L’origine dell’abolizionismo italiano

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Presupposti storico-giuridici.

             Nell’Ordinamento giuridico italiano, la pena di morte iniziò ad essere contestata sin dal 1861, anno dell’unificazione del Regno d’Italia. In particolar modo, Ellero e Carrara tentarono di recare innanzi e di diffondere le Teorie Abolizionistiche nel << Giornale per l’abolizione della pena di morte>>, diretto dai due summenzionati Giuristi dal 1861 al 1864. Il Giornale ha avuto il merito di lasciare un segno indelebile nella Storia del Diritto italiano, in tanto in quanto << era caratterizzato da una forte idealità e da un approccio prettamente teorico >> (D’AMICO 2004). Ciononostante, dopo un totale di 12 Numeri in 4 anni, la pubblicazione dovette essere interrotta per mancanza di risorse economiche. Ellero, Carrara ed i componenti della Redazione del Giornale erano Docenti Universitari, ma nemmeno gli Abolizionisti italiani più convinti riuscivano ad accettare ed apprezzare un taglio idoneo ad un Corso di Filosofia del Diritto più che di Diritto Penale o di Procedura Penale. P.e., con molta enfasi retorica, Ellero, nel << Programma >> contenuto a pg. 3 del n. 1/1861, scriveva: << si tratta di vedere se questa umanità, che ha creduto sin ora spegnere legittimamente le vite, non abbia fin ora per avventura commessi altrettanti assassinii >>. Sempre nel n. 1/1861, Ellero proclamava, in maniera altrettanto aulica e solenne, che << la durata prefissa a cotal opera è di necessità precaria: perocché, esaurita la discussione, appagato il voto, assicurato il trionfo, essa non ha più ragione d’esistere. Quindi la vita di questo giornale dura sino  a che rimane in diritto la morte: nasce col desiderio e colla speranza di non vivere a lungo, nasce per morire. Lettori, se amor Vi prende, compiangetene i natali, ma festeggiate ai funerali di sì strana esistenza ! >>.

La Giuspenalistica del neo-nato Regno d’Italia percepiva l’abolizione della pena di morte alla stregua di una ratio imprescindibile e necessaria. Prima del Codice Zanardelli, la sanzione capitale risultava abrogata nella sola Toscana. Malaugurevolmente, sino agli Anni Ottanta dell’Ottocento, la pena di morte rimase in vigore nelle altre Regioni italiche. Tuttavia, nella Dottrina giuridica, l’Abolizionismo stava lentamente avanzando, pur se si trattava di di discussioni tecniche riservate agli addetti ai lavori. Anche MEREU (2007) riconosce che Il Giornale di Ellero e Carrara ha avuto una risonanza scientifica limitata, il che non toglie l’importanza del ruolo del’Abolizionismo italiano, figlio primogenito del Pensiero di Beccaria e di tutto l’Illuminismo fancofono, sin dai tempi di Voltaire, Montesquieu e Rousseau. Già nell’Ottocento, la << morte come pena >> (MEREU, ibidem) era percepita come un insulto alla Civiltà Occidentale.

Nel contesto della Teoria Generale del Diritto recata innanzi dal Giornale, il Postulato di base, più volte ripetuto instancabilmente dal 1861 al 1864, era costituito dalla difesa giuridica della sacralità della vita umana, la cui suprema dignità non può ammettere eccezioni, nemmeno nel caso della pena di morte. Secondo FERRAJOLI (2010) il << diritto di uccidere >> è stato introdotto dal Diritto romano ed è stato giustamente contestato solamente verso i primi decenni del Settecento. Per la precisione, già nel Seicento, Grozio, nel << De jure belli ac pacis >>, aveva iniziato a concepire la sussistenza di un << diritto naturale alla vita >>, non contestabile e non violabile da parte di alcun Potere statale. Secondo MOCCIA (1979), il merito filo-abolizionista del Giusnaturalismo groziano è stato quello di gettare le fondamenta per una concezione della sanzione penale come strumento rieducativo o, al limite, contenitivo. In ogni caso, il Diritto Naturale del XVII Secolo non riconosceva alcun ruolo, né valido né giusto,  all’Istituto della pena capitale, percepita come una vendetta privata inammissibile all’interno di un Ordinamento in senso tecnico. A parere di DEZZA (1989), i Giusnaturalisti << teorizzavano il primato della legge sulle consuetudini >>. Viceversa, sino almeno al Quattrocento, nessun  Autore aveva mai messo in dubbio la legittimità giuridica del condannare a morte il responsabile di un illecito oggi definibile come << penalmente rilevante >>. Con Grozio ed i suoi seguaci, tra il XVII ed il XVIII Secolo, << è nata una diversa configurazione dei rapporti tra il potere di governo e gli individui ad esso sottoposti: il principio informatore risiedeva nell’asserita uguaglianza tra qualsiasi imputato, a prescindere dalla relativa qualificazione sociale. Da ciò discendeva una nuova concezione di pena, caratterizzata da certezza e proporzionalità; tali presupposti avrebbero rappresentato il miglior deterrente alla commissione dei reati, consentendo al contempo un’efficace emenda del reo >> (TARELLO  1976). In effetti, la ratio della condanna a morte è, necessariamente ed irreversibilmente, la neutralizzazione fisica e non la rieducazione del colpevole.

