1. Introduzione; 2. La famiglia fondata sul matrimonio ed il pluralismo dei modelli familiari; 2.1 Il matrimonio; 2.1.1 L’atto matrimoniale: nullità relative ed assolute e gli impedimenti impedienti; 2.1.2 Il rapporto coniugale: diritti e doveri dei coniugi; 2.1.3 (segue) Il dovere di fedeltà: 2.1.4 (segue) Il dovere di assistenza materiale e morale; 2.1.5 (segue) Il dovere di collaborazione; 2.1.6 (segue) L’obbligo di coabitazione; 2.1.7 (segue) Il dovere di contribuzione; 2.2 La convivenza more uxorio: dal diritto pretorio alla L. 70/2016; 2.2.1. Il regime patrimoniale della famiglia di fatto: i contratti di convivenza; 2.2.3 (segue) La cessazione della convivenza; 2.3 La famiglia omosessuale: la disciplina delle Unioni Civili; 3. Gli illeciti endofamiliari; 3.1 (segue) La tesi della natura contrattuale dell’illecito endofamiliare; 3.2 L’illecito endofamiliare e la tesi del danno ingiusto in una relazione qualificata; 4. Conclusioni |
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Introduzione
Nell’ordinamento positivo non è rinvenibile una definizione del concetto di famiglia, la quale va desunta, quindi, estrapolandone le coordinate dal panorama storico-sociale di riferimento.[1]
In prospettiva diacronica la famiglia ha ricoperto il ruolo di struttura primaria della società dotata di una sorta di “personalità super-individuale” contrapposta al potere statuale.
In questa prospettiva, parafrasando una nota metafora d’alta dottrina, la famiglia appariva come un’isola che il diritto doveva lambire (jemolo c.), come il mare, solamente lungo le coste, definendola nel perimetro, senza mai ingerirsi al suo interno.
Nell’originaria disciplina codicistica la comunità familiare, gerarchicamente strutturata, era orientata al perseguimento di interessi pubblicistici.
Il fulcro della concezione pubblicistica della famiglia fondata sull’indissolubilità del matrimonio risiedeva nell’incarnazione degli interessi della comunità nel pater familiae che ne esercitava controllo e la direzione tramite la potestà, patria e maritale.
Lo statuto giuridico della famiglia patriarcale imponeva la riunione dei poteri di rappresentanza economica e giuridica della famiglia nelle mani del pater familiae, il quale gestiva l’intero patrimonio familiare, comprensivo dei beni della moglie e dei figli, rappresentandola all’esterno in tutti i rapporti contrattuali o extracontrattuali con i terzi.
In capo al pater familiae, corrispettivamente, si costituiva un totalitario obbligo di mantenimento della moglie e della prole, onnicomprensivo ed in grado di assorbire qualsivoglia ulteriore obbligo civilistico, tanto di natura risarcitoria che di natura restitutoria.
Lo scardinamento del modello patriarcale della famiglia ad opera dell’assemblea costituente, costituisce fulgido esempio di come l’opzione per un dato sistema normativo proiezione di un determinato assetto valoriale può incidere nella progressiva caratterizzazione della struttura sociale.
Ergo, l’innesto del principio di eguaglianza giuridica e morale e l’elevazione del coniugio ad organo collegiale di rappresentazione e direzione della famiglia nucleare, e non più patriarcale, non costituisce l’approdo risolutivo di un progressivo mutamento della coscienza sociale, bensì una scelta direzionata alla realizzazione di una netta soluzione di continuità con lo stato monarchico e fascista e con il complessivo assetto valoriale che aveva caratterizzato la storia italiana dall’unità in poi.
La carta costituzionale conferma la posizione della comunità familiare quale nucleo informatore della struttura sociale, non rescindendo dall’affermazione del primato della famiglia tradizionale, eterosessuale e fondata sul matrimonio, impresso nell’art. 29 cost., ove al modello familiare incentrato sul coniugio equiordinato viene riconosciuta tutela privilegiata rispetto alle altre formazioni sociali che, invece, trovano ristoro costituzionale all’art. 2.
La persistente rilevanza della famiglia fondata sul matrimonio quale nucleo informatore della società è corroborata anche dalla precisa scelta sistematica dell’allocazione della tutela costituzionale della famiglia nella disposizione di apertura del titolo ii disciplinante “rapporti etico-sociali”, è desumibile dal co. 2 dell’art. 29 cost., ove il principio dell’uguaglianza morale e giuridica dei coniugi incontra i limiti stabiliti dalla legge a garanzia dell’unità familiare – limiti di cui, a contrario, non v’è traccia nell’alveo della tutela costituzionale delle altre formazioni sociali.
Nell’intenzione del legislatore costituzionale la famiglia incarna la medesima posizione privilegiata retaggio della tradizione romanistica, divergendone per la strutturazione interna.
Va detto, per ciò, parafrasando notoria dottrina, che un’interpretazione storico-comparativa che tiene conto delle intenzioni dell’assemblea costituente, la famiglia costituzionalmente privilegiata è quella fondata sul matrimonio eterosessuale ed indissolubile (roberto bin).
Ciò pone una serie di problematiche in relazione alla progressiva affermazione del pluralismo dei modelli familiari, e segnatamente con riferimento alla possibilità di estendere la tutela costituzionale prevista all’art. 29 anche i modelli familiari non fondati sul matrimonio.
Prima di affrontare tale tematica, delicata anche sotto il profilo della sensibilità culturale, occorre ricordare che l’indissolubilità del vincolo coniugale realizzava un sistema di tendenziale oscuramento della volontà personale dei coniugi, la cui primaria rilevanza nel momento costitutivo del vincolo, veniva assorbita dall’interesse superindividuale della sopravvivenza della comunità familiare.
Prima dell’emanazione della l. 1 dicembre 1970, n. 898 non era, per ciò, possibile recedere definitivamente il vincolo coniugale liberandosi dai doveri matrimoniali, senza che tale opzione legislativa violasse le libertà fondamentali dell’individuo.
Il sistema di tendenziale oscurazione della volontà personale dei coniugi in conseguenza alla costituzione del vincolo si esprimeva anche attraverso la tassatività delle cause di attenuazione dei doveri coniugali, tramite l’attivazione del rimedio sanzionatorio della responsabilità per colpa.
L’allentamento delle resistenze dell’indissolubilità del vincolo coniugale, a parere di chi scrive, trova l’apice nella successiva riforma culminata nell’integrale novellazione del libro i del codice civile tramite l’emanazione della l. 19 maggio 1975, n. 151.
Il nuovo statuto giuridico della famiglia nucleare, equiordinata e giuridicamente unitaria, viene definitivamente improntato al principio costituzionale dell’uguaglianza morale e giuridica dei coniugi, i cui corollari sono declinati trasversalmente all’interno del codice civile, mentre la durata del coniugio sottoposto alla perduranza della voluntas e dell’affectio coniugalis, mediante il passaggio alla cd. Separazione rimediale.
Il controllo e la direzione della famiglia, come anche la rappresentanza giuridica ed il potere di amministrazione, viene affidato ai coniugi ai quali è rimesso l’obbligo di stabilire l’indirizzo della vita familiare e di porre in essere, anche disgiuntamente, gli atti necessari alla sua attuazione.
L’equiordinazione del coniugio, vero e proprio “organo collegiale” di direzione della famiglia nucleare, impresso nel novello art. 143, co. 1 cod. Civ., si realizza mediante l’attribuzione, ad ambedue i coniugi, dei medesimi “diritti ed obblighi”.
L’unicità giuridica della famiglia nucleare si realizza mediante l’elevazione della comunione dei beni, a regime patrimoniale legale della famiglia improntato sul modello germanistico della cd. Proprietà solidale, o “a mani riunite”, nonché tramite la limitazione dell’opponibilità ai terzi delle violazioni del regime congiunto per il compimento di atti di straordinaria amministrazione il cui annullamento può essere domandato del coniuge pretermesso comunque entro un anno dalla trascrizione dell’atto, se soggetto a trascrizione, dal suo compimento o dal momento in cui il coniuge leso ne ha avuto contezza, ai sensi dell’art. 184 cod. Civ.
La famiglia rimane, per ciò, anche nel rinnovato assetto costituzionalmente orientato, un’entità collettiva caratterizzata dal preminente interesse della sua sopravvivenza.
Tale favor matrimonis, tuttavia, non risiede più nell’interesse pubblicistico di controllo e garanzia di solidità della struttura sociale tramite un complesso normativo teso a garantire l’unità del consorzio familiare quale argine alle derive personalistiche; bensì nell’interesse costituzionale di tutela delle formazioni sociali quali luoghi ove si svolgono e realizzano le personalità individuali dei partecipanti.
A sostegno di ciò depone il nuovo assetto rimediale dell’istituto della separazione personale concepito nell’ottica di una rimeditazione delle condizioni e situazioni sottese alla crisi non definitiva della famiglia.
L’intollerabilità della convivenza, quale presupposto della separazione rimediale, realizza la tensione verso l’acutizzazione della funzione individualistica della famiglia, rilevandosi criterio catalizzatore della rinnovata concezione del matrimonio quale atto di libertà e responsabilità sottoposto alla perduranza del consenso per tutta la fase del rapporto.
Ergo la convivenza può ritenersi intollerabile anche in presenza di un unilaterale sentimento di disaffezione tale per cui è impossibile continuare la crescita e la formazione della personalità del coniuge richiedente, all’interno del consorzio coniugale.
Tale tensione verso la piena realizzazione della personalità dell’individuo investe ed informa non solo le relazioni coniugali ma anche le relazioni parentali.
Il passaggio dalla potestà genitoriale – modello delle relazioni parentali informato al dominio dei coniugi sulla prole – alla responsabilità genitoriale realizza una sostanziale inversione delle relazioni genitoriali, oggi ad impronta spiccatamente puerocentrica, introducendo un elemento di ulteriore frustrazione dell’interesse della famiglia la cui preminenza soggiace all’interesse della prole.
Nel ridisegnare il perimetro della responsabilità genitoriale il legislatore ha sancito il diritto del figlio ad essere mantenuto, istruito e assistito moralmente dai genitori, imponendo a quest’ultimi di rispettare le sue capacità, attitudini, inclinazioni naturali ed aspirazioni, nell’adempimento dei citati doveri corollario della responsabilità genitoriale (ex artt. 315-bis, co. 1 e 316, co. 1 cod. Civ.).
La rilevanza del nuovo assetto delle relazioni parentali trova riscontro all’interno delle regole dettate per l’esercizio della responsabilità genitoriale, ove è prevista la facoltà di ricorrere all’autorità giudiziaria tanto in ipotesi di “contrasto su questioni di particolare importanza” (ex art. 316, co. 2 cod. Civ.) – questioni evidentemente attinenti all’esercizio dei doveri genitoriali – quanto in ipotesi di disaccordo sul compimento di atti di rappresentanza e amministrazione del patrimonio della prole minorenne (ex art. 320, co. 2 cod. Civ.).
