L’inquadramento dei riders: la dicotomia tra subordinazione e autonomia

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Certamente impegnativo risulta il lavoro intrapreso dalla giurisprudenza, in questo ultimo triennio perlopiù, nell’identificare delle tipologie di lavoratori probabilmente ex novo. Potrebbero, codeste difficoltà, sottrarsi dalla conseguenza dell’arcinota mancata attuazione dell’art. 39 Cost. o potremmo supporre che, qualora vi fosse stata esecuzione della normativa, l’individuazione delle figure lavorative emergenti sarebbe stata maggiormente esemplificativa?

INDICE

  1. Introduzione
  2. La negoziazione desiderata dai riders
  3. Palermo, sentenza n. 3570/2020 del 24.11.2020
  4. La Cgil assume un ruolo da protagonista
  5. Il riconoscimento della subordinazione

 

  1. Introduzione

Con il termine “rider” si intende il fattorino addetto alla consegna a domicilio di cibo in bicicletta o motorino.

Ora, tutto il capo V bis del D.Lgs. n. 81/2015, (introdotto dal D.L. n. 101/2019, convertito con la L. n. 128/2019), in cui è incluso l’art. 47 septies, si occupa di fissare i livelli minimi di tutela che valgono “per i lavoratori autonomi che svolgono attività di consegna di beni per conto altrui, in ambito urbano e con l’ausilio di velocipedi o veicoli a motore… attraverso piattaforme anche digitali”, facendo salvo peraltro quanto previsto dall’art. 2, comma 1 del medesimo Decreto Legislativo. Ne deriva che tutto il capo V bis stabilisce un sistema basilare di tutele che si applica a prescindere dalla qualificazione del rapporto, e quindi anche nel caso di rapporti segnati dalla mera occasionalità o riconducibili all’art. 409, n. 3, c.p.c., (e quindi coordinati col committente e non da lui organizzati), e sempre facendo salve le maggiori tutele riconosciute dall’art. 2, D.Lgs. n. 81/2015 e dall’art. 2094 c.c.

È vero che il comma 2 dell’art. 47 bis definisce il committente in relazione all’utilizzo di piattaforme “strumentali alle attività di consegna di beni, fissandone il compenso e determinando le modalità di esecuzione della prestazione” e ciò fa pensare che si torni alla casella di partenza del lavoro etero organizzato.

Tuttavia, pare a chi scrive che il rompicapo che la disposizione sottopone all’interprete possa essere risolto ritenendo che l’etero organizzazione delle modalità della prestazione sia un dato ontologico, intrinseco al modo di svolgimento dell’attività dell’impresa consegnataria, così come – verrebbe a dire – il pedalare è uguale per tutti a prescindere dal rapporto contrattuale in essere.

Così che la disciplina del capo V bis si applicherà anche ai rapporti non continuativi[1] o a quelli disciplinati in via derogatoria da accordi collettivi nazionali stipulati da associazioni sindacali comparativamente più rappresentative sul piano nazionale, ai sensi dell’art. 2, comma 2, D.Lgs. n. 81/2015; o ancora, più semplicemente, a quei rapporti che, qualificati dalle parti come autonomi, continuano a vivere in questa dimensione, solo perché il lavoratore, per una scelta di convenienza o di necessità, sceglie di non chiederne una diversa qualificazione.

Il che attesta, per un verso, l’opportunità di un sistema di tutele universalizzante e non disponibile, che scoraggi politiche di dumping sociale, eventualmente incentivate da contropartite monetarie. Ed attesta anche la singolarità di una fattispecie che non vive nella relazione tra le parti (essendo un’ipotesi di scuola che le parti vi ricorrano spontaneamente), ma può vivere solo sulla base di una qualificazione operata dalla contrattazione collettiva o dal giudice, o eventualmente dall’ente previdenziale; il che fa supporre che sopravviva un’area di lavoro etero organizzato di fatto e non di diritto, perché il rider, per suo interesse personale o per sollecitazione datoriale, accetta di operare in regime formalmente autonomo.