Senza la Riforma giusnaturalistica, peraltro criticabile nel lungo periodo, non si sarebbe evoluto il Garantismo democratico-sociale, grazie al quale, nelle Procedure Penali europee, si sono diffusi Principi quali l’accusatorietà, la stretta legalità, la pubblicità dei Procedimenti e la ratio della terzietà e dell’indipendenza del Magistrato giudicante.

 

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In Italia, Filangieri, nella sua << Scienza della Legislazione >> giustificò quello che ALVAZZI  DEL  FRATE (2006; 2007) chiama << il diritto di punire >>. Secondo Filangieri, assai influenzato da Locke e von Pufendorf, non contava tanto il Garantismo, quanto piuttosto il Patto Sociale naturale che, per evitare violenze arbitrarie, accentra nelle mani dello Stato sovrano la potestà di eseguire le condanne a morte, al fine di soddisfare le legittime aspettative di giustizia recate dalla Parte Lesa e da tutti gli altri consociati direttamente o simbolicamente danneggiati dall ‘infrazione anti-normativa. Filangieri, purtroppo, reputava che la pena capitale è una sanzione al pari delle altre e non v’è alcun motivo per diminuire o negare il << diritto di uccidere >> da parte della Pubblica Amministrazione sovrana. All’opposto, Beccaria, sempre nel solco della Dottrina penalistica italiana, << negava categoricamente il diritto di uccidere in capo al singolo individuo e, conseguentemente, tale diritto non poteva essere ceduto al Sovrano >> (DI  SIMONE  2005). Beccaria, ammetteva una delega di potestà allo Stato parziale anziché totale. Dunque, esistono diritti soggettivi ed interessi legittimi che debbono rimanere nella sfera privata e non possono essere affidati alla Magistratura o alle Istituzioni del Potere Esecutivo. Un terzo Dottrinario interessante, nell’Ottocento italiano, è Rossi, il quale distingueva tra il << diritto di legittima difesa >> ed il <<diritto di punire >> (ROSSI 1842). Secondo il testé menzionato Penalista, è legittimo dare la morte al reo nel solo caso di una legittima difesa, mentre, negli altri casi, << Rossi non qualificava la pena capitale come assolutamente illegittima, ma ne considerava l’applicazione pericolosa. Per tali motivi, egli ne auspicava una rapida abolizione >> (LACCHE’ 2001). Filangieri, a differenza del moderato ROSSI (ibidem) recava una nozione eccessivamente ampia della legittima difesa, la quale, tutt’oggi, costituisce un’opzione estrema, applicabile nel caso eccezionale in cui << non è punibile chi ha commesso il fatto per esservi stato costretto dalla necessità di difendere un diritto proprio od altrui contro il pericolo attuale di un’offesa ingiusta, sempre che la difesa sia proporzionata all’offesa >> (attuale comma 1 Art. 52 CP italiano). Parimenti, << non è punibile il pubblico ufficiale che fa uso ovvero ordina di far uso delle armi [ … ]  quando vi è costretto dalla necessità di respingere una violenza o di vincere una resistenza all’Autorità e comunque di impedire la consumazione dei delitti di strage, di naufragio, sommersione, disastro aviatorio, disastro ferroviario, omicidio volontario, rapina a mano armata e sequestro di persona >> (attuale comma 1 Art. 53 CP italiano). Anche, recentemente, SBRICCOLI (1982) contesta ROSSI (ibidem) asserendo che << certamente non può negarsi che nel contesto della legittima difesa un individuo possa disporre dell’altrui vita. Devono però individuarsi i limiti entro cui tale facoltà possa essere legittimamente esercitata >> Nel XIX Secolo, CARRARA (1870) contestava anch’egli apertamente le Teorie di Filangieri, in tanto in quanto << la pena di morte, oltre che inefficace, appare nefasta per mere deduzioni logiche di principii speculativi, indipendentemente dalle osservazioni pratiche >>. Tuttavia, negli Anni Duemila, il nascente e promettente Abolizionismo italiano post-risorgimentale è stato messo in dubbio, nell’essenza dei  propri contenuti, da  una Criminologia sciaguratamente vicina al neo-retribuzionismo statunitense.