La rilevanza endogena al coniugio del preminente interesse della prole, a parere dello scrive, è contrassegnata nella previsione del secondo requisito, eventuale ed accessorio, di cui all’art. 151, co. 1 cod. Civ., ove è declinato il principio secondo cui le condotte pregiudizievoli per l’educazione della prole integrano atti prodromici all’intervenuta intolleranza della convivenza e quindi alla crisi non definitiva della famiglia.
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La famiglia fondata sul matrimonio ed il pluralismo dei modelli familiari
L’evoluzione sociale ha progressivamente condotto allo scardinamento del modello unitario di famiglia nucleare in ragione dell’acquisita rilevanza sociale di modelli familiari alternativi non “fondati” sul matrimonio.
L’impostazione prevalente nella dottrina costituzionale (roberto bin), confermata dalla giurisprudenza costituzionale e, ad onta di un compromesso politico che ha visto prevalere, nonostante l’approvazione della cd.. Legge cirinnà, l’area conservatrice del paese, anche dal legislatore, riconduce i modelli familiari alternativi all’alveo della tutela costituzionale delle formazioni sociali ex art. 2, preservando il privilegio per la famiglia nucleare fondata sul matrimonio, unica “società naturale” riconosciuta dall’ordinamento giuridico.
La dottrina costituzionale ha, del resto, interpretato il sintagma “società naturale”, appellandosi alla tradizione culturale ed alla concezione di famiglia a trazione valoriale di stampo precipuamente cattolico.
La famiglia tutelata quale “società naturale”, nel vigente panorama costituzionale, è, dunque, quella eterosessuale costituita tramite la celebrazione del matrimonio, tant’è che, nella stesura della prima versione del codice civile, e nelle successive modificazioni, il legislatore non si è premurato di prescrivere la diversità dei sessi quale requisito di validità delle nozze, essendo ciò desumibile dal complessivo assetto valoriale costituente sostrato della nostra impalcatura culturale.[2]
- Il matrimonio
Il matrimonio è l’istituto su cui si fonda la famiglia legittima tutela all’art. 20, co. 1 cod. Civ.. La locuzione rileva e va approfondita sotto un duplice profilo: da un lato il matrimonio rileva come atto negoziale, bilaterale, con causa cd. Familiare; dall’altro quale rapporto improntato sull’uguaglianza morale e giuridica dei coniugi e disciplinato dalle norme codicistiche.
- L’atto matrimoniale: nullità relative ed assolute e gli impedimenti impedienti
L’atto matrimoniale viene definito come negozio giuridico solenne e complesso, finalizzato alla costituzione del vincolo coniugale (causa familiare).
La solennità dell’atto è impressa nel rigoroso formalismo delineato agli artt. 106 ss. Cod. Civ., di cui alla sez. Iv del titolo vi del libro i, rubricata “della celebrazione del matrimonio”; mentre, la complessità emerge in ragione della necessaria compartecipazione alla celebrazione di un soggetto a cui l’ordinamento riconosce la qualifica di ufficiale dello stato civile.
Il matrimonio celebrato in forma non solenne o innanzi a soggetto non abilitato dall’ordinamento a ricevere il consenso al matrimonio è inesistente.
Vale precisare, a tal riguardo, che, nella prospettiva del favor matrimonis, il legislatore ha previsto che il matrimonio celebrato innanzi ad un soggetto che non riveste la qualifica di pubblico ufficiale, è valido nei casi in cui tale soggetto ne esercitava pubblicamente le funzioni (cd. Pubblico ufficiale apparente), purché i nubendi non fossero a conoscenza del vizio di incompetenza.
Per effetto dei patti lateranensi, l’ordimento italiano riconosce la validità, agli effetti civili, del matrimonio canonico trascritto nei pubblici registri dello stato civile; nonché l’efficacia delle sentenze di nullità del matrimonio canonico, trascrivibili previo procedimento di delibazione, la cui competenza è della corte di appello.
In tema di delibazione delle sentenze di annullamento del matrimonio canonico pronunciate dai tribunali ecclesiastici, la giurisprudenza di legittimità ha avuto modo di precisare che “non ogni vizio del consenso accertato nelle sentenze ecclesiastiche di nullità del matrimonio consente di riconoscere l’efficacia nell’ordinamento interno, dandosi rilievo nel diritto canonico come incidenti sull’iter formativo del volere anche a motivi e al foro interno non significativo in rapporto al nostro ordine pubblico, per il quale solo cause esterne e oggettive possono incidere sulla formazione e manifestazione della volontà dei nubendi, viziandola o facendola mancare” (cfr. Cass. Civ. Sez. Un., sent. 18 luglio 2008, n. 19809).
L’atto matrimoniale è una particolare fattispecie negoziale caratterizzata per il fatto che la formazione del consenso investe solo l’an del rapporto giuridico, e non anche il quantum ed il quomodo.
Il consenso al matrimonio rappresenta momento di fondamentale importanza nella costituzione del vincolo coniugale e nella creazione della famiglia legittima.
All’effettiva misura della rilevanza del consenso al matrimonio, fa da pendant la disciplina delle cd. Nullità relative (o nullità sanabili), segnatamente nelle ipotesi di incapacità naturale (ex art. 120 cod. Civ.), di violenza o errore essenziale (ex art. 122 cod. Civ.) E di simulazione (ex art. 123 cod. Civ.), atteso che, in un’ottica del favor matrimonis, il legislatore ha previsto la sanabilità del vizio del consenso nelle ipotesi sopra citate.
Il coniuge che subisce il vizio, infatti, decade dall’esperimento del rimedio qualora la coabitazione sia continuata oltre un anno dopo la scoperta dello stesso (cfr. Artt. 120, co. 2, 122, co. 4 e 123, co. 2 cod. Civ.).
La ratio delle disposizioni summenzionate è evidente laddove si consideri che la coabitazione costituisce indice esteriore della sussistenza della comunione di vita materiale e spirituale; il legislatore, insomma, attribuendo alla coabitazione per un dato periodo di tempo oltre la scoperta o la cessazione delle cause del vizio del consenso efficacia convalidante, ha inteso privilegiare la coesione del consorzio coniugale, attribuendo al perdurare della coabitazione per un anno oltre la cessazione dello stato di violenza o di incapacità naturale, ovvero oltre la scoperta dell’errore essenziale, l’efficacia di presunzione assoluta di instaurazione della comunione di vita materiale e spirituale.
I termini decadenziali annuali per l’impugnazione dell’atto matrimoniale simulato, invece, decorrono dalla data di celebrazione del matrimonio.
La simulazione, invece, non può essere dichiarata qualora i coniugi abbiano intrapreso la coabitazione in seguito alla celebrazione del matrimonio.
La disposizione conferma la natura di presunzione iuris et de iure riconosciuta dal legislatore al fatto della coabitazione quale indice esteriore dell’instaurata comunione di vita materiale e spirituale, per tanto incompatibile con la voluntas simulandi.
Rilevano, invece, quali requisiti essenziali dell’atto matrimoniale, l’assenza di precedente vincolo matrimoniale (ex art. 86 cod. Civ.), l’assenza di vincoli di parentela o affinità (ex art. 87 cod. Civ.), l’assenza del cd. Impedimentum criminis (ex art. 88 cod. Civ.).
L’assenza di uno dei predetti requisiti essenziali è motivo di nullità assoluta, o insanabile, dell’atto matrimoniale.
La dichiarazione di nullità produce effetti retroattivi, investendo l’intero rapporto coniugale, salva l’applicabilità dell’istituto del cd. Matrimonio putativo che, sul presupposto della buona fede di uno, o di entrambi, i nubendi, con riferimento all’ignoranza del vizio, impedisce la produzione retroattiva degli effetti della dichiarazione di nullità del matrimonio che, per tanto, si producono ex nunc.
Con la riforma della filiazione e l’unificazione dello status di figlio (naturale e legittimo), il legislatore ha sostituito i commi 3, 4 e 5 all’art. 128 cod. Civ., stabilendo che la dichiarazione di nullità non produce effetti verso i figli, salvo che questa dipenda dall’assenza di vincoli di parentela ex art. 88 cod. Civ., applicandosi, in tali circostanze, l’art. 251 cod. Civ. Ai fini dell’autorizzazione giudiziale al riconoscimento del figlio incestuoso.
Non rilevano ai fini della validità dell’atto matrimoniale la violazione i cd. Impedimenti impedienti, presupposto per l’irrogazione delle sanzioni amministrative di cui alla sez. Vii del titola iv del libro i cod. Civ., costituiti essenzialmente da vizi di competenza ed altri impedimenti del pubblico ufficiale, dalla violazione del divieto temporaneo di nuove nozze, nei casi di rischio di commixtio sanguinis (ex art. 89 cod. Civ.), e dalla violazione del regime delle pubblicazioni di cui agli artt. 93 ss. Cod. Civ..
- Il rapporto coniugale: diritti e doveri dei coniugi
In seguito alla riforma del diritto di famiglia del 1975, il rapporto coniugale è improntato all’uguaglianza giuridica e morale tra coniugi, in armonia con i principi costituzionali.
I diritti dei coniugi sono ritenuti indisponibili per il titolare con la conseguenza che da un lato non possono essere modificati o esclusi convenzionalmente e che dall’altro, non sono suscettibili di essere oggetto di confessione.[3]
Con il declino della concezione istituzionale, la famiglia nucleare è divenuto luogo di esplicazione della personalità del singolo, in cui acquisiscono rilievo non solo i diritti che ciascun componente si vede attribuito in ragione dello status familiare, ma anche diritti inviolabili che ciascuno possiede in qualità di persona. L’esercizio e la tutela dei diritti inviolabili della persona all’interno della famiglia nucleare deve essere bilanciata con l’esigenza di preservare l’unità familiare e con i doveri nascenti dal matrimonio.
I diritti inviolabili della persona devono trovare piena realizzazione all’interno della formazione sociale privilegiata dal legislatore, benché, nel bilanciamento con il residuale interesse superindividuale alla preservazione delle relazioni familiari, se ne ammetta una necessaria compressione, come esercitata dai doveri coniugali che, sotto tale profilo, si traducono nel cd, dovere minimo di tolleranza.
Sicché, al di là di della massima estensione del predetto dovere minimo di tolleranza, la compressione dei diritti inviolabili della persona all’interno della famiglia nucleare diviene illegittima, ponendosi quale prodromo per la crisi della famiglia e per l’accesso al rimedio risarcitorio, in presenza dei presupposti per il riconoscimento del cd. Danno endofamiliare.