L’estensione ai lavoratori etero organizzati dediti alla consegna di beni delle disposizioni del D.Lgs. n. 81/2008, deve intendersi come integrale, e non limitata agli artt. 22 e 26, come invece dispone l’art. 3, comma 11 del D.Lgs. per i lavoratori autonomi di cui all’art. 2222 c.c., pena il tradimento della ratio legis che informa l’intero capo e la riduzione della disposizione di cui all’art. 47 septies, D.Lgs. n. 81/2015 ad una ennesima norma apparente. Né pare possa ritenersi applicabile il comma 7 dell’art. 3, D.Lgs. cit., che limita alle prestazioni che si svolgono sul luogo di lavoro del committente l’applicazione delle disposizioni del D.Lgs., perché tale disposizione ha riguardo ad una tipologia di rapporti (i contratti a progetto) non più previsti dalla legge, oltre che ai lavoratori coordinati di cui all’art. 409, n. 3, c.p.c.; e va ulteriormente ribadita l’incompatibilità di una simile limitazione spaziale con la ratio cui si ispira l’intero capo V bis del D.Lgs. n. 81/2015, specificamente rivolto a disciplinare un lavoro che si svolge fuori dagli ambiti di competenza del committente.

Si ha dunque che ai riders, già a termini dell’art. 47 septies, si applicano non solo le disposizioni da 74 a 79 del D.Lgs. n. 81/2008, in materia di dispositivi di protezione individuale, ma più in generale tutte le disposizioni del D.Lgs. che impongono obblighi al datore di lavoro, secondo l’elencazione fattane dall’art. 15, e quindi in primo luogo la valutazione di tutti i rischi per la salute e sicurezza e la programmazione della prevenzione, nonché l’informazione adeguata dei lavoratori.

Sembra di poter dire che quello cui sono sottoposti i riders nella fase di diffusione del contagio sia un rischio specifico, produttivo di uno stress correlato al lavoro ulteriore rispetto a quello ordinario (art. 28, D.Lgs. n. 81/2008), tale da giustificare la necessità di aggiornare il documento di valutazione dei rischi (art. 29, D.Lgs. n. 81/2008), anche se va detto che tale obbligo non è espressamente previsto dai protocolli per il contrasto e il contenimento della diffusione del virus di Covid-19 negli ambienti di lavoro del 14 marzo e del 24 aprile 2020[2], prevedendosi però l’adozione di protocolli di sicurezza anticontagio, mentre l’ulteriore protocollo del settore trasporto e logistica, pubblicato in data 20 marzo 2020, prevede disposizioni specifiche per le consegne di pacchi “anche effettuate da riders“, a riprova della specificità del rischio da loro sopportato.

Tra i fattori organizzativi da prendere in considerazione in epoca di pandemia vi è anche quello dei tempi di consegna, contrattualmente fissati, secondo quanto emerso nella vicenda giudiziaria dei riders torinesi, nella misura massima di trenta minuti. Si tratta di una clausola emblematica, già in tempi ordinari, della gravosità etero organizzata del lavoro e della misura di sfruttamento insita in modalità di compenso che erano (e continuano ad essere, a dispetto di quanto prevede l’art. 47 quater, D.Lgs. n. 81/2015) essenzialmente a cottimo; nonché emblematica dell’ideologia del rapporto, che premia chi più corre, più rischia e più sopporta, soddisfatto di essere capitalista di sé stesso.

Ora anche questo fattore temporale deve adeguarsi non solo allo stress connesso all’uso della bicicletta con la mascherina, ma anche ai tempi di attesa nella presa in carico del prodotto e nella consegna, resi necessari dalla necessità di rispetto del distanziamento dal produttore, da altri riders, dal cliente finale (sono significativi a tal proposito i video e le foto dei riders nella metropolitana di Milano il giorno di Pasqua, che possono essere consultati sul web).