 

La tematica dell’abolizione della pena di morte.

             Nei NN. 1/1861 e 2/1861 del Giornale per l’abolizione della pena di morte, Carrara pubblicò alcune delle sue più importanti Lezioni Universitarie di stampo abolizionista. Assai grozianamente, Carrara afferma che la pena di morte è inammissibile alla luce del Diritto naturale dell’uomo alla vita nonché all’auto-conservazione. L’unico caso di legittimità dell’uccisione di un essere umano è rinvenibile nel contesto della legittima difesa, la quale, in ogni caso, deve sempre attenersi alla caratteristica della proporzionalità della reazione all’atto offensivo. Nel N. 1/1861 del Giornale, Carrara definisce praticabile l’omicidio << quando è necessario alla conservazione di altri esseri innocenti >>, ovverosia a scopo strettamente difensivo. Al contrario, sempre nel N. 1/1861, si contesta la pena di morte quando essa è eseguita per fini esemplari e deterrenti, nel senso che << la legittimazione dell’intento intimidatorio e  preventivo [ della pena capitale ]  causa l’applicazione della pena di morte anche in danno di persone innocenti, in virtù della tutela di un interesse pubblico alla sicurezza astrattamente meritevole di maggior tutela rispetto alla vita del singolo individuo >> (DE  FRANCESCO  2007). In effetti, anche nella Carta Costituzionale italiana del 1948, non è tollerato lo strumento general-preventivo della << punizione esemplare >>. In secondo luogo, nei NN. 1/1861 e 2/1861 del Giornale, viene contestata pure << l’utilità >> della condanna a morte, in tanto in quanto, sempre alla luce del Giusnaturalismo di Grozio, è ontologicamente assurdo e proibito coprire il male del reato con il male dell’eliminazione fisica del reo, che può sempre essere rieducato, oppure contenuto con altri metodi trattamentali.

Nel pensiero di Carrara, l’unica sanzione criminale applicabile è quella privativa della libertà personale. Nei NN. 1/1861 e 2/1861 del Giornale, la ratio di fondo è che << i diritti dell’umanità, tra cui il diritto alla vita, sono caratterizzati dall’essere assoluti. La legge di natura è legge di conservazione e pertanto essa è volta a garantire la continuità del genere umano. Sarebbe quindi contrario a tale scopo conservativo l’uccisione di un uomo >> (FINZI  1900). Inoltre, sempre all’interno dell’ottica giusnaturalista di Carrara, il diritto umano alla vita è indisponibile. Dunque, il Legislatore, nell’esercizio della Sovranità a lui delegata, non può validamente statuire condanne a  morte. Egualmente, il Magistrato non potrà e non dovrà emettere Sentenze in cui è prevista la condanna alla pena capitale. All’opposto, nella Procedura Penale, è lecito incarcerare e, nella Procedura Civile, è legittima la sanzione del Pignoramento, ovverosia la punizione è legittima << quando non distrugge affatto l’umana personalità >> (n. 1/1861 – Il Giornale per l’abolizione della pena di morte). In altra sede, CARRARA (1877), concordando appieno con Beccaria, definisce il diritto indisponibile alla vita come << un dono di Dio >>, il quale rimane il solo a poter decidere sulla vita e sulla morte degli esseri umani.