Quanto ai doveri coniugali, l’art. 143, co. 2 cod. Civ. Impone ai coniugi il reciproco dovere di fedeltà, di assistenza morale e materiale, di collaborazione nell’interesse della famiglia e di coabitazione.
Nella determinazione dei doveri coniugali il legislatore ha utilizzato categorie dal contenuto socio-culturale, la cui interpretazione non può che essere soggetta alla mutevolezza del sentimento comune.
Con lo scardinamento del perimetro esterno dell’intangibilità delle relazioni coniugali, anche le relazioni coniugali appaiono suscettibili agli ordinari mezzi di diritto comune, con la conseguenza che l’incidenza della violazione dei doveri nascenti dal matrimonio rileverà non solo ai fini dell’addebitabilità della separazione ma anche ai fini della produzione di un’obbligazione risarcitoria, destinata a riparare la lesione di diritti fondamentali dell’individuo perpetrata nell’esecuzione del rapporto coniugale, tramite condotte che integrano violazione dei doveri di cui all’art. 143 cod. Civ.
- (segue) il dovere di fedeltà
La definizione del concetto di fedeltà coniugale è rimesso a determinazioni di matrice culturale, e pertanto soggetto alla mutevolezza del sentimento sociale.
Tradizionalmente la dottrina ha definito la fedeltà come reciproca dedizione fisica e spirituale (passarelli) ed impegno a non tradire la fiducia reciproca (bonilini) da intendersi quale collante della comunione di vita materiale e spirituale, il cui ambito si estende oltre la mera astensione da rapporti fisici con terzi soggetti.[4]
La particolare pregnanza dell’obbligo di fedeltà nella perduranza della comunione di vita materiale e spirituale implica l’automatico riconoscimento dei fatti di adulterio o tradimento platonico quali prodromi dell’intervenuta intollerabilità della convivenza.
Tale particolare disvalore della violazione dell’obbligo di fedeltà si è tradotto, nell’applicazione giurisprudenziale delle corti territoriali, nel riconoscimento del nesso di causalità presunto, ai fini dell’addebito della separazione, in ragione del mero collocamento temporale della scoperta della violazione rispetto all’insorgere dell’intolleranza della convivenza, corrispondendo ciò all’id quod plerumque accidit, rimettendosi, per converso, al coniuge resistente l’onere di provare che il fallimento della comunione di vita materiale e spirituale sia dovuto a cause alternative (ex multis trib. Di cassino, sent. 23 giugno 2016; cass. Civ., ord. 3923/2018).
In vero, alla determinazione del contenuto del doveri di fedeltà, come osservato in dottrina, concorre la valutazione dei complessiva dei comportamenti dei coniugi e delle circostanze di fatto, non potendosi escludere una modellazione convenzionale dell’ambito di estensione del dovere di fedeltà, ai sensi dell’art. 144 cod. Civ., ritenendosi legittimo l’accordo con cui i coniugi si esentino dall’esclusività sessuale (alagna); in senso contrario (finocchiario) è stata evidenziata l’indisponibilità dei diritti corrispondenti ai doveri coniugali, ai quali deve riconoscersi un contenuto minimo inderogabile.
Anche in giurisprudenza, del resto, ha attribuito rilevanza alle circostante di tempo ed alle modalità di perpetrazione della violazione, laddove ha ritenuto che la violazione del dovere di fedeltà sia automatica causa di addebito della sentenza di separazione, dovendosi verificare l’effettiva incidenza sull’intervenuta intollerabilità della convivenza (in questo senso ex multis cass. Civ., sent. 1099/1990; cass. Civ., sent. 4767/1987; cass. Civ., sent. 8862/2012) e come, dunque, abbia inciso sulla vita familiare, tenuto conto delle modalità e della frequenza dei fatti, dell’ambiente in cui si sono verificati, della sensibilità morale degli interessati (per tutti cfr. Cass. Civ., sez. Un., sent. 2494/1982).
Per altro, ad escludere la rilevanza della condotta adulterina non rileva la reciprocità, né la circostanza che l’atto di infedeltà integri gli estremi di una reazione a comportamenti dell’altro coniuge, ben potendo, in tali circostanze, essere pronunciato il cd. Doppio addebito (cfr. Cass. Civ., sent. 7859/2000)
Deve precisarsi, tuttavia, che nell’applicazione data dalla giurisprudenza di legittimità, l’obbligo di fedeltà si estende anche verso condotte meramente apparenti.
In questo senso, esemplificativamente, anche una frequentazione che non integri una effettiva violazione del dovere di fedeltà può costituire motivo di addebito, allorquando sia posta in essere con modalità che, facendo ipotizzare la sussistenza di una relazione extraconiugale, per ciò solo, ed anche in difetto di effettivo adulterio, costituiscano motivo di offesa al decoro ed alla dignità del coniuge (in questo senso ex multis cass. Civ., sent. 3511/1994; cass. Civ., sent. 26/1991;cass. Civ., sent. 5080/1982).
Il dovere di fedeltà, quindi, si pone a tutela della dignità e del decoro dei coniugi, proteggendo da un lato l’interesse interiore di ciascuno di questi al mantenimento di un rapporto di lealtà e di dedizione esclusiva reciproca; dall’altro l’interesse esteriore al mantenimento dell’unità del consorzio coniugale.
Così si spiega la tendenza in voga presso le corti di merito, corroborate da recenti pronunce della suprema corte, tanto con riferimento a tradimenti meramente apparenti, quanto con riferimenti a condotte adulterine di tipo virtuale.
In questo senso, esemplificativamente, la corte di cassazione ha confermato la decisione ove il giudice territoriale aveva riconosciuto la condotta del coniuge finalizzata alla ricerca di partner sessuali su interne come idonea a violare l’obbligo di fedeltà, comprimendo irrimediabilmente il sentimento di lealtà e fiducia che ne è alla base (cfr. Cass. Civ., sent. 9384/2018).
Il dovere di fedeltà subisce una notevole compressione durante la fase della separazione personale, pur tuttavia non essendo completamente sterilizzato.
Sul punto la corte di cassazione ha avuto modo di precisare che tale dovere può permanere anche dopo l’insorgere dello stato di separazione, qualora si accerti che tra i coniugi sia rimasto quel minimo di solidarietà tale da giustificarne la permanenza (in questo senso cfr. Cass. Civ., sent. 9287/1997).
In questo senso, esemplificativamente, l’intraprendimento di una pubblica convivenza con altra donna a ridosso della cessazione della coabitazione con la moglie, è stata ritenuta condotta prodromica all’addebito della separazione in quanto lesiva dell’onore e del decoro di quest’ultima (cass. Civ., sent. 4623/1997).
La questione, tuttavia, si intreccia con quella dell’immutabilità del titolo della separazione (cass. Civ., sent. 7450/2008; cass. Civ., sent. 8272/1999; cass. Civ., sent. 9317/1997; cass. Civ., sent. 3098/1995), atteso che intervenuto il decreto di omologa o la sentenza di separazione non vi sarebbe più possibilità di far valere l’incidenza della violazione sull’intervenuta intollerabilità della convivenza.
Per altro, parte della dottrina che ha trovato eco anche in giurisprudenza, ha ritenuto incompatibile l’obbligo di fedeltà con il regime di separazione, ritenendolo corollario e collante della comunione di vita materiale e spirituale, venuta meno con la cessazione della coabitazione (in questo senso ex multis cass. Civ., sent. 7566/1999; cass. Civ., sent. 6566/1997).
- (segue) il dovere di assistenza materiale e morale
Il dovere di assistenza morale e materiale, tra tutti, è quello che maggiormente appare soggetto alla mutevolezza del sentimento comune.
Tale considerazione è radicata in dottrina ove si riconosce la variabilità del contenuto del dovere a seconda del contesto ambientale, cultura ed economico di riferimento.
In vero, condivisibilmente, parte della dottrina (finocchiaro), non rinunciando ad individuarne un nucleo minimo inderogabile, ritiene che il dovere di assistenza morale e materiale debba connotarsi per la reciprocità ed essere equiordinato, non ammettendosi graduazioni, pesi e condizioni.
Per converso non pare configurabile quale dovere di esclusività, essendo indubbiamente consentito a ciascuno dei coniugi rivolgere il proprio sostegno morale ovvero il proprio apporto economico verso terzi, nella misura in cui ciò non determini un pregiudizio per il preminente interesse della famiglia.
Ergo a ciascuno dei coniugi è consentito esitare verso terzi il proprio sostegno morale ed impiegare le proprie sostanze ed i propri redditi purché siano state preventivamente soddisfatte le esigenze familiari (in questo senso cfr. Cass. Civ., sent. 1321/1995).
Sotto il profilo “morale”, il dovere si assistenza si sostanzia nel sostegno reciproco nella sfera affettiva, psicologica e spirituale (paradiso), declinandosi in forme di rispetto ed apprezzamento della personalità del coniuge; nell’obbligo reciproco di comunicare quelle notizie, anche personali, che possono influire sulla vita e sull’indirizzo della famiglia (finocchiaro); onché nell’assistenza dell’altro quando questi sia infermo, malato, condannato alla reclusione o attraversi periodi di difficoltà economica (bonilini).[5]
Prevalentemente la dottrina ritiene che l’obbligo di assistenza materiale si palesa nell’obbligo di conferire le risorse economiche indispensabili al mantenimento di un adeguato tenore di vita, comune ad entrambi i coniugi, al di là della consistenza del patrimonio e della capacità di contribuzione di ognuno.[6]
L’obbligo di assistenza materiale sarebbe, dunque – ed in ciò divergerebbe dall’obbligo di mantenimento – teleologicamente orientato a garantire il soddisfacimento delle necessità della vita quotidiana.
Tale impostazione, a parere dello scrivente, non è condivisibile, determinando una sovrapposizione con il dovere di contribuzione al soddisfacimento dei bisogni della famiglia, a cui i coniugi concorrono proporzionalmente al proprio reddito ed alle proprie sostanze, nell’attuazione dell’indirizzo di vita familiare concordato.
La scelta del legislatore di collocare in due differenti disposizioni il dovere di contribuzione e quello di assistenza morale e materiale non può essere casuale.
A parere di chi scrive, il comma 2° dell’art. 143 cod. Civ. Concerne i doveri reciproci, indicando delle categorie generali funzionali ad inglobare quei comportamenti attesi e rivolti vicendevolmente da un coniuge all’altro; a contrario, il dovere di contribuzione non è reciproco ma è proporzionato alle sostanze di ciascuno dei coniugi ed è esitato all’esterno del coniugio, rivolto, cioè, all’interesse preminente della famiglia, al sostentamento quotidiano, ed all’attuazione dell’indirizzo di vita concordato.