Ci si augura che l’algoritmo che governa il rating di questi lavoratori, nel suo oscuro operare, tenga conto di questa realtà; così come ci si augura che non penalizzi chi ha diritto di astenersi dal lavoro in uno dei casi previsti dal D.L. n. 18/2020 (art. 23: congedo per i genitori di figli non superiori a 12 anni in conseguenza dei provvedimenti di sospensione dei servizi educativi per l’infanzia e delle attività didattiche nelle scuole; art. 26: periodo trascorso in quarantena con sorveglianza attiva o in permanenza domiciliare fiduciaria con sorveglianza attiva; art. 47: assenza dal posto di lavoro da parte di uno dei genitori conviventi di una persona con disabilità).

Il tema dell’applicabilità integrale del D.Lgs. n. 81/2008 anche al lavoro dei riders porta con sé anche quello dell’applicazione dell’art. 2087 c.c. e della risarcibilità del danno per la sua violazione, anche se non possono nascondersi le difficoltà dell’accertamento dell’occasione di lavoro, in presenza di un agente patogeno occulto e globalmente diffuso.

Già lo stesso art. 47 septies, D.Lgs. n. 81/2015 riconosce ai riders la copertura assicurativa INAIL, con corrispondente obbligo dei datori di lavoro di attivarla, e l’art. 42 D.L. n. 18/2020 considera l’infezione da coronavirus come infortunio sul lavoro. La prova dell’occasione di lavoro sarà tanto più semplificata su base presuntiva quanto più rilevante sarà il rischio specifico connesso alle mansioni svolte (si pensi alle professioni sanitarie) ed invero la circ. INAIL n. 13/2020 estende la presunzione semplice di origine professionale dell’infezione da coronavirus non solo alle professioni sanitarie, ma in generale alle “altre attività lavorative che comportano il costante contatto con il pubblico/l’utenza”, di cui si dà un’elencazione esemplificativa. Non può dirsi che la medesima presunzione (con inversione dell’onere della prova) valga nei confronti del datore di lavoro, ma, quantomeno, ove sia possibile provare un contatto per occasione di lavoro con una persona positiva, dovrà applicarsi un principio di equivalenza causale con altre possibili fonti di contagio.

Il tema dell’applicabilità del D.Lgs. n. 81/2008 ai lavoratori etero organizzati porta con sé anche quello del diritto di rifiutare il lavoro, sancito dall’art. 44, secondo cui il lavoratore, in caso di pericolo grave, immediato e che non può essere evitato, ha diritto di allontanarsi dal posto di lavoro o da una zona pericolosa, e non può subire pregiudizio alcuno. Tale diritto di rifiutare la prestazione, secondo la regola inadimplendi non est adimplendum, è infatti riconosciuto per il lavoratore subordinato[3] e di esso si trova un riflesso nel protocollo siglato dalle parti sociali in data 24 aprile, là dove si dice che la prosecuzione delle attività produttive può avvenire solo in presenza di condizioni che assicurino alle persone che lavorano adeguati livelli di protezione. Tuttavia, il concreto esercizio di tale diritto ci introduce già alla seconda questione oggetto di questa trattazione.

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  1. La negoziazione desiderata dai riders

Appare di tutta evidenza che la prima decisione della Cassazione sulle gig economy non possa avere piena capacità risolutiva di tutte le questioni che la complessità del fenomeno comporta nella necessità di ritrovare una fattispecie astratta di riferimento e adeguata tutela.

Innanzitutto, essa non può, come è stato scritto, “stabilire in astratto, ossia prescindendo da un’analisi caso per caso, quanta dose di subordinazione, di autonomia, di parasubordinazione o di etero-organizzazione ci sia nel lavoro (genericamente) prestato attraverso le piattaforme digitali”[4] perché non è possibile pervenire ad una nozione giuridica unitaria di tutte le molteplici forme di lavoro implicate: se è certamente possibile immaginare che per i riders del food delivery il ventaglio delle possibilità si restringa, e di molto, non sembra comunque possa raggiungere una univoca interpretazione. Di conseguenza, non è in questo momento possibile escludere né che si consolidi una giurisprudenza che ne riconosca la natura eterorganizzata della prestazione, né che se ne sviluppi una invece a favore di una più pervasiva subordinazione. Né ancora, che gli stessi modelli organizzativi del lavoro digitale non approfittino di ulteriori sviluppi tecnologici per compiere una fuga tanto dalla subordinazione quanto dalla eterorganizzazione.