In piena sintonia con il Giusnaturalismo, Carrara nega che lo Stato possa prevalere sul Patto Naturale originario. Viceversa, ogni Ordinamento giuridico ha il dovere di non violare i Diritti perenni ed universali dell’essere umano, tra cui il Diritto alla vita. Anzi, nel Giornale, Carrara afferma che << il colpevole non calcola sulla pena mite, ma sulla impunità >>, nel senso che il predetto Giurista, alla luce della propria esperienza forense quotidiana, evidenzia che la pena di morte non produce deterrenza, per quanto ciò possa apparire paradossale agli occhi dei numerosi filo-retribuzionisti italiani contemporanei, che vorrebbero imitare la disastrosa esperienza statunitense. Molti demagoghi degli Anni Duemila vorrebbero nascondere all’opinione pubblica italiana che la maggior brevità della pena detentiva reca pure al maggior livello di deterrenza. Non si tratta di simpatie progressiste o intellettualoidi, bensì della ratio anglo-sassone denominata <<sharp-shock-system >>, assai utile, specialmente nel contesto del Diritto Penale Minorile. Anzi, la previsione della pena di morte incentiva, anziché diminuire la recidiva, pur se tale paradosso viene sistematicamente sottaciuto nell’ambito dei dibattiti politici e pre-elettorali. Sapere che sarà probabile un’eventuale condanna a morte incattivisce ed indurisce il reo, sino a togliergli ogni freno inibitorio nel delinquere. A tal proposito, nel n. 1/1861 del Giornale, Carrara, con il consueto stile aulico ottocentesco, asserisce: << non si è voluto comprendere che ogni esecuzione capitale è una prova matematica che per colui fu inutile la minaccia del patibolo >>. Detto con lemmi meno retorici ed alla luce degli Artt. 13 e 27 dell’attuale Costituzione italiana, << la pena deve trovare giustificazione esclusivamente nei principi di giustizia, di proporzione e di uguaglianza >> (SANTORO 1936). In uno scritto repertato e catalogato da GALLO (1894), Carrara, sempre in tema di pena di morte, riconosce il pericolo costante dell’errore giudiziario e, senza mai divinizzare la Magistratura, scrive, con molta sincerità: << condannando un uomo alla reclusione, noi siamo certi di infliggergli una pena, di condannarlo a soffrire. La morte è forse una pena ? … Noi avversiamo la pena di morte  per amore dell’umanità, non per amore del delinquente. Noi avversiamo la pena di morte, perché la sua irreparabilità ci fa tremare per la condanna di un innocente… Noi avversiamo la pena di morte, perché ci pare di sentirci meno tranquilli e meno sicuri in faccia alla medesima. Ci sentiamo meno tranquilli perché pensiamo che le aberrazioni umane possono condurre a colpire innocenti … la reclusione perpetua è temuta da tutti  …  molti e molti non temono la morte >>. Anche BECCARIA (1823) riconosceva che l’ergastolo è paragonabile ad un schiavitù a vita. Dunque, la reclusione svolge una funzione intimidatrice e preventiva maggiore rispetto alla previsione penalistica della condanna a morte, la quale non è né deterrente né utile.

E’apprezzabile, se si prescinde dall’eccessiva enfasi retorica, anche CARRARA (1864), il quale afferma << cosa dimostra la storia ? Essa c’insegna che la pena di morte ha servito per uccidere Socrate e Gesù Cristo, vale a dire l’uomo integerrimo e il figlio di Dio incarnatosi per dettare alle genti la legge d’amore … E’dunque un paradosso dire che la storia dimostra la giustizia della pena capitale, per la ragione che essa ha servito ad uccidere i giusti >>. Il Giusnaturalismo, in quattrocento anni di storia del Diritto occidentale, ha purtroppo recato a legittimare distorsioni etiche e persino dittature. Ognimmodo, concepire il diritto alla vita come un diritto supremo naturale è opportuno e senz’altro degno di una Civiltà giuridica garantistica e democratica.

 

L’Abolizionismo ed il Diritto Penale italiano post-unitario.