Se ne deduce che, poiché le esigenze quotidiane dei coniugi dovrebbero trovare, in ragione della comunione di vita materiale e spirituale, piena soddisfazione all’interno dello svolgimento quotidiano della vita familiare, l’obbligo reciproco di assistenza materiale debba contenere un quid pluris.
Un indizio in tal senso si evince dalla contiguità, anche terminologica, con il dovere di assistenza spirituale, che suggerisce la medesimezza della struttura, divergendone per la natura patrimoniale del contenuto.
Se, quindi, l’assistenza morale consta di quelle condotte finalizzate a supportare il coniuge nell’estrinsecazione e nella piena realizzazione della propria personalità all’interno del nucleo familiare, l’obbligo di assistenza morale, contiguamente, deve contenere tutte quelle condotte a contenuto patrimoniale, reciproche e teleologicamente orientate a garantire il perseguimento delle aspirazioni ed ambizioni personale di ciascuno dei coniugi, corollario di una piena realizzazione della personalità individuale all’interno della formazione sociale per eccellenza.
In sostanza, a parere di chi scrive, l’obbligo di assistenza materiale può identificarsi con l’obbligo a carico di ciascuno dei coniugi di provvedere agli interessi materiali dell’altro coniuge, in tutti quei casi in cui sia necessario, ed indipendentemente dalla capacità di procurarsi da sé adeguati mezzi di sostentamento, al fine di coadiuvarlo nella piena realizzazione della sua personalità.
In tal senso l’obbligo di assistenza materiale risulterebbe indubbiamente violato ogni qualvolta che il coniuge non provveda con le proprie sostanze ad assicurare al coniuge ammalato le cure mediche del caso,[7] come anche in tutti quei casi in cui venga meno il supporto materiale necessario all’altro coniuge per il raggiungimento di obiettivi personali nella misura in cui tali ambizioni siano compatibili con l’indirizzo di vita concordato.
Parte della dottrina (forgiuele) ha individuato i limiti del dovere di assistenza morale e materiale «nel diritto di ognuno dei coniugi di realizzarsi come persona» e nell’intollerabilità della convivenza.
Sotto tale profilo, correttamente, è stato sostenuto che con il sorgere della crisi non definitiva della famiglia alla compressione del dovere di assistenza materiale, ove ricorrano i presupposti di cui all’art. 146, co. 1 cod. Civ., corrisponde l’espansione dall’obbligo di mantenimento o/e di corresponsione di prestazioni alimentari.
- (segue) il dovere di collaborazione
Un interpretazione testuale dell’art. 143 cod. Civ. Suggerisce che il dovere di collaborazione costituisce obbligo equipollente a quello di assistenza, direzionato, non reciprocamente, al soddisfacimento del preminente interesse della famiglia.
Come correttamente sottolineato da certa dottrina, [8] il dovere di collaborazione nell’interesse della famiglia costituisce corollario del principio di eguaglianza morale e giuridica dei coniugi, e si concretizza nel concordamento dell’indirizzo di vita familiare, della residenza della famiglia, nell’amministrazione dei beni della comunione legale secondo le esigenze attuative dell’indirizzo di vita concordato.
In dottrina è controversa l’autonomia concettuale dell’obbligo di collaborazione rispetto a quello di assistenza morale e materiale.
Il fulcro della posizione autonomista, sostenuta da taluni autori, è costituito dall’attinenza del dovere di collaborazione non già al coniugio, bensì alla dimensione comunitaria della famiglia, al gruppo e alla soddisfazione dei bisogni comuni (zatti); dall’altro, alcuni autori, sottolineano l’aspetto solidaristico connaturato al dovere di assistenza, del quale la collaborazione sarebbe, appunto, una specificazione (finocchiaro a.; furgiuele).
L’autonomia concettuale del dovere di collaborazione, in ogni caso, ha trovato conforto in seno alla giurisprudenza di legittimità, che ha profilato un’autonoma violazione del dovere ai fini dell’intervenuta intollerabilità della convivenza.
In questo senso la corte ha lasciato intendere che costituisce motivo di addebito della separazione la scelta di coniuge di intraprendere un’attività lavorativa, in assenza di necessità economiche, che collida con gli interessi primari della famiglia e con l’indirizzo di vita concordato, determinando una violazione dell’obbligo di contribuzione (in questo senso cfr. Cass. Civ., sent. 17199/2013).
- (segue) l’obbligo di coabitazione
La coabitazione, come ampiamente premesso, costituisce indice esteriore della comunione di vita materiale e spirituale.
Secondo parte della dottrina (finocchiaro), eliminato il precetto che assegnava alla moglie l’obbligo di seguire il marito ovunque egli intendesse fissare la residenza della famiglia, la nozione attuale di coabitazione sarebbe da ricondurre ad un mero “obbligo di abitare sotto lo stesso tetto”, per altro derogabile, nella misura in cui è consentito ai coniugi di eleggere un domicilio autonomo rispetto alla residenza familiare.
In ogni caso l’obbligo di coabitazione è improntato sul principio consensualistico atteso che expressis verbis il codice prevede che alla fissazione della residenza familiare provvedono i coniugi di comune accordo.
Accordo che, come sottolineato da taluni autori (paradiso; ruscello), potrebbe derogare la convivenza fisica dei coniugi, senza che ciò determini di per se la cessazione della comunione di vita materiale e spirituale.
Di tale avviso è anche l giurisprudenza di legittimità ove è stata esclusa l’efficienza causale dell’allontanamento dalla casa familiare alla sopravvenuta intollerabilità della convivenza, in presenza di un preventivo accordo in tal senso (cfr. Cass. Civ., sent. 4558/2000).
Se, del resto, la coabitazione è indice esteriore della comunione di vita materiale e spirituale, ciò non preclude la sussistenza della communio, ben potendo l’unità familiare essere garantita, secondo altre declinazioni, anche in difetto di convivenza fisica.
Tale conclusione, del resto, pare avvalorata dall’art. 146 cod. Civ., ove la sanzione della cessazione del diritto ad essere assistiti moralmente e materialmente dall’altro coniuge è attribuita a colui il quale si allontana dalla residenza familiare senza giustificato motivo, così da lasciar presumere che, a contrario, l’obbligo di assistenza morale e materiale sussiste laddove l’allontanamento è sorretto da giusta causa.
Nella casistica giurisprudenziale, ampio spazio è stato attribuito, tra le cause giustificatrici dell’allontanamento unilaterale dalla casa familiare, alle condotte rese in reazione a reiterate violazioni degli obblighi coniugali da parte dell’altro coniuge.
Costituisce, infine, giustificato motivo di allontanamento dalla casa familiare la proposizione della domanda di separazione.
A tal riguardo va tuttavia precisato che poiché la cessazione della convivenza costituisce presunzione di intervenuta intollerabilità della convivenza, ove uno dei coniugi si allontani dalla casa familiare in reazione alle altrui violazioni senza proporre domanda di separazione, l’altro coniuge potrà fondare la propria domanda sul definitivo ed arbitrario abbandono della residenza da parte dell’altro coniuge senza dover provare l’incidenza causale sulla crisi della famiglia, ai fini dell’addebito della separazione, incombendo, per tal via, sull’altra parte, l’onere di offrire la prova contraria, ovverosia, l’onere di dimostrare che quel comportamento fosse giustificato dalla preesistenza di una situazione d’intollerabilità della coabitazione integrante giusta causa ai sensi dell’art. 146, cpv. Cod. Civ. (in questo senso cfr. Cass. Civ., sent. 2059/2012).
- (segue) il dovere di contribuzione
L’art. 143, co. 3 cod. Civ. Introduce il regime contributivo, o primario, della famiglia, fondato sul principio di ripartizione proporzionale delle spese sostenute nell’interesse della famiglia, e di cui costituisce pendant la riconosciuta solidarietà passiva dei coniugi per le obbligazioni assunte nell’interesse della famiglia.
Il dovere di contribuzione, secondo parte della dottrina, costituirebbe la specificazione, sotto il profilo patrimoniale, degli obblighi di assistenza e collaborazione (finocchiaro).
A parere di chi scrive tale impostazione non è condivisibile. L’obbligo di contribuzione, equiordinato ed improntato alla proporzionalità rispetto alle sostanze ed ai redditi personali di ciascuno dei coniugi, costituisce il meccanismo tramite cui l’ordinamento assicura l’effettività della partecipazione di ciascuno dei coniugi all’attuazione dell’indirizzo di vita familiare concordato.
Non a caso l’estensione del dovere di contribuzione è limitata dalla proporzionalità della contribuzione attesa alle sostanze, ai redditi, ed alla capacità professionale di ciascuno dei coniugi, ai quali è imposto, fondamentalmente, di fare la propria parte per assicurare il soddisfacimento delle esigenza di vita concordate.
L’importanza sistemica del dovere di collaborazione è impresso nell’attitudine a costituire presunzione iuris tantum della causa familiare delle dazioni di denaro tra coniugi.
A corroborare tale rilevanza sistemica, per altro, si consideri, in ragione dell’estrema pregnanza che la violazione di tale dovere produce sul tenore di vita, non dei coniugi, ma della famiglia e sulla possibilità di attendere alle esigenze, anche non basilari, della stessa, che la violazione del dovere di contribuzione può integrare gli estremi del delitto di cui all’art. 570 cod. Pen..
A ciò si aggiunga che, a garanzia dell’adempimento degli obblighi di contribuzione previsti dagli artt. 143, 3° co. E 147 cod. Civ., il giudice può disporre il sequestro dei beni del coniuge allontanatosi dalla residenza familiare, ai sensi dell’art. 146, 3° co. Cod. Civ (cass. Civ., sent. 5948/1985).
In questo senso, anche recentemente, la suprema corte ha riaffermato il principio secondo cui, in costanza di coniugio, le attribuzioni reciproche sono effettuate in adempimento del dovere di contribuzione che sta alla base della scelta di responsabilità perfezionata con la costituzione del vincolo coniugale (in questo senso per ult. Cfr. Cass. Civ., ord. 10927/2018).
Il principio espresso, invero plurime volte dalla suprema corte, va coordinato, tuttavia, con l’esigenza di garantire, nell’eccezionale ipotesi di abuso delle relazioni coniugali, l’indennizzabilità del pregiudizio subito da uno dei coniugi, in tutti quei casi in cui la distorsione del contributo patrimoniale prestato dal coniuge, abbia determinato un arricchimento senza causa in beneficio dell’altro (in questo senso cfr. Cass. Civ., sent. 5866/1995).
- la convivenza more uxorio: dal diritto pretorio alla l. 70/2016
Con il mutamento del sentimento sociale si sono fatti largo modelli familiari differenti rispetto a quello fondato sull’unione coniugale costituita con il matrimonio.