Ma vi sono altre questioni che restano sul campo.

La sentenza n. 1663/2020 non chiarisce del tutto i margini della eterorganizzazione, e dove le linee di confine con le collaborazioni autonomamente coordinate possono sembrare più nette, il legislatore è intervenuto, seppure animato dall’intento di ampliare il campo di applicazione dell’art. 2, D.Lgs. n. 81/2015 a sfumarle, con il rischio di rendere anche gli stessi giudici più cauti nella sua applicazione.

Né la sentenza spiega – ma non era certamente chiamata a farlo – in che rapporto il nuovo art. 2 si ponga con le norme del nuovo Capo del D.Lgs. n. 81/2015 dedicato al lavoro tramite piattaforme digitali, e più ancora, data l’estensione delle tutele del lavoro eterorganizzato solo nel primo caso, a quali condizioni la contrattazione collettiva possa intervenire per escluderle, o anche solo per meglio declinarle, come prevede l’art. 2, comma 2, lett. a).

  1. Palermo, sentenza n. 3570/2020 del 24.11.2020

La sentenza del Tribunale di Palermo n. 3570/2020 permette di fare chiarezza su quanto segue.

Tenuto conto delle sue concrete modalità di svolgimento, il rapporto di lavoro intercorrente tra rider e società di gestione della piattaforma, deve essere qualificato come subordinato ai sensi dell’art. 2094 c.c. La prestazione dei rider risulta, infatti, completamente organizzata dall’esterno e la libertà del rider di scegliere se e quando lavorare, su cui si fonda la natura autonoma della prestazione non è reale, ma solo apparente e fittizia. Conseguentemente la disconnessione e la mancata riattivazione dell’account del lavoratore configura un licenziamento per fatti concludenti qualificabile come licenziamento orale quindi nullo. Da tale premessa deriva la condanna della società di gestione della piattaforma, da qualificarsi imprenditore del settore trasporti, logistica e distribuzione, alla reintegrazione del rider illegittimamente licenziato.

  1. La Cgil assume un ruolo da protagonista

Tra gli interessi meritevoli di tutela ben può rientrarvi anche quello del lavoratore a non impegnarsi in modo esclusivo, verso il medesimo soggetto, e in modo rigido con tutte le conseguenti soggezioni proprie del lavoro subordinato.

Nella realtà sociale, infatti, può accadere (e, di fatto, accade con discreta frequenza nel settore del food delivery) che una persona, per esigenze personali, familiari, di studio, lavorative, ecc., non voglia obbligarsi verso un altro soggetto a rendere una prestazione predeterminata contrattualmente (o imposta unilateralmente) nel genere, nel quantum e nella collocazione temporale, accettando finanche il “rischio”[5] di rimettere la doverosità dello scambio ad un accordo che deve essere concluso tra le parti di volta in volta, anche per fatti concludenti.

Con questo non si vuole sostenere che tali rapporti debbano essere lasciati alle forze del mercato, anche perché, secondo recenti ricerche, la maggior parte dei lavoratori delle piattaforme digitali (in prevalenza stranieri), di fatto, si guadagna da vivere con queste attività. Ma, più banalmente, si intende sostenere che tali rapporti, proprio perché presuppongono spesso contratti e prestazioni “istantanee”, seppur continuative nel tempo, sovente a basso valore professionale e patrimoniale[6], necessitano di tutele, dentro e fuori il rapporto di lavoro, anche maggiori rispetto al lavoro subordinato o, comunque, specifiche e modulate in modo tale da tenere in debito conto e contemperare le esigenze e le condizioni (concrete) delle parti (di tipo economico e non), che possono essere molto differenti da soggetto a soggetto, nonché le peculiarità dell’attività lavorativa e del settore di riferimento.

