della mediazione familiare nei procedimenti di separazione e divorzio. Tale disciplina rimane, tuttavia, alquanto vaga sotto diversi profili lasciando aperte numerose questioni, quali la qualificazione giuridica del mediatore familiare che, tra l’altro, viene definito genericamente “esperto”, e la possibilità dell’applicazione della mediazione al rito del divorzio. E, su tali questioni, è intervenuta, in un’opera di supplenza, la giurisprudenza che ricostruisce la figura del mediatore familiare in termini di ausiliario atipico del giudice ex art. 68 c. p. c., sottolineando, in tal modo, l’impossibilità di qualificarlo in termini di nuova figura processuale.

3. Evoluzione legislativa della disciplina

La mediazione familiare fa ingresso nel nostro ordinamento con la legge n.285 del 28 agosto 1997, rubricata “ Disposizioni per la promozione di diritti e di opportunità per l’infanzia e l’adolescenza, con la quale è stato istituito, presso la Presidenza del Consiglio dei Ministri, il Fondo nazionale per l’infanzia e l’adolescenza, finalizzato alla realizzazione di interventi a livello nazionale, regionale e locale con lo scopo di favorire la promozione dei diritti dei fanciulli. Nel testo si fa riferimento alla “realizzazione dei servizi di preparazione e di sostegno alla relazione genitori-figli, di contrasto della povertà e della violenza, nonché di misure alternative al ricovero dei minori in istituti educativo assistenziali”, andando poi a sottolineare che tali finalità “possono essere perseguite, in particolare attraverso servizi di mediazione familiare e di consulenza per famiglie e minori al fine del superamento delle difficoltà relazionali” Si tratta di un riconoscimento molto significativo, poiché ha consentito ai centri di mediazione familiare già esistenti di accedere, non solo ai finanziamenti stanziati dagli Enti Locali presso cui erano stati costituiti, ma anche a fondi erogati a livello nazionale, direttamente dalla Presidenza del Consiglio dei Ministri e dai Ministeri competenti. Un passo successivo è stato compiuto con la legge n.154 del 4 aprile 2001, che ha introdotto nel codice civile gli articoli 342 bis e 342 ter, in merito ai cosiddetti ordini di protezione contro gli abusi familiari. Con questa disciplina il legislatore ha voluto tutelare i componenti più deboli dei nuclei di conviventi e familiari, quando la condotta di un altro soggetto con essi coabitante arrechi un grave pregiudizio alla loro integrità fisica o morale. La tutela si concretizza attraverso l’intervento del Giudice: questi d’ufficio o su istanza di parte, può ordinare al coniuge o al convivente, che abbia tenuto la condotta pregiudizievole, la cessazione della stessa, disponendo il divieto di non avvicinarsi ai luoghi abitualmente frequentati dal soggetto leso. Può inoltre adottare specifici provvedimenti accessori, fra i quali spicca la possibilità d’intervento dei servizi sociali del territorio o di un centro di mediazione familiare: tale rinvio, seppur generico, è molto importante, perché prevede, per la prima volta, la possibilità concreta per il Giudice civile di ricorrere ad un servizio di questo genere. Questa disciplina, al pari di quella delineata dalla legge n. 285/1997, contestualizza il concetto di mediazione definendola espressamente come “ familiare “, riferendosi specificamente non a tutte le modalità di conciliazione, che consentono di concludere velocemente la controversia giudiziale, ma alla tecnica mediativa, che consente di ricostruire il dialogo tra le parti in conflitto, per la creazione di una futura pace duratura. Tuttavia, non sono mancate critiche relative ad una plausibile incompatibilità tra la stessa disciplina ed il contesto in cui il Giudice emana i suddetti ordini di protezione : si tratta, infatti, di una situazione caratterizzata da violenza ed abuso, mentre i percorsi mediativi richiedono condizioni di collaborazione e reciprocità tra i coniugi. Pertanto si è ritenuto che, di fronte a contesti così delicati, la norma avrebbe dovuto avere un campo d’azione più limitato, prevedendo soltanto la possibilità per il Giudice di indicare i servizi territoriali competenti, per fornire un adeguato sostegno e un periodico controllo dei soggetti deboli pregiudicati.

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