Il modello familiare connotato da profili di contiguità con famiglia nucleare fondata sul matrimonio è la cd. Famiglia di fatto.
Il fenomeno dell’esistenza di un modello familiare connotato per la sussistenza in concreto di una tipologia di affezione equipollente all’affectio coniugalis, ha condotto al riconoscimento della rilevanza giuridica di tale modello familiare, sulla base della sussistenza di alcuni requisiti di individuazione giurisprudenziale.
In particolare, il riconoscimento di una cd. Famiglia di fatto, soggiace all’accertamento della triplice condizione della sussistenza di una comunione di vita morale e spirituale, connotata esteriormente per la coabitazione, per la stabilità del rapporto e la certezza dell’unione e per la libertà di stato, inteso come assenza di un preesistente status di coniuge o di altro stato personale connesso alla costituzione di un modello familiare.
Al fronte di una tendenza all’applicazione analogica dello statuto della famiglia legittima alle cd. Convivenze more uxorio, la corte costituzionale, chiamata al sindacato di legittimità dell’art. 155, co. 4 cod. Civ., con riferimento ai parametri di cui agli artt. 3 e 30 cost., nella parte in cui non prevede la possibilità dell’assegnazione della casa familiare al genitore naturale assegnatario della prole nata da una convivenza more uxorio, ebbe ad affermare tranchant che l’inapplicabilità dello statuto giuridico del coniugio alla famiglia di fatto discende dalla natura di tale modello familiare espressione “di una libertà di scelta dalle regole che il legislatore ha sancito in dipendenza dal matrimonio”, con la conseguenza che “l’estensione automatica di queste regole alla famiglia di fatto potrebbe costituire una violazione dei principi di libera determinazione delle parti” (cfr. Corte costituzionale, sent. 166/1998).
Prendendo atto della rilevanza sociale del fenomeno, con l. 20 maggio 2016, n. 70, il legislatore ha provveduto regolamentare la famiglia di fatto, compendiando gli indici esteriori anzitempo indicati dalla giurisprudenza quali requisiti della convivenza more uxorio, nella definizione dei conviventi quali “persone maggiorenni unite stabilmente da legami affettivi di coppia e di reciproca assistenza materiale e spirituale, non vincolati di rapporti di parentela, affinità o adozione, da matrimonio o da un’unione civile” (art. 1, co. 26 e 65 l. 70/2016).
Già precedentemente all’emanazione della l. 70/2016 i conviventi more uxorio avevano ottenuto, in via giurisprudenziale, il riconoscimento di una pluralità di diritti, di natura fondamentalmente assistenziale, positivamente attribuiti, in via esclusiva, ai coniugi.
Tra tutti è bene ricordare il diritto ad ottenere la corresponsione della pensione di guerra; il diritto di sostituzione del socio assegnatario defunto in presenza di convivenza superiore ad anni due; il diritto al percepimento di un assegno vitalizio in ragione della convivenza perpetrata per oltre tre anni; il il diritto ad ottenere il risarcimento del danno patrimoniale e non conseguente alla morte del convivente per fatto illecito altrui; nonché, sul versante penalistico, il diritto all’astensione dalla testimonianza ai sensi dell’art. 199 cod. Proc. Pen., limitatamente a fatti verificatisi nel corso della convivenza.
La l. N. 70/2016 ha esteso il novero dei diritti riconosciuti ai conviventi more uxorio prevedendo l’applicazione delle facoltà previste dall’ordinamento penitenziario; delle norme relative all’assegnazione di alloggi popolari; del diritto di assistenza morale e materiale in casi di malattia e ricovero; prevendendo la possibilità di porre a carico di uno dei conviventi, nelle ipotesi di crisi della famiglia di fatto, un obbligo alimentare proporzionato alla durata della convivenza.
L’aspetto più innovativo concerne altresì la previsione di un diritto di abitazione in beneficio del convivente superstite, il quale conserva il diritto di abitare nella casa familiare per un periodo di tempo equipollente alla durata della convivenza e comunque non superiore ad anni cinque e non inferiore ad anni tre, esclusivamente nei casi in cui vi sia prole minorenne o disabile.
A parere dello scrivente di tratta di un diritto di godimento atipico, strutturalmente equipollente al diritto di abitazione conseguente all’assegnazione della casa coniugale, per il quale si pone il precipuo problema dell’opponibilità ai terzi.
In vero l’acquisizione del diritto di abitazione previsto dalla l. 70/2016, benché automatico, non è suscettibile di essere trascritto laddove l’accertamento non sia sorretto da titolo giudiziale e convenzionale.
La determinazione del regime patrimoniale della famiglia di fatto è rimessa alla liberà scelta dei conviventi.
Nei casi di omessa regolamentazione del regime patrimoniale, la dottrina ha paventato il ricorso all’istituto delle obbligazioni naturali per giustificare le reciproche dazioni effettuate dai conviventi nella perduranza della comunione di vita spirituale e materiale, da intendersi rese in adempimento di doveri morali.
Alla famiglia di fatto, per espresso richiamo normativo, si applica l’art. 320-bis cod. Civ. Recante la disciplina dell’impresa familiare.
La gratuità della prestazione lavorativa resa dal convivente nell’impresa lavorativa dell’altro coniuge deve risultare, secondo la giurisprudenza di legittimità maturata precedentemente alla riforma, da elementi esteriori tali da appalesare rigorosamente la sussistenza di una comunione di vita materiale e spirituale, primo tra tutti la partecipazione del convivente prestatore di lavoro agli utili dell’attività d’impresa (ex multis cass. Civ., sent. 13 dicembre 1986, n. 7486).
In materia di rapporti patrimoniali tra conviventi, in difetto di regolamentazione del regime patrimoniale, è stata paventata l’applicazione dell’istituto giuridico dell’arricchimento senza causa con riferimento al valore monetario del lavoro domestico prestato da uno dei conviventi.
Secondo la dottrina e la giurisprudenza di merito che vi ha dato eco,[9] non si configura ingiustificato arricchimento nelle ipotesi in cui sia identificabile una sinallagmaticità nel rapporto di convivenza, tale per cui alla prestazione di lavoro domestico corrisponde la contribuzione, corrispettiva e proporzionale, dell’altro convivente, alle esigenze materiale del ménage familiare.
- Il regime patrimoniale della famiglia di fatto: i contratti di convivenza
Lo strumento giuridico previsto per la regolamentazione giuridica del regime patrimoniale della famiglia di fatto è il contratto di convivenza.
Trattasi di un negozio giuridico di tipo contrattuale, con causa familiare, con cui i conviventi adottano un determinato regime patrimoniale.
Sono requisiti essenziali del contratto di convivenza le generalità delle parti, l’indicazione dell’indirizzo ove ciascuno dei conviventi dichiara di voler ricevere le comunicazioni relative al contratto (rectius proposte di modificazione e recesso), la forma scritta, ab sustantiam, solenne o con firma autenticata da un notaio o da un avvocato, che ne attestano la conformità all’ordine pubblico ed alle norme imperative.
Il contratto di convivenza è nullo qualora sia stipulato da soggetti privi della libertà di stato o che non siano qualificabili come conviventi ai sensi della l. 70/2016.
Il contratto di convivenza è nullo qualora sia sottoscritto da soggetto minorenne, o giudizialmente interdetto, nonché nei casi di impedimentum criminis.
Il contratto di convivenza può essere risolto di comune accordo tra le parti, ovvero di diritto nei casi di morte del convivente o mutamento dello stato personale, segnatamente nelle ipotesi di matrimonio o unione civile.
E’ altresì previsto il recesso unilaterale del contratto di convivenza, soggetto ai vincoli di forma prescritti per il contratto medesimo, da esercitare mediante notifica presso l’indirizzo indicato dalle parti nel contratto medesimo.
E’ bene precisare, a tal riguardo, che nei casi in cui nel momento dell’esercizio del diritto di recesso sia cessata la coabitazione ed uno tra i conviventi si trova nell’esclusiva disponibilità della casa familiare, il recesso deve contenere, a pena di nullità, l’invito, rivolto all’altro convivente, al rilascio dell’immobile comune, entro un termine non inferiore a giorni novanta.
Se il contratto di convivenza ha in oggetto la costituzione del regime di comunione legale, il recesso determina lo scioglimento della comunione per la quale si applicano, laddove compatibili, le norme di cui alla sez. Iii del capo vi, del vi titolo del libro i del cod. Civ..
- (segue) la cessazione della convivenza
La convivenza cessa per mutuo dissenso o per morte di una delle parti. Nelle ipotesi di cessazione consensuale della convivenza, nei casi in cui le parti abbiano optato per la comunione legale, occorrerà provvedere alla divisione dei beni, da eseguire in via giudiziale nelle ipotesi di recesso dal contratto di convivenza.
Non è prevista alcuna perduranza dell’obbligo di assistenza materiale, sotto il profilo del mantenimento, neppure in presenza di difficoltà economiche, essendo, per converso, previsto il dovere di corresponsione di prestazioni alimentari laddove ricorrano i presupposti di cui all’art. 433 cod. Civ., per un lasso di tempo equipollente alla durata della convivenza.
Nel caso di cessazione della convivenza more uxorio per morte di una delle parti, il legislatore ha previsto il diritto di abitazione nella casa coniugale, di cui si è ampiamente detto precedentemente.
Allo stato attuale, invece, al convivente more uxorio non è attribuito il diritto di essere chiamato all’eredità, con la conseguenza che i lasciti successori in beneficio del convivente devono essere contenuti nel testamento e limitati al valore della quota disponibile.
- La famiglia omosessuale: la disciplina delle unioni civili
Con l. 20 maggio 2016, n. 76 il legislatore ha disciplinato le unioni civili tra persone dello stesso sesso, in seguito ad un travagliato iter parlamentare, all’esito del quale, l’obiettivo perseguito dalle forze politiche promotrici del ddl, teso all’equiparazione tra modelli familiari omo ed eterosessuali, non può dirsi certamente raggiunto.
E’, infatti, l’art. 1 co. 1 della legge esaminanda che alloca le unioni civili nell’ambito delle formazioni sociali di cui agli artt. 2 e 3 cost. Precludendo qualsivoglia prevaricazione interpretativa volta all’estensione dell’ambito di applicazione dell’art. 29, co. 1 cost.
Fatta tale doverosa premessa, la disciplina delle unioni civili tra persone dello stesso sesso è contenuta all’art. 1, co. 1-35 della l. 76/2016.
La prima parte della disciplina si riferisce all’unione civile quale atto giuridico. L’unione si contrae mediante dichiarazione resa da due soggetti dello stesso sesso, maggiorenni, non interdetti, di stato libero, al pubblico ufficiale il quale provvede all’iscrizione nei pubblici registri dello stato civile.