Tornando al nostro caso, la sentenza della Corte d’appello di Torino sembra essersi districata dalla complessità descritta giungendo a delle conclusioni giuridicamente sostenibili, equilibrate e ragionevoli, anche da un punto di vista assiologico[7], e, quindi, nel complesso, apprezzabili, seppur criticabili e discutibili sotto molteplici profili.

Resta che rimangono aperte numerose questioni che non sono state affrontate dalla sentenza in commento o perché esulavano dal thema decidendum o perché sono state abilmente eluse nella decisione del caso concreto (si pensi, ad esempio, all’applicabilità o no alle collaborazioni eterorganizzate della disciplina dei licenziamenti, alla concreta applicazione della disciplina in materia di orario di lavoro, retribuzione e previdenza, alla possibilità di prorogare o rinnovare il contratto di collaborazione a termine, ai profili inerenti al funzionamento della piattaforma, ecc.).

Questioni, queste, che invece meritano la giusta considerazione e una pronta soluzione da parte di una dottrina attenta ai problemi reali, anche di tipo pratico, che pone il diritto positivo, da parte di una giurisprudenza in grado di rispettare il divieto di non liquet e, allo stesso tempo, di assolvere una funzione di orientamento nell’applicazione del diritto, da parte di un sindacato capace di dare voce alle nuove istanze provenienti dal mondo del lavoro ma anche di pensare forme innovative di tutela e di “contrattare (realmente) l’algoritmo”[8] e, infine, da parte di un legislatore (si ritiene nazionale)[9], responsabile e consapevole, che, nell’esercizio legittimo delle sue potestà, prenda concrete iniziative sulla base di scelte di natura politica.

  1. Il riconoscimento della subordinazione

Ripercorrere la storia e l’evoluzione della nozione di subordinazione all’interno del nostro ordinamento sarebbe un’impresa tanto avvincente quanto improba, giacché si tratterebbe di ricostruire, in sostanza, gran parte del dibattito e dei discorsi svolti tanto in dottrina quanto in giurisprudenza nel corso del Novecento sino ai giorni d’oggi. Tale nozione, infatti, non solo connota il contratto di lavoro ancora oggi considerato dal legislatore, nella sua tipologia a tempo indeterminato, la “forma comune” di rapporto di lavoro (vd. art. 1, 1° comma, D.Lgs. n. 81/2015), distinguendolo così da altre fattispecie (lavoro autonomo in primis), ma segna anche, o quantomeno ha segnato sino ad un passato non troppo remoto, i confini della normativa di protezione del lavoratore e, quindi, in definitiva, della nostra materia[10].

Senonché, contrariamente a quella che sembra essere la convinzione prevalente, già a partire dalla seconda metà degli anni ’60 la subordinazione ha iniziato a mostrare – quantomeno secondo parte della dottrina – una qualche inadeguatezza a ricoprire in modo efficace il ruolo di “elemento centrale” della relativa fattispecie unitaria, palesando così l’”estrema difficoltà di configurare sicure variazioni di ‘sottoposizione’ del debitore al creditore” tali da segnare una netta distinzione tra prestazioni di lavoro autonomo e subordinato[11]. Da qui l’esigenza di ricorrere, anche ai fini della tutela effettiva del lavoratore (art. 35, 1° comma, Cost.), ad altri concetti e criteri, tra i quali gli indici “sintomatici”, essenziali ma anche sussidiari, della fattispecie lavoro subordinato che sono stati elaborati dalla giurisprudenza sin dalle prime applicazioni dell’art. 2094 c.c..

In questo complesso e dinamico quadro possono individuarsi, comunque, alcuni punti fermi.

