L’onere della prova del credito vantato dalla banca

Redazione 05/02/20

Nelle cause di opposizione a decreto ingiuntivo e nelle domande di ammissione al passivo fallimentare

Sebbene possa apparire banale e chiaro l’onere della prova dei fatti costitutivi di un diritto o dei fatti costitutivi di un eccezione, l’onere della prova  nelle cause di accertamento negativo del credito o di ripetizione assume particolare rilevanza visto, soprattutto, quanto costantemente affermato dalla giurisprudenza  distinguendo l’ipotesi in cui ad agire è il correntista da quella in cui ad agire -e, in particolare, a richiedere il soddisfacimento del credito vantato- è la banca.

Richiamando l’attenzione, adesso, a quest’ultima ipotesi, ricordiamo che è molto frequente il caso in cui l’impresa creditizia agisca con ricorso per decreto ingiuntivo che, come sappiamo, è un provvedimento concesso -in presenza di determinati presupposti- inaudita altera parte e, dunque, a contraddittorio eventuale e differito.

Il decreto ingiuntivo

Le banche possono richiedere ed ottenere il decreto ingiuntivo ex art. 50 del Testo Unico Bancario secondo cui “La Banca d’Italia e le banche possono chiedere il decreto d’ingiunzione previsto dall’articolo 633 del codice di procedura civile anche in base all’estratto conto, certificato conforme alle scritture contabili da uno dei dirigenti della banca interessata, il quale deve altresì dichiarare che il credito è vero e liquido”. La giurisprudenza è unanime, però, nel ricordare che  tale dichiarazione così come gli estratti conto se sono documenti validi ai fini della richiesta e concessione del decreto ingiuntivo,  se contestati,  non costituiscono prova nel giudizio di opposizione proposta dall’utente. In materia di rapporti in conto corrente, in particolare, la giurisprudenza di merito e di legittimità ha più volte ribadito il principio che la banca ha l’onere  di documentare come si è determinato  il saldo dalla stessa vantato fin dalla prima movimentazione.  Nel caso in cui  la banca, invece, produca la documentazione contabile solo a partire da una certa data e la prima movimentazione trascritta nel primo della serie degli estratto conto che è riuscita a produrre risulti a debito per la correntista, un consistente orientamento giurisprudenziale ha ribadito il principio secondo cui, in tal caso, non essendo provato come si possa essere determinato quel saldo a debito per il correntista trascritto nel primo degli estratti pronti prodotti, esso deve essere convertito “a zero” conteggiandosi, così, solo i movimenti successivi.

E’ evidente, in questo caso, l’effetto vantaggioso per il correntista.  Negli ultimi anni  la giurisprudenza ha ulteriormente sviluppato questo principio ulteriormente precisandolo  visto che, in effetti, in presenza di clausole contrattuali o addebiti di cui il correntista-opponente  eccepisca la nullità,  ben potrebbe accadere che alla data a partire dalla quale la banca ha prodotto gli estratti conto, in virtù della rideterminazione contabile, quel correntista abbia invece maturato un credito derivante dalla ripetizione  degli importi indebitamente corrisposti nel periodo precedente. E’ anche in conseguenza di tale attenta riflessione che la giurisprudenza di legittimità, e a seguire quella di merito,  con varie pronunce hanno, invece, ribadito che nel giudizio di opposizione a decreto ingiuntivo in materia di rapporti bancari in conto corrente, laddove la banca non documenti come si è formato il saldo creditore  attraverso la produzione degli estratti conto fin dalla prima operazione e dunque fin dal sorgere del rapporto,  la domanda deve essere rigettata con conseguente revoca integrale del decreto ingiuntivo:  ciò in quanto, nel rapporto di conto corrente, la chiusura eventualmente trimestrale non determina rapporti autonomi e quindi non si può escludere che il correntista abbia maturato un credito nel periodo non documentato. Ribadito, infatti, (come affermato da Cass. civ., sez. I, sent. 16 aprile 2018, n. 9365 in un caso avente ad oggetto ricorso avverso il decreto col quale il tribunale aveva rigettato l’opposizione allo stato passivo) che “la banca che si dica creditrice deve produrre gli estratti a partire dall’inizio del rapporto, dando così integrale dimostrazione del credito vantato con riguardo alle afferenti risultanze”, è stato affermato che La banca non può pretendere, sol perché non in grado di produrlo, l’azzeramento di eventuali risultanze del primo degli estratti conto utilizzabili per la ricostruzione del rapporto di dare e avere tra le parti, in quanto ciò comporterebbe l’alterazione sostanziale del rapporto di conto corrente bancario”. “Tale rapporto vede nella banca l’esecutrice degli ordini impartiti dal cliente. Esso, unitariamente strutturato, postula operazioni di prelievo e di versamento non integranti distinti e autonomi rapporti di debito e credito tra banca e cliente, rispetto ai quali l’azzeramento unilaterale delle risultanze possa valere alla stregua di rinuncia. L’accertamento giudiziale deve perciò considerare tutte le evidenze contabili, poiché il saldo del conto presuppone in sé la effettiva e integrale ricostruzione del dare e dell’avere: dunque suppone di procedere sulla base di dati contabili certi in ordine alle operazioni ivi registrate, senza possibilità di ricorrere a criteri presuntivi o approssimativi” (in tal senso anche Cass. civ., sez. I, sent. 21 dicembre 2018, n. 33355: “nel contratto di conto corrente bancario, la banca che assuma di essere creditrice del cliente ha l’onere di produrre in giudizio i relativi estratti conto a partire dalla data della sua apertura, non potendo pretendere l’azzeramento delle eventuali risultanze del primo degli estratti utilizzabili in quanto ciò comporterebbe l’alterazione sostanziale del medesimo rapporto, che vede nella banca l’esecutrice degli ordini impartiti dal cliente, i quali si concretizzano in operazioni di prelievo e di versamento, ma non integrano distinti e autonomi rapporti di debito e credito tra cliente e banca, rispetto ai quali quest’ultima possa rinunciare azzerando il primo saldo (Cass., 16/04/2018, n. 9365). Ne discende che non può condividersi l’assunto della ricorrente, secondo cui, quando è la banca ad agire in giudizio, ed il primo estratto conto sia –come nella specie- a debito del correntista, <<la ricostruzione dell’andamento del rapporto deve essere effettuata partendo dal saldo zero>>. Vi osta, come dianzi detto, la natura stessa del contratto di conto corrente, connotato dalla continuità contabile delle relative appostazioni, che non consente il frazionamento delle operazioni di debito e credito eseguite dalla banca su disposizione del correntista”).