Costituiscono cause di nullità dell’unione civile il difetto di uno dei requisiti essenziali sopra indicati (età, capacità e status), nei casi di impedimentum criminis, ovvero nelle ipotesi di cui all’art. 87 cod. Civ.
Si tratta di ipotesi di nullità assoluta, non sanabile, come confermato anche dall’opzione per l’ampia legittimazione all’impugnativa che può essere proposta “da tutti coloro che abbiano per impugnarla un interesse legittimo e attuale”.
Per esplicito rinvio contenuto al co. 5 dell’esaminando art. 1 l. 76/2016, si applicano alle unioni civili gli artt. 120, 123, 125, 126, 127, 128, 129 e 129-bis cod civ..
L’unione civile è annullabile nel caso in cui il consenso sia stato estorto con violenza o determinato da timore di eccezionale gravità, purché determinato da cause esterne alle parti ovvero nel caso di errore scusabile sull’identità dell’altra parte o sulle qualità personali.
In ordine a tale ultima fattispecie, il legislatore ha precisato che l’errata rappresentazione della realtà in ordine alle qualità personali dell’altra parte rilevano quando sono riferite all’esistenza di una malattia fisica o psichica, tale da impedire lo svolgimento della vita comune, nei casi in cui l’altra parte sia stata condannata, prima della contrazione dell’unione, a pena detentiva non inferiore ad anni 5 per delitto non colposo (ex art. 122, co. 3, n. 2 cod. Civ.) E nei casi in cui sia stato destinatario della dichiarazione di delinquenza abituale (ex art. 122, co. 2, n. 3 cod. Civ.).
V’è di più che l’essenzialità dell’errore sulle qualità personali è rimessa all’accertamento del nesso di causalità tra l’errata rappresentazione delle qualità personali dell’altra parte e la manifestazione del consenso all’unione, con onere della prova rimesso a carico della ricorrente.
Colui il quale agisce per la dichiarazione di annullamento dell’unione civile sul presupposto dell’errore essenziale sulle qualità personali deve provare che se fosse stato a conoscenza della realtà dei fatti non avrebbe prestato il consenso a contrarre l’unione, rimettendosi a controparte la prova contraria della irrilevanza dell’errore sulla formazione del consenso, o della manifestazione dello stesso a scienza della causa di invalidità.
L’azione di annullamento può essere proposta esclusivamente dalla parte che subisce il vizio. In difetto di esplicita previsione è condivisibile ritenere applicabile l’art. 1422 cod. Civ. Circa la prescrizione dell’azione.
In ogni caso la parte che ha interesse a far riconoscere il vizio decade dall’esercizio dell’azione qualora vi sia stata coabitazione per un anno dal momento della cessazione.
L’unione civile quale rapporto è disciplinato ai commi 11-14 dell’art. 1 in esame. In particolare il rapporto dell’unione civile è informato sull’uguaglianza giuridica delle parti le quali “ acquistano gli stessi diritti ed i medesimi doveri”.
Le parti dell’unione civile sono soggette agli obblighi reciproci di assistenza morale e materiale, di coabitazione, di contribuzione ai bisogni comuni in misura proporzionale alle proprie sostanze.
Le parte dell’unione concordano l’indirizzo di vita della formazione sociale, individuando la residenza comune.
La legge riconosce altresì il diritto-dovere di compiere gli atti necessari all’attuazione dell’indirizzo di vita concordato.
Il legislatore ha previsto, come regime patrimoniale legale dell’unione civile, la comunione dei beni, prevedendo l’applicazione della disciplina codicistica.
In alternativa le parti dell’unione civile possono concordare un regime patrimoniale di tipo convenzionale nel rispetto degli artt. 162, 163, 164 e 166 cod. Civ..
A differenza dell’opzione per la tassatività delle cause di scioglimento del matrimonio, l’unione civile si scioglie per effetto del consenso manifestato unilateralmente da una delle parti.
Sono, altresì, cause di scioglimento dell’unione civile la morte, o dichiarazione di morte presunta, di una delle parti, la rettifica di sesso; nonché i casi previsti all’art. 3, n. 1 e 1, lett. A), c), d) ed e).
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Gli illeciti endofamiliari
E’ proprio la mutevolezza del sentimento sociale che ha accompagnato la stagione della privatizzazione delle relazioni familiari, orientata all’elevazione della persona individuale quale fulcro della famiglia e dell’interesse della stessa alla realizzazione piena della propria personalità ad interesse preminente nella regolamentazione ed attuazione della vita familiare, a spronare, sul versante della stigmatizzazione delle gravi violazioni dei doveri coniugali o genitoriali, la penetrazione della tutela risarcitoria all’interno delle dinamiche endofamiliari, violando la tradizionale insensibilità del diritto di famiglia al diritto comune.
La categoria degli illeciti endofamiliari costituisce argomento oltremodo controverso in dottrina e giurisprudenza, tanto sul piano dell’an, e cioè sulla verifica dell’esistenza di un’autonomia concettuale di tale categoria di danni, quanto sul piano del quomodo, e cioè dell’indagine sui meccanismi di reazione deputati alla repressione.
Per illecito endofamiliare si intende, per sommi capi, quell’illecito civile ove la condotta censurata sia integrata dalla violazione dei doveri coniugali, sussistente in rapporto etiologico con un danno ingiusto.
Tradizionalmente, come anticipato, la dottrina e la giurisprudenza escludevano la soggezione delle dinamiche endofamiliari al diritto della responsabilità civile, rilevandosi un peculiare grado di autonomia.
La tesi dell’autonomia ed insensibilità del diritto di famiglia al diritto comune, sorretto normativamente dalla prevista interruzione dei termini prescrizionali in costanza di coniugio, nella specifica materia de quo, rinveniva argomento decisivo nella completezza della disciplina prevista nel libro i del cod. Civ. Ove alla violazione dei doveri coniugali corrispondeva la specifica sanzione dell’addebito della separazione.
Nella casistica giurisprudenziale, tuttavia, sempre più frequentemente, viene riconosciuta la tutela risarcitoria al coniuge o alla prole che hanno subito danni in conseguenza a gravi violazioni dei doveri coniugale.
Tuttavia, l’asserito riconoscimento della tutela risarcitoria, sia essa di tipo aquiliano che di tipo contrattuale, non appare indice rilevatore né della sussistenza di autonomia concettuale del cd. Danno endofamiliare, né la capacità di compendiare, all’interno di tale categoria, un novero di danni, atteso che un esame della casistica giurisprudenziale non rende possibile individuare punti certi di contatto.
Come correttamente osservato in dottrina (mormile) minimo comune denominatore che consente di accomunare tutte queste fattispecie è rappresentato dalla sussistenza di un vincolo di tipo coniugale o di filiazione e principalmente in ciò la morfologia dell’illecito endofamiliare divergerebbe dalla generale principio dell’alterum non laedere.
Alla radice della dissimilarità della struttura dell’illecito endofamiliare rispetto a quello aquiliano v’è, per ciò, la presenza di un dovere di solidarietà, prescindente dai doveri tipizzati dal legislatore siccome corollario del reciproco affidamento nel vincolo coniugale.
Ad oltre venti anni dal leading case nel cui la suprema corte ebbe a dichiarare il diritto del figlio a percepire un risarcimento per il danno, patrimoniale e non, conseguente alla condotta defatigatoria del padre, l’impiego degli strumenti di diritto comune, e principalmente della tutela aquiliana, ha perso qualsiasi carattere di eterodossia, essendo applicata tanto alle relazioni genitoriali che a quelle coniugali.
Tuttavia, come correttamente osservato in dottrina, a ben vedere alla categoria dell’illecito endofamiliare, soprattutto in seguito all’arresto delle sez. Un. Del 2008 nelle cd. Sentenze gemelle sul danno non patrimoniale, non pare potersi ascrivere alcun grado di autonomia concettuale.
A conferma di ciò, e cioè del fatto che nel riconoscimento dell’acquisita rilevanza degli illeciti civili di natura endofamiliare, un ruolo fondamentale è rivestito dall’estensione della tutela aquiliana del danno non patrimoniale, dal danno morale conseguente al reato al danno non patrimoniale, onnicomprensivo, da lesione di un interesse costituzionalmente garantito, depone la stessa sentenza 7 giugno 2000, n. 7713, nella quale la suprema corte ebbe a precisare che “essendo le norme costituzionali di garanzia dei diritti fondamentali della persona pienamente e direttamente, operanti anche nei rapporti tra privati, non è ipotizzabile limite alla risarcibilità, della correlativa lesione, “per sé considerata” (n. 184/1986 cit.), ai sensi dell’art. 2043 c.c.: che, per tal profilo la corte veneziana ha per ciò correttamente applicato, riconoscendo all’attore il ristoro del danno (non già “morale” da illecito penale), ma da lesione in sé di suoi diritti fondamentali, in conseguenza della riferita condotta del suo genitore”.
Ed è ciò che sostanzialmente emerge, trasversalmente, da una variegata casistica ormai ventennale, che la risarcibilità del danno endofamiliare non deriva sic et sempliciter dalla violazione, seppur grave, dei doveri coniugali o genitoriale, bensì dalla lesione di interessi costituzionalmente qualificati.
In questo senso appare, del resto, orientata, buona parte della giurisprudenza di merito, ove è stato evidenziato, in materia di danno non patrimoniale conseguente alla condotta fedifraga, che “l’adulterio della moglie, concretizzato dalla nascita di un bambino concepito con altro uomo costituisce condotta illecita fonte di un danno non patrimoniale di cui il marito può esigere il risarcimento, una volta che sia stata accolta la domanda di disconoscimento della paternità, atteso che sono ormai risarcibili i c.d. Danni da illecito endofamiliare, derivanti dalla violazione dei diritti e dei doveri nascenti dal matrimonio, sempre che ne sia derivato la lesione di beni costituzionalmente rilevanti” (cfr. Corte d’appello di napoli, sent. 19 ottobre 2011).
Ed ancora è stato evidenziato che “costituisce violazione di fondamentali diritti della persona, collocati al vertice della gerarchia dei valori protetti dall’art. 30 della costituzione, l’esclusione di un figlio dalle cure materiali e morali che sono ad esso dovute in quanto tale, idonea a determinare la configurabilità di un illecito civile, cosiddetto endofamiliare, riconducibile nella previsione di cui all’art. 2043 c.c. La violazione dei predetti valori, dunque, non trova necessariamente sanzione solo nelle misure tipiche previste dal diritto di famiglia, poiché dalla natura giuridica degli obblighi suddetti discende che la relativa violazione, ove cagioni la lesioni di diritti costituzionalmente protetti, possa integrare gli estremi dell’illecito civile e dal luogo ad una autonoma azione volta al risarcimento dei danni non patrimoniali ex art. 2059 c.c.” (cfr. Corte d’appello di palermo, sent. 24 settembre 2012; ex multis cass. Civ. Sez. I, 22 luglio 2014, n. 16657).