Tra questi va sicuramente ricordata la ormai assodata nozione, non economico-sociale ma giuridica, di subordinazione tecnico-funzionale nel senso che essa è “determinata dalla prestazione di lavoro e a questa collegata”[12].

Ed infatti, il ruolo di primario criterio distintivo è stato sempre ricoperto dal “vincolo di subordinazione” che, messo in stretta connessione con l’attività lavorativa, è richiamato tanto in positivo dall’art. 2094 c.c. (“alle dipendenze e sotto la direzione dell’imprenditore”) quanto in negativo dall’art. 2222 c.c. (“senza vincolo di subordinazione”).

E tale vincolo è costituito dall’inserimento del lavoratore nell’organizzazione aziendale (artt. 2082 e 2086 c.c.) ma soprattutto dall’assoggettamento al potere direttivo, ossia il potere del datore di lavoro di determinare e specificare l’attività lavorativa tempo per tempo esigibile, sempre nell’ambito delle mansioni di assunzione o di quelle successivamente assegnate a seguito del legittimo esercizio dello jus variandi (art. 2103 c.c.), ma anche quello di “disciplinare” le modalità e le regole alle quali la prestazione deve conformarsi (art. 2104 c.c.) e, quindi, in un’ultima istanza, di organizzare, collocare e dirigere nel corso dell’esecuzione del contratto ed eventualmente in modo anche penetrante e, comunque, dall’esterno (c.d. eterodirezione), la prestazione altrui verso fini ed interessi propri dell’impresa (art. 41 Cost. e art. 2082 c.c.).

Nella realtà dei fatti, però, il potere direttivo può essere esercitato con intensità e modalità diverse a seconda del contesto aziendale e dell’organizzazione di lavoro adottata, ma anche a seconda della professionalità del lavoratore e dell’attività lavorativa richiesta.

Inoltre, nel tempo sono stati introdotte, anche a livello legislativo, tipologie contrattuali (si pensi al lavoro a domicilio, al part-time, al lavoro intermittente, ecc.) e modalità di lavoro “speciali” rispetto a quella “standard” individuata dall’art. 2094 c.c. (si pensi al telelavoro o al lavoro agile) che hanno determinato l’acuirsi della “frammentazione” della fattispecie lavoro subordinato.

Date le difficoltà connesse alla ricostruzione dogmatica del concetto di lavoro subordinato, il dibattito si è spostato dalla esatta individuazione della fattispecie astratta e dei suoi elementi costitutivi alla diversa, ma connessa, questione dell’operazione di qualificazione del caso concreto. Ed infatti, parte della dottrina, anche osservando le operazioni qualificatorie condotte dalla giurisprudenza, ha suggerito di abbandonare il tradizionale metodo sussuntivo, che consiste nel ricondurre la fattispecie concreta ad una determinata fattispecie astratta soltanto nell’ipotesi in cui ricorrano tutti gli elementi costitutivi della stessa (c.d. giudizio di identità), per abbracciare il metodo tipologico che si fonda, invece, su un giudizio di sintesi e, quindi, di approssimazione del caso concreto alla fattispecie di cui si rinvengano, in modo prevalente, alcuni (ma non tutti gli) elementi costitutivi[13].

A partire dagli anni ’80 in giurisprudenza si è iniziato anche a parlare di subordinazione “attenuata” per indicare un vincolo di subordinazione tecnico-funzionale, con particolare riferimento al potere direttivo, che si presenta con caratteri sfumati, anche in ragione della accentuata autonomia della prestazione, dell’elevata professionalità o delle peculiarità del contesto aziendale, e pertanto richiede l’adozione di criteri complementari o sussidiari al fine della corretta qualificazione del rapporto di lavoro.