La giurisprudenza

Si ricorda, oltretutto, che la giurisprudenza di legittimità -oltre che quella di merito- ha più volte ribadito che nemmeno è fondata la tesi della banca fondata su una sorta di facoltà di distruggere la documentazione oltre il termine decennale di cui all’art. 119 del Testo Unico Bancario dal momento che tale facoltà (peraltro, oggetto di orientamento non uniforme quando il rapporto bancario è ancora pendente) non comporta una deroga all’onere di provare il fatto costitutivo del diritto di credito vantato. La banca, quindi, laddove vanti un credito ed intenda ottenere il soddisfacimento del diritto deve fornire la prova del fatto costitutivo attraverso la produzione dell’intera documentazione contrattuale e contabile, pena la revoca del decreto ingiuntivo o, comunque, il rigetto della domanda, oppure, in alcuni casi l’azzeramento del saldo debitore.

E’ stato affermato, quindi, il seguente principio di diritto: “Nei rapporti bancari di conto corrente, una volta che sia stata esclusa la validità della pattuizione di interessi ultralegali o anatocistici a carico del correntista e si riscontri la mancanza di una parte degli estratti conto, il primo dei quali rechi un saldo iniziale a debito del cliente, occorre distinguere il caso in cui il correntista sia convenuto da quello in cui sia attore in giudizio: a) nella prima ipotesi l’accertamento del dare e avere può attuarsi con l’impiego di ulteriori mezzi di prova idonei a fornire indicazioni certe e complete che diano giustificazione del saldo maturato all’inizio del periodo per cui sono stati prodotti gli estratti conto; possono inoltre valorizzarsi quegli elementi, quali ad esempio le ammissioni del correntista stesso, atti quantomeno ad escludere che, con riferimento al periodo non documentato da estratti conto, questi abbia maturato un credito di imprecisato ammontare (tale da rendere impossibile la ricostruzione del rapporto di dare e avere tra le parti per il periodo successivo), così che i conteggi vengano rielaborati considerando pari a zero il saldo iniziale del primo degli estratti conto prodotti; in mancanza di tali dati la domanda deve essere respinta; b) nel caso di domanda proposta dal correntista l’accertamento del dare e avere può del pari attuarsi con l’utilizzo di prove che forniscano indicazioni certe e complete atte a dar ragione del saldo maturato all’inizio del periodo per cui sono stati prodotti gli estratti conto; ci si può inoltre avvalere di quegli elementi che consentano di affermare che il debito nell’intervallo non documentato sia inesistente o inferiore al saldo passivo iniziale del primo degli estratti conto prodotti o che permettano addirittura di affermare che in quell’arco di tempo sia maturato un credito per il cliente stesso; diversamente si devono elaborare i conteggi partendo da tale saldo debitore“.

Tali principi valgono, ovviamente, anche nel caso di domanda, formulata dalla banca, di insinuazione al passivo fallimentare. Sono molte, infatti, le pronunce dei giudici di merito e di legittimità che hanno rigettato le domande formulate dalla banca per ottenere il soddisfacimento del credito in sede fallimentare se non supportate dalla documentazione contrattuale e contabile completa tenuto tra l’altro tutto che il curatore, da una parte e sotto alcuni profili, è soggetto terzo rispetto al correntista e, quindi, ha il potere-dovere di sollevare eccezioni; dall’altra parte, deve tutelare anche gli interessi del soggetto fallito; si consideri a tal proposito anche che una recente pronuncia della Corte di Cassazione (Cass. Civ. 20 giugno 2019, Sez. III, n.16589), sebbene in materia diversa da quella bancaria -ma con principio che si dovrebbe ritenere valevole in ogni ambito-, ha ricordato che il curatore ha il dovere di rappresentare anche gli interessi del fallito (usando un termine che fortunatamente il nuovo codice della crisi ha eliminato). “Il curatore invero amministra il patrimonio del fallito e ne cura la liquidazione; tali compiti sono esercitati, in prima istanza, nell’interesse dei creditori, ma non può negarsi che un interesse diretto vada ravvisato anche in capo al debitore fallito, in quanto una migliore amministrazione e liquidazione del patrimonio comporta una diminuzione dei debiti residui, con conseguenti maggiori possibilità di potere godere del patrimonio residuo (…)”.

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