La configurazione dell’illecito endofamiliare quale categoria dotata di autonomia concettuale non appare, per ciò, trovare riscontri in giurisprudenza ove, di contro, è locuzione utilizzata per contrassegnare l’illecito aquiliano perpetrato all’interno della famiglia tramite condotte integranti parimenti violazioni particolarmente gravi dei doveri coniugali o genitoriale.
La particolare inclinazione lesiva della condotta illecita, tuttavia, risponde alla precipua esigenza di assicurare la censura di condotte tali da oltrepassare la soglia di tollerabilità del danno di modo da circuire il perimetro risarcitorio intorno all’ingiustizia costituzionalmente qualificata.
A corroborare la tesi dell’autonomia concettuale dell’illecito endofamiliare, di contro, taluni autori riportano la disposizione contenuta nel novello art. 709 ter cod. Proc. Civ. Ove è attribuito al giudice il potere di pronunciare, unitamente ai provvedimenti tesi a rimuove i pregiudizi conseguenti ad inadempimenti di obblighi posti a corollario della responsabilità genitoriale di “il risarcimento dei danni, a carico di uno dei genitori, nei confronti del minore”, come anche di disporre il risarcimento “a carico di uno dei genitori nei confronti dell’altro” in presenza di danni conseguenti a violazioni dei doveri coniugale.
Si tratterebbe, secondo l’impostazione dedotta a sostegno dell’autonomia concettuale dell’illecito endofamiliare, di un’ipotesi in cui il risarcimento del danno non patrimoniale potrebbe essere riconosciuto indipendentemente dalla lesione di un interesse costituzionalmente garantito.
Invero la tesi non ha trovato eco in giurisprudenza ove è stato più volte affermato che “le questioni connesse al c.d. Illecito endofamiliare vanno trattate in un ordinario giudizio di cognizione [mentre] l’art. 709-ter c.p.c. Ha lo scopo di garantire la soluzione delle controversie familiari in corso – insorte vuoi nell’ambito di una lite già pendente fra i genitori vuoi nell’ambito di una situazione già definita, ma suscettibile di modifica”.
Trattasi, in ragione dell’utilizzo fattosene in giurisprudenza, di uno strumento deputato a “stimolare l’adempimento dei doveri genitoriali anche mediante l’adozione dei provvedimenti sanzionatori previsti dal secondo comma di tale norma” con la conseguenza che “l’indagine del tribunale deve essere limitata all’accertamento di eventuali gravi inadempienze agli obblighi posti a carico del padre nella sentenza di divorzio” (in questo senso cfr. Trib. Di reggio emilia, sent. 3 marzo 2008).
Ergo vero è che l’art. 709 ter cod. Proc. Civ. Consente al giudice di attribuire in beneficio di un coniuge o della prole, il diritto a percepire il risarcimento dei danni conseguenti all’altrui violazione dei doveri coniugali o genitoriali, indipendentemente dall’individuazione di un’ingiustizia costituzionalmente qualificata, ma ciò è previsto in prospettiva general-preventiva, quale strumento di coercibilità nell’esecuzione, quasi forzosa, dei doveri discendenti dal coniugio o dalla responsabilità genitoriale.
Non si tratta, quindi, del risarcimento dei danni endofamiliari, per i quali è necessario riferirsi alla struttura dell’illecito aquiliano, ed ai canoni ermeneutici individuati dalle sezioni unite nelle cd. Sentenze gemelle di san martino ai fini dell’individuazione dell’ingiustizia costituzionalmente tutelata, bensì in uno strumento, a trazione spiccatamente sanzionatoria, volta ad aggravare la situazione di responsabilità oltre gli specifici rimedi già previsti dal diritto familiare, in un’ottica teleologicamente orientata alla dissuasione da tali condotte inosservanti.
- (segue) la tesi della natura contrattuale dell’illecito endofamiliare
Nonostante la giurisprudenza sia stata pressoché unanime nel paventare l’applicazione della tecnica aquiliana alle ipotesi di illecito endofamiliare, in dottrina non è mancato il dissenso di chi predilige la declinazione in chiave contrattuale del paradigma di responsabilità da danni endofamiliari.
La tesi della natura contrattuale di tale profilo di responsabilità civile trova agomenti giustificativi nella inconciliabilità tra la cd. Responsabilità delittuale e la preesistenza di un rapporto giuridico tra le parti, nonché nella maggiore aderenza della rapporto inadempimento-responsabilità con riferimento a quelle condotte contrassegnate da violazioni di specifiche prescrizioni comportamentali.
La pregnanza con cui il principio di solidarietà investe le relazioni coniugali e genitoriali, è stato sottolineato, realizza un tendenziale affidamento caratterizzante le relazioni familiari, avverso cui la violazione delle prescrizioni comportamentali tipiche del diritto di famiglia, parrebbe configurarsi quale lesione degli obblighi di protezione.
La teorica degli obblighi di protezione, del resto, sarebbe in grado di valorizzare le relazioni di prossimità, rendendo preferibile, anche sotto il profilo applicativo, l’impego della tecnica contrattuale.
La principale obbiezione sollevata avverso la tesi della natura contrattuale dell’illecito endofamiliare, fà leva sull’assenza del carattere di patrimonialità di taluni doveri coniugali declinabili a partire dall’art. 143 cod. Civ., quali l’obbligo di assistenza morale, l’obbligo di fedeltà, l’obbligo di collaborazione e coabitazione, che di certo non possono ritenersi obbligazioni.[10].
- L’illecito endofamiliare e la tesi del danno ingiusto in una relazione qualificata
A mediare tra le contrapposte tesii è stata paventata la plausibilità dell’assoggettamento di un obbligo originario di responsabilità da fatto illecito, in tutto o in parte, alla disciplina della responsabilità contrattuale.
Secondo tale ultima tesi, l’interprete potrebbe, all’esito di un bilanciamento tra le posizioni del responsabile e del danneggiato, autorizzare l’impiego delle regime della responsabilità contrattuale nel riconoscimento dell’obbligo risarcitorio da fatto illecito.
Proseguendo per tal via, come osservato in dottrina (anzani), occorrerà chiedersi quando un fatto illecito possa essere tanto simile ad inadempimento da giustificare la soggezione del diritto al risarcimento alle regole della responsabilità contrattuale pur in mancanza di inadempimento di un obbligo primario.
Il punto di partenza di tale teorica muove da un’interpretazione estensiva del rapporto giuridico tale da ricomprendervi non solo i rapporti di natura obbligatoria, ma anche quelli di natura reale nei quali, indipendentemente dalla sussistenza di un obbligazione in senso tecnico, è frequente rinvenire posizioni assimilabili al cd. Interesse legittimo.
In tal senso la violazione di dovere, latu sensu inteso, concretizzatosi nel mancato compimento di un comportamento atteso ma concretamente inesigibile, configurerebbe la violazione di un interesse legittimo, determinando una situazione di responsabilità, in capo al danneggiante, tale da “emulare” la responsabilità contrattuale.
Un ampio concetto di rapporto giuridico, per tanto, sta alla base della possibilità di applicare il regime della una responsabilità contrattuale anche quando il rapporto sfugga ai canoni della patrimonialità ai sensi dell’art. 1174 c.c., come nel caso di un rapporto familiare.
Pur approdando alla responsabilità contrattuale, per ragioni di opportunità e convenienza, quantomeno sotto il profilo applicativo, rimane impregiudicata la necessità di individuare un discrimen tra inadempimenti in senso tecnico e violazione di rapporti non obbligatori.
Tale discrimen va individuato, secondo la riportata teorica, che lo scrivente ritiene di condividere, nell’emersione dell’ingiustizia, la quale è implicita nella lesione dell’interesse creditorio da parte del debitore inadempiente, mentre va accertata al di fuori dei tradizionali confini della responsabilità contrattuale.
Sotto tale profilo la teorica degli obblighi di protezione rappresenta un comodo escamotage per aggirare la necessità dell’accertamento dell’ingiustizia costituzionalmente qualificata, tramite la mimetizzazione dell’omesso controllo nel richiamo al contatto sociale qualificato.
La natura della responsabilità da illeciti endofamiliari, nell’eccezione della tesi degli obblighi di protezione, non oltrepassa indenne l’accertamento di tutti gli elementi costitutivi della sua fattispecie, che nella sostanza è e resta un illecito aquiliano.
Tuttavia la fisionomia dell’elemento prodromico alla responsabilità, calata nel rapporto endofamiliare e declinata nella violazione degli obblighi coniugali e genitoriali, rende convenevole, quantomeno sotto il profilo applicativo, il privilegio per la tutela contrattuale, nella declinazione di una responsabilità da ingiustizia in una relazione qualificata, categoria da ampi margini, che nelle relazioni familiari troverebbe, tuttavia, terreno di elezione.[11]
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Conclusioni
Il diritto di famiglia rappresenta un fulvido esempio di come il significato delle norme giuridiche può variare drasticamente, risentendo della progressiva mutabilità del sentimento comune, pur lasciandosene invariato il significante.
All’interno della stessa cornice costituzionale, infatti, la famiglia ha, prima mantenuto i connotati tipici del modello patriarcale, per tutto il ventennio precedente alla riforma del 1975.
Parimenti, prima della riforma del 1970, la famiglia ha mantenuto un’impronta “criptoindissolubilista” assiologicamente contiguo all’assetto valoriale che la cultura italiana ha assorbito dalla tradizione cattolica, senza che ciò violasse le libertà fondamentali dell’individuo.
A contrario, all’interno della stessa cornice costituzionale riconosciamo, ad oggi, una differente morfologia dei modelli familiari, ormai declinabili al plurale, connotati per il privilegio alla piena realizzazione dell’individuo nel bilanciamento con il perdurante interesse alla coesione del consorzio coniugale.
Ciò che assimila i vari modelli familiari alla società naturale fondata sul matrimonio, allo stato dell’arte, è la tensione verso la degradazione di tale istituzione da elemento basilare della nostra struttura sociale a mero luogo ove i singoli svolgono ed estrinsecano la propria personalità.
La famiglia, sia essa legittima (ex art. 29, co. 1 cost.), sia essa fondata su rapporti di fatto, o declinata nell’accezione omosessuale, è una formazione sociale la cui rilevanza si computa in ordine alla sua capacità di garantire la piena estrinsecazione e realizzazione della personalità dei partecipanti.