In particolare, quando la giurisprudenza si è trovata dinanzi a rapporti di lavoro difficilmente inquadrabili (c.d. area grigia) perché contraddistinti, ad esempio, dalla natura intellettuale o professionale dell’attività lavorativa o dalla presenza di caratteristiche bivalenti (o trivalenti), ossia riconducibili tanto all’uno quanto all’altro polo della dicotomia (o tricotomia), è ricorsa a criteri complementari e sussidiari che, benché privi di valore decisivo se presi singolarmente, possono essere valutati globalmente come indici “probatori” della subordinazione. Tra questi si ricordano: la collaborazione, la continuità delle prestazioni, l’osservanza di un orario determinato, il versamento a cadenze fisse di una retribuzione prestabilita, il coordinamento dell’attività lavorativa all’assetto organizzativo dato dal datore di lavoro, l’assenza di una sia pur minima struttura imprenditoriale in capo al lavoratore e di rischio economico.

Tra gli indici sussidiari, la giurisprudenza, dopo un primo orientamento contrario[14], a partire dalla metà degli anni ’80 ha iniziato a valorizzare o, comunque, a tener conto del nomen iuris che le parti individuali hanno dato al loro rapporto, sempre però come criterio indiziario e non autosufficiente.

Occorre, infine, far presente che, a fronte dell’evoluzione dei modelli organizzativi e produttivi, soltanto un orientamento giurisprudenziale minoritario ha svalutato il carattere discretivo del potere direttivo a tal punto da ravvisare l’esistenza della subordinazione “anche in assenza di concrete manifestazioni del vincolo di soggezione al potere direttivo del datore di lavoro”[15].

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Note

[1] Perulli, La nuova definizione di collaborazione organizzata dal committente, in Riv. it. dir. lav., 2019, 171.

[2] Invero in tali protocolli il rischio da Covid-19 è indicato come un rischio biologico generico, per il quale occorre adottare misure uguali per tutta la popolazione. Ciò non esclude però che l’obbligo di aggiornamento possa trarsi direttamente dall’art. 15, D.Lgs. n. 81/2008.

[3] Ingrao, C’è il CoViD19, ma non adeguati dispositivi di prevenzione: sciopero o mi astengo?, in Giustizia civile.com, 18 marzo 2020.

[4] Voza, Il lavoro e le piattaforme digitali: the same old story?, in WP CSDLE “Massimo D’Antona”.IT, 2017, n. 336, 10.

[5] Purché tale “rischio” sia effettivo, e cioè esterno alla volontà delle parti o, quantomeno, non influenzato da decisioni unilaterali della controparte negoziale dettate esclusivamente da motivi illeciti.

[6] Maio, Il lavoro per le piattaforme digitali, cit., 584 secondo cui nella c.d. gig economy il primo sbarramento per il lavoratore all’accesso e alla realizzazione della “giustizia” è dato dalla sproporzione tra costi giudiziali (certi ed elevati) e benefici (potenziali e sovente esigui).

[7] Sul punto basti osservare che i riders ricorrenti in quel giudizio avevano diritto ad un compenso pari a soli 5,60 euro (peraltro al lordo delle trattenute fiscali e previdenziali) per ciascuna ora in cui si rendevano “disponibili” a realizzare tutte le consegne che venivano comunicate da Foodora tramite app, salvo (eventuali) mance spontaneamente rilasciate dai clienti.
Ebbene, abbandonando per un momento qualsiasi discorso di tipo formalistico o di diritto positivo, a parere di chi scrive, questo indiscutibile dato di fatto non solo stride con i principi affermati dalla nostra Costituzione, in particolare con la tutela del lavoro “in tutte le sue forme ed applicazioni” (art. 35, 1° comma, Cost.) e con il principio di proporzionalità che, in qualche modo, dovrebbe contraddistinguere anche i rapporti di lavoro autonomo (art. 36, 1° comma, Cost. interpretato in modo “evolutivo” alla luce dell’odierna realtà socio-economica molto diversa rispetto a quella di fine anni ’40 del secolo scorso), ma è anche incompatibile con una Repubblica che dovrebbe essere “democratica” e “fondata sul lavoro” (art. 1 Cost.) e prodigarsi per l’eguaglianza, sia formale sia sostanziale, e per la “pari dignità sociale” di tutti i cittadini (art. 3 Cost.).