             Nel Marzo 1876, la Sinistra storica affidò a Mancini il Ministero della Giustizia, che, un paio di mesi dopo le elezioni, ottenne dal Parlamento l’abolizione della pena di morte nel neo-costituito Regno d’Italia. Ciononostante, lo scioglimento della Camera dei Deputati impedì un rafforzamento pieno e stabile delle Teorie Abolizionistiche all’interno del Codice Penale. Provvidenzialmente, l’On. Mancini, nel 1877, riuscì comunque ad introdurre Norme idonee per l’abrogazione della pena di morte. Il tutto grazie al sostegno culturale nonché istituzionale delle Facoltà di Giurisprudenza, delle Corti di Cassazione, delle Corti d’Appello, delle Procure Generali e dei Consigli degli Ordini degli Avvocati. Sicché, dal 1877 al 1890, le Sentenze di condanna a morte continuavano ad essere emesse ancorché non eseguite nella Prassi quotidiana dell’Esecuzione Penitenziaria italiana.

Nel 1833, Zanardelli mise mano ad un primo Avamprogetto per un nuovo Codice Penale, presentato alla Camera dei Deputati nelle Sedute del 26/11/1883 e dello 04/07/1887. Assai importanti furono pure i Lavori Preparatori presso la Camera dei Deputati ed il Senato dall’8 al 17 Novembre 1888. In particolar modo, decisive furono le Relazioni parlamentari degli Onorevoli Zanardelli, Pessina e Viglioni. Favorevoli con riserva, invece, i Deputati Ferri, Gallo, Cuccia e Chimirri. Quest’ultimo definì l’abolizione della pena di morte come << una misura affrettata e prematura rispetto alla coscienza giuridica del Paese >>. Ognimmodo, in definitiva, prevalse la svolta umanitaria ed illuministica del Guardasigilli Zanardelli ed il nuovo Codice Penale entrò in vigore in data 01/01/1890. Dal 1890 sino all’inizio della Dittatura fascista, la condanna a morte rimase in vigore soltanto nel Codice Penale militare.

CARAVALE  (2008) ritiene che il Codice Zanardelli << rappresenta il coronamento della battaglia abolizionista portata avanti e sviluppatasi attraverso il Giornale per l’abolizione della pena di morte fino al 1864. Nel dibattito parlamentare svoltosi successivamente al 1864, si rinvenivano, difatti, con sorprendente frequenza, le posizioni abolizioniste emerse nella rivista. A tal proposito, non è inopportuno affermare che in assenza della sensibilizzazione operata dal Giornale verso tanto l’opinione pubblica quanto a livello politico non si sarebbe raggiunto tale pregevole risultato >>. Con Zanardelli, l’Abolizionismo divenne un ideale diffusamente condiviso dai Giuristi italiani. Non si trattava più di un dibattito élitario o progressista. Addirittura, alcuni Parlamentari avevano deciso di abbandonare il loro iniziale parere favorevole nei confronti della pena capitale. Fu il caso degli ex Ministri  della Giustizia De Filippo e Menabrea. Tuttavia, non mancavano coloro che, nei Lavori Preparatori, definivano << non ancora maturi >> i tempi e le circostanze. Sicché, l’Abolizionismo non fece ingresso all’interno della Giurisdizione riservata ai componenti delle Forze Armate.

Zanardelli, sotto il profilo della propria Filosofia del Diritto, riconosceva l’universalità integrale del diritto alla vita. Ciononostante, la soppressione fisica del reo di tradimento o di declino d’ubbidienza continuò ad essere legittimata in caso di guerra.