Venuto meno quell’interesse, di matrice precipuamente pubblicistica, alla coesione del consorzio familiare – ora sussistente sotto il profilo, meramente privatistico, dell’utilità della formazione sociale per il singolo – quelle norme che ne costituivano corollario, tra tutti gli artt. 143, 144, 146, co. 1, 147, 154, 157, 159, 160 e 180 cod. Civ., pur rimanendo strutturalmente immutate, hanno acquisito, in via ermeneutica, una maggiore duttilità, nell’intento di preservare l’unità della famiglia tramite il conferimento di capacità di adattamento al fronte della prevaricazione degli interessi personali dei suoi componenti.
In questo senso può essere letto l’orientamento giurisprudenziale che riconosce la tendenziale modellabilità dei doveri coniugali alla stregua dell’indirizzo di vita familiare concordato di modo che, ai fini della pronuncia di separazione, prodromica allo scioglimento del vincolo, e della valutazione circa l’intervenuta intollerabilità della convivenza, il giudice possa tener conto della morfologia particolare che la famiglia, nel caso di specie, ha assunto in conseguenza all’indirizzo di vita familiare concordato.
Al processo di privatizzazione delle relazioni familiari, quindi, ha corrisposto l’espansione dei diritti della persona all’interno delle formazioni sociali, ed anche della società naturale.
Ne segue che le norme tese a garantire l’unità del consorzio coniugale, in ragione della concezione della famiglia quale luogo deputato alla piena realizzazione della personalità del singolo, oggi devono interpretarsi nel senso di conferire maggiore duttilità alla morfologia della struttura familiare di modo da resistere alle tensione conseguente all’espansione degli interessi individuali.
Il funzionamento degli strumenti deputati alla coesione del consorzio coniugale presuppone che vi sia accordo sull’indirizzo di vita familiare con la conseguenza che, laddove l’interesse personale entri in contrasto con il preminente interesse della famiglia, o questa è morfologicamente in grado di adattarsi e contenerli al suo interno nonostante la mutevolezza, ovvero entra in crisi, muovendosi progressivamente verso il definitivo sfaldamento. A corroborare le predette considerazioni si consideri la declinazione precipuamente soggettiva che la giurisprudenza ha via via attribuito al requisito dell’intollerabilità della convivenza, nonché la permeabilità della società naturale agli strumenti di diritto comune.
Sotto il primo profilo è evidente che la crisi non definitiva della famiglia è la risposta temporanea all’incapacità della stessa di adeguarsi alla mutevolezza degli interessi individuali, oltre che a porre rimedio a momenti patologici ed altamente conflittuali che, comunque, ne potrebbero essere conseguenza.
La famiglia, in sostanza, può entrare in crisi ogni qualvolta che l’interesse individuale del singolo si espande sino a collidere con il perimetro esterno rappresentato dall’indirizzo di vita concordato.
In tali circostanze, in effetti, accantonando le ipotesi in cui il quomodo dell’estrinsecazione della personalità dell’individuo integra ineluttabilmente la violazione dei doveri familiari, la collisione tra l’interesse preminente della famiglia e quello dell’individuo non può che risolversi in favore di quest’ultimo.
In tal senso l’interesse individuale è in grado di espandersi oltre il perimetro dell’indirizzo di vita concordato, senza necessariamente integrare violazione dei doveri familiari.
Al fronte del predetto accadimento, l’unica reazione in grado di garantire la sopravvivenza del consorzio coniugale passa per una leale rimeditazione dell’indirizzo di vita concordato, e cioè per la capacità della morfologia familiare di rendersi duttile innanzi all’espansione degli interessi individuali.
L’istituzione familiare, ad oggi, pur tutelata nelle sue plurime declinazioni, difetta, per ciò, della capacità di imporsi quale nucleo informatore della società almeno sicché la proiezione superindividuale del preminente interesse del consorzio familiare soccomberà nel bilanciamento con gli interessi personali dei suoi componenti.
Il rischio è, in buona sostanza, quello che il progressivo sfaldamento del collante elementare della nostra struttura sociale, costituito dalla cd. Società naturale, conduca progressivamente allo sfaldamento del tessuto sociale sotto la spinta di una deriva personalistica ed eterodirezionale.
Note
[1] In questo senso cfr. Bessone – Alpa – D’Angelo – Spallarossa, La famiglia nel nuovo diritto, Bologna, 1999, pp. 33 ss.
[2] In questo senso cfr. Roberto Bin, “La famiglia: alla radice di un ossimoro”, in “Studium Iuris”, 2000, 10, 1066 ss. e in “Lavoro e Diritto”, 2000.
[3] Di tale avviso è la prevalente giurisprudenza di legittimità secondo cui “ai fini dell’addebitabilità della separazione, le ammissioni di una parte non possono avere valore di confessione, a norma dell’art. 2730 c.c., vertendosi in tema di diritti indisponibili, ma possono essere utilizzate come presunzioni ed indizi liberamente valutabili in unione con altri elementi probatori ), sempre che, ovviamente, esprimano non opinioni o giudizi o stati d’animo personali, ma fatti obiettivi e, in quanto tali, suscettibili di essere valutati giuridicamente come indice della violazione di specifici doveri coniugali (art. 143 c.c.)” (così Cass Civ., sent. 4 aprile 2014, n. 7998).
[4] La giurisprudenza ha ricostruito l’obbligo di fedeltà come impegno reciproco a non tradire il rapporto di dedizione fisica e spirituale fra i coniugi, nonché la fiducia reciproca, e non soltanto come astensione da relazioni sessuali extraconiugali (cfr. Cass. Civ., sent. 9287/1997); proprio in questo senso si afferma che provochi la violazione dell’obbligo di fedeltà, con conseguente addebito della separazione, anche la relazione del coniuge con estranei, la quale, seppure non si sia sostanziata in un vero e proprio adulterio, abbia comunque offeso la dignità e l’onore dell’altro coniuge, in ragione degli aspetti esteriori con cui sia condotta nell’ambiente in cui i coniugi abitualmente svolgono la vita familiare (cfr. Cass. Civ., sent. 8929/2013).
[5] Nella casistica giurisprudenziale è stata ritenuta violazione dell’obbligo di assistenza morale e materiale il comportamento del marito, la cui consorte era affetta da grave malattia (nella specie, sclerosi multipla), sprezzante ed insensibile, rifiutando, altresì, di prestarle l’aiuto necessario e l’adeguato conforto spirituale a seguito del peggiorare delle condizioni di salute della stessa (v. Corte di Appello di Napoli, sent. 8 marzo 2007); la condotta della moglie che ometta qualsiasi manifestazione di affetto e comprensione verso il marito, spesso assente da casa per lavoro e che tolleri continue ingerenze da parte della propria madre nella vita familiare, assillando, al contempo, il marito con pressanti e spropositate richieste di denaro (v. Cass. Civ., sent. 6575/1981); la condotta del marito che manifesti intolleranza nei confronti delle convinzioni della moglie e ne ostacoli le pratiche religiose (v. Tribunale di Patti, sent. 10 dicembre 1980); la condotta del coniuge il coniuge che rifiuti ingiustificatamente di fornire aiuto e conforto spirituale all’altro, con la volontaria aggressione della sua personalità, al fine di annientarla, deprimerla, o comunque ostacolarla (v Cass. Civ., sent. 3437/1982); la condotta del il coniuge che non accetti la sterilità della moglie fino al punto da chiedere la separazione con addebito, quando questa si sia sottoposta a lunghe, costose, ma vane terapie specifiche, pur rifiutando, nonostante le pressioni del marito, di continuarle dopo il raggiungimento di un’età cronologicamente avanzata nella quale un’eventuale gravidanza sarebbe stata a rischio (v. Tribunale di Lecce, sent. 14 ottobre 1994); la condotta di persistente rifiuto di intrattenere rapporti affettivi e sessuali con il coniuge. Tale atteggiamento, infatti, provocando frustrazione e disagio e, non di rado, irreversibili danni sul piano dell’equilibrio psicofisico del coniuge che ne è vittima, costituisce gravissima offesa alla sua dignità e personalità (v. Cass. Civ., sent. 6276/2005; Cass. Civ., sent. 753/2015).
[6] Parisi, I rapporti personali tra coniugi, in Autorino Stanzione (diretto da), Il diritto di famiglia nella dottrina e nella giurisprudenza. Trattato teorico-pratico, I, Torino, 2005, 430
[7] Va precisato, a tal proposito, che l’obbligo di assistenza morale e materiale non può estendersi sino al punto di imporre al coniuge una resistenza ed una tolleranza eccezionale (in questo senso v. Trib. di Monza, sent. 16 aprile 1986; La Corte Territoriale non ha ritenuto la condotta del marito che al seguito della scoperta di una grave malattia che affliggeva la moglie aveva intrapreso la procedura per la separazione integrasse violazione dell’obbligo di assistenza morale e materiale).
[8] Bonamini, Il dovere coniugale di collaborazione alla luce dei principii della costituzione, in FPS, 2010, 143 ss.
[9] Fra tutte Tribunale di Torino, sent. 24 novembre 1990, in Giur. It., 1991, I, 2, 573.
[10] Criticamente è stato osservato, con riferimento all’inadeguatezza del paradigma dell’illecito contrattuale, che “A venire in rilievo non è più, infatti, come osservato dalla angolazione dei doveri tra coniugi, un «ammanco» assiologico della fattispecie, bensì, per così dire, una sua sporgenza strutturale, che inesorabilmente si riverbera sul versante della responsabilità di cui è scaturigine: il riferimento è – ma vi si tornerà fra breve – alla imprescindibilità del dolo (generico) in colui che tenga la condotta lesiva, ai fini della imputabilità di un obbligo risarcitorio, se del caso aggiuntivo rispetto all’operare del rimedio «proprio» (ad esempio la decadenza dalla potestà
genitoriale, ex art. 333 cod. civ. ovvero le misure di cui all’art. 342 ter cod. civ.). Il che è, però quanto dire, dal punto di vista considerato, di una responsabilità che allora, per struttura, si rivela altra da quella contrattuale, ai fini della cui venuta ad esistenza rimane infatti del tutto ininfluente ogni connotazione soggettiva della condotta, seppure interferente con l’operare di cause di giustificazione”, cfr. Camilleri E., Violazione dei doveri familiari, danni non patrimoniali e paradigmi risarcitori, in La nuova giurisprudenza civile commentata, n. 6 del 6 giugno 2012.
[11] Sull’argomento cfr. Anzani G., Illeciti tra familiari e adattamento della responsabilità civile: la responsabilità da ingiustizia in una relazione qualificata, in Il diritto della famiglia e delle persone, Fasc. 2, 2017.
Per approfondimenti cfr. Camilleri E., Violazione dei doveri familiari, danni non patrimoniali e paradigmi risarcitori, in La nuova giurisprudenza civile commentata, n. 6 del 6 giugno 2012; Mormile L., L’illecito endofamiliare, in Studium Iuris, I, 2015.
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