[8] Questa è stata l’enfatica ed innovativa linea dettata dall’uscente segretario generale della CGIL, Susanna Camusso, in occasione dell’evento “Idea diffusa. L’innovazione a servizio della contrattazione” del 9 luglio 2018.

[9] Il riferimento è alla legge regionale del Lazio, 12 aprile 2019, n. 4, recante “Disposizioni per la tutela e la sicurezza dei lavoratori digitali”, che, seppur nel lodevole intento di riconoscere il “diritto di ogni persona ad avere un trattamento giusto ed equo in merito alle condizioni e alla sicurezza del lavoro, all’accesso alla protezione sociale e alla formazione indipendentemente dalla tipologia e dalla durata del rapporto di lavoro” (artt. 1 e 2), sembra invadere illegittimamente la competenza legislativa dello Stato (art. 117, lett. l) ed o), Cost.) in quanto introduce norme in materia di: salute e sicurezza (art. 3), assistenza e previdenza (art. 4), compenso e indennità speciali (art. 5), informativa preventiva al lavoratore digitale (art. 6), parità di trattamento e non discriminazione nel rating reputazionale (art. 7), sanzioni (art. 8).

[10] Martone, La subordinazione una categoria del Novecento, in M. Persiani, F. Carinci (diretto da), Trattato di diritto del lavoro, Padova, 2012, IV, Tomo I, 3 e segg.

[11] Spagnuolo Vigorita, Subordinazione e diritto del lavoro. Problemi storico-critici, Morano Editore, Napoli, 1967, 36.

[12] Barassi, Il contratto di lavoro nel diritto positivo italiano, 1915, anche Santoro-Passarelli, Nozioni di diritto del lavoro, Napoli, 1958, X ed., 65, il quale evidenziava tuttavia, così superando l’impostazione barassiana, che la subordinazione è anche “necessariamente personale”, nel senso che investe la stessa personalità del lavoratore in quanto comporta l’assoggettamento al potere direttivo e disciplinare del datore di lavoro ma anche l’inseparabilità del lavoro dalla persona e la tendenziale esclusività del rapporto e, quindi, della relativa retribuzione. La conclusione a cui giungeva Francesco Santoro-Passarelli era, pertanto, che la subordinazione tecnico-funzionale e personale è una “caratteristica costante” di qualunque tipo di lavoro subordinato sia esso fisico o intellettuale, esecutivo o di direzione.

[13]  Spagnuolo Vigorita, Subordinazione e diritto del lavoro, cit., 143.

[14] Cfr., ad es., Cass., sent. n. 145/1980 che ha affermato il principio, invero ancora valido, secondo cui “il giudice non deve fermarsi all’esame delle clausole contrattuali e, in particolare, al ‘nomen iuris‘ usato dalle parti, ma deve avere riguardo, al di fuori di ogni criterio formalistico, all’effettiva natura ed al reale contenuto del rapporto medesimo, nonché alle modalità di espletamento delle mansioni che costituiscono l’oggetto della prestazione lavorativa”.

[15] E sempreché ricorra un “obbligo di porre a disposizione del datore le proprie energie lavorative e di impiegarle con continuità secondo le direttive di ordine generale impartite dal datore di lavoro ed in funzione dei programmi cui è destinata la prestazione per il perseguimento dei fini propri dell’impresa”, cfr. Cass., Sez. lav., sent. n. 7681/2010. In altri termini, secondo questo orientamento, in simili ipotesi, nell’operazione qualificatoria è possibile e, anzi, necessario prescindere dalla verifica del potere direttivo dell’imprenditore nei casi in cui esso non possa validamente assumere il “ruolo discretivo” che normalmente gli è proprio (in tal senso cfr. anche Cass., Sez. lav., sent. n. 9167/2001 e n. 2842/2002).

Avv. Martina Liaci

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