Secondo STRONATI (2009), ciò che impediva la piena vittoria precettiva dell’Abolizionismo era il Brigantaggio, a sua volta connesso alla << Questione Meridionale >>, la quale generava gravi disordini e destabilizzava l’unità nazionale creata nel 1861. A parere di TRONCONE (2001), i Governi pregressi alla Riforma Zanardelli avevano deciso di mantenere in vita l’utilizzo del patibolo al fine di poter ripristinare l’Ordine costituito nelle Regioni del Meridione italiano, colpito da conflitti sociali profondi, che rischiavano di sfociare in una vera e propria guerra civile. In buona sostanza, il problema era quello di << governare un’emergenza >> (LATINI 2005) e, dunque, gli aspetti teorici ed idealisti dovevano necessariamente passare in secondo piano. I Briganti erano un ostacolo non da poco << e le ragioni di necessità ed urgenza a volte prevalevano nettamente sulle ragioni di garanzia e di stretta legalità …  esisteva un diffuso arbitrio militare che causò l’utilizzo di mezzi e pratiche illegali nei confronti dei briganti. … Si pensi, ad esempio, che si riscontravano numerosi casi in cui i militari procedevano arbitrariamente alla  fucilazione degli imputati senza che a questi fosse garantito un  regolare processo né la possibilità di esercitare alcun diritto di difesa >> (LATINI, ibidem). In alcuni interventi parlamentari, persino Carrara era giunto al punto di tollerare una permanenza temporanea ed eccezionale della pena di morte nei confronti dei rei del reato a-tipico  di Brigantaggio. Non  mancarono Giuristi che sottolineavano l’illegittimità di Normative penali non ordinarie, alla luce soprattutto del Principio di eguaglianza sancito nello Statuto Albertino.

Altrettanto non semplice era la previsione della pena di morte nel Codice Penale militare. Anche in questo caso, le necessità pratiche prevalsero su quelle teoriche. Molti Giuristi reputavano che, nello << stato di guerra >>, l’ubbidienza andava implementata grazie al presunto effetto deterrente della fucilazione, il che, tuttavia, non era sufficiente a spiegare, dal punto di vista tecnico-giuridico, tale limitazione al Diritto Naturale alla conservazione della vita. Dopotutto, la lotta ai Briganti costituiva una sorta di guerra interna e non uno << stato di guerra >> nel senso proprio. Oltretutto, il Procedimento Penale militare, nell’Ottocento italiano, era quasi totalmente privo di idonee garanzie per la difesa dell’incriminato.

 

 

Una delle maggiori lacune dell’Abolizionismo italiano dell’Ottocento consiste nel non aver esteso il nuovo Riduzionismo istituzionale all’ambito del Diritto Penitenziario. Bisognerà attendere la Riforma Margara del 1975 per scorgere l’inizio di qualche timido miglioramento. Viceversa, in Inghilterra, in Francia ed in Portogallo, l’abrogazione della pena di morte venne da subito congiunta ad un nuovo e più idoneo Ordinamento carcerario. In effetti, non aveva senso abolire la pena capitale senza approfondire o, comunque giuridificare quella che sarebbe stata la ratio ex comma 3 Art. 27 della Costituzione italiana del 1948. E’innegabile che, negli Anni Novanta dell’Ottocento, il Codice Zanardelli non mise mano al rinnovamento di un’esecuzione penitenziaria che prevedeva, a livello concreto, percosse, umiliazioni inutili, punizioni a-tipiche ed isolamento totale. Togliere al ristretto contatti regolari con gli altri detenuti e con la famiglia significava e significa porre in atto un << trattamento crudele e disumano >> reputato illegale, nel Novecento, dalla CEDU e dalle Regole Penitenziarie europee. Mancavano Principi come la finalità rieducativa della detenzione e la preparazione del condannato a vivere esente da pena (Art. 75 schwStGB). Inoltre, a tale disagevole contesto retribuzionista va aggiunto pure il problema di un’edilizia carceraria completamente carente. Ciononostante, l’Abolizionismo italiano, sin dagli Anni Sessanta del XIX Secolo, ha avuto il merito innegabile di sfatare il mito secondo cui la pena di morte avrebbe un notevole effetto di deterrenza anti-criminogeno e general-preventivo. Lo dimostra, d’altronde, la diffusione esponenziale del reato di  omicidio volontario nei Paesi che praticano l’uso dell’iniezione letale, della fucilazione o della sedia elettrica

 

 

 

B  I  B  L  I  O  G  R  A  F  I  A

 

 

ALVAZZI  DEL  FRATE, Gaetano Filangieri et l’interprétation de la loi. La tradition italienne et

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                         journées internationales d’histoire du droit, Aix-en-Provence, 2006

idem               Illuminismo e interpretazione. Gaetano Filangieri e le “ Riflessioni politiche “ del

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Dott. Andrea Baiguera Altieri

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