I limiti della surrogazione e l’obbligo dell’assicurato di non pregiudicarla

Redazione 10/03/02
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di Ermanna Grossi

1. Premessa

Il problema dell’individuazione dei limiti della surrogazione dell’assicuratore ha suscitato vivaci dispute in dottrina e in giurisprudenza; dispute che, talvolta, non si sono sopite neanche di fronte alla consolidata giurisprudenza della Corte di Cassazione, come è avvenuto in tema di concorso di colpe del terzo e dell’assicurato nella produzione del sinistro [1].

            In linea generale può dirsi che la surrogazione dell’assicuratore incontra dei limiti di carattere soggettivo e dei limiti di carattere oggettivo. I primi riguardano i soggetti legittimati in senso passivo all’azione di surrogazione, quelli, cioè, che l’art. 1916, 1° comma, c.c. designa con  il  nome  di « terzi responsabili » [2]. I limiti oggettivi si riferiscono, invece, al contenuto economico dell’obbligazione di risarcimento, all’ammontare dell’indennità corrisposta dall’assicuratore e a quello della somma che quest’ultimo può pretendere dal terzo responsabile, una volta che si sia assicurato nei diritti dell’assicurato [3].

2. I limiti oggettivi

            Il diritto di surrogazione risulta quantitativamente limitato dalla somma versata dall’assicuratore a titolo di indennità e da quella dovuta dal terzo responsabile a titolo di risarcimento. L’esistenza di questo doppio limite quantitativo non è mai stata messa in dubbio dalla dottrina [4] o dalla giurisprudenza [5].

            Più difficile è, invece, stabilire se la surrogazione dell’assicuratore possa estendersi oppure no alle somme dovute dal terzo responsabile per titoli di danno diversi da quelli che formarono oggetto della copertura assicurativa e, in particolare, per il danno biologico e per quello non patrimoniale.

            Il problema, che costituisce tuttora il punto più delicato e controverso del tema relativo ai limiti oggettivi della surrogazione, si pone generalmente quando il diritto di surrogazione viene esercitato non dagli assicuratori privati [6], ma da quelli sociali [7]e, in particolare dall’INAIL [8] l’istituto che, nel nostro Paese, gestisce l’assicurazione obbligatoria contro gli infortuni sul lavoro e le malattie professionali [9].

            Il diritto di surrogazione non è appannaggio esclusivo degli assicuratori privaticontro i danni alla persona ed alle cose (art. 1916, 4° comma, c.c.). Anche gli assicuratori sociali, infatti, hanno il diritto di recuperare dall’autore del danno il valore monetario delle prestazioni erogate, secondo il disposto dell’art. 1886 c.c. [10].

            Le azioni di recupero dell’INAIL, però, si distinguono a seconda che l’autore del danno sia lo stesso datore di lavoro oppure un terzo estraneo al rapporto assicurativo obbligatorio che lega il datore di lavoro all’INAIL [11], il quale, nel primo caso dispone di una azione di regresso nei confronti del datore di lavoro (art. 11 del d.p.r. 1124 del 30 giugno 1965), nel secondo dell’azione di surrogazione così come disciplinata dall’art. 1916 c.c. [12].

            Nell’esercizio di entrambe le azioni, l’INAIL non può pretendere più di quanto abbia versato all’assicurato dal terzo responsabile, il quale, a sua volta, non è tenuto a corrispondere all’istituto assicuratore più di quanto egli debba al danneggiato [13].

            Per molto tempo, questi sono stati considerati dalla giurisprudenza di legittimità [14], seguita da una parte della dottrina [15], i due unici limiti dell’azione di recupero dell’INAIL, il quale, per il resto, poteva subentrare  nella complessiva pretesa risarcitoria riconosciuta all’avente diritto, senza che fosse consentito distinguere tra danni inclusi e danni esclusi dalla copertura assicurativa.

            La giurisprudenza era giunta a questa conclusione argomentando, innanzitutto, dalla lettera del 1° comma dell’art. 1916 c.c.. L’inciso secondo il quale « l’assicuratore è surrogato fino alla concorrenza dell’ammontare » dell’indennità versata,  è stato, infatti, interpretato nel senso che fino a quel limite l’assicuratore può subentrare in tutti i diritti dell’assicurato verso il terzo responsabile [16].

           Questa interpretazione, inoltre, è stata ritenuta conforme alle finalità dell’istituto della surrogazione, in quanto, se da un lato evita che l’assicurato percepisca due indennizzi per il medesimo danno, dall’altro fa in modo che il danneggiante non sfugga alle conseguenze della propria responsabilità, oltre a consentire all’assicuratore di potenziare la garanzia collettiva a favore della massa degli assicurati, attraverso il recupero di tutte le somme versate all’assicurato a titolo di indennità [17].

            Per giustificare il proprio assunto, infine, la giurisprudenza ha spesso fatto riferimento alla natura  giuridica della surrogazione, la quale, consistendo in una forma peculiare di successione a titolo particolare nel credito dell’assicurato, dovrebbe essere del tutto svincolata dalle singole componenti del danno e comportare, fino alla concorrenza dell’ammontare dell’indennità versata, il subingresso dell’assicuratore nella complessiva ed unitaria pretesa risarcitoria riconosciuta all’avente diritto [18].

            Queste argomentazioni sono state respinte dalla dottrina prevalente [19] e da una parte della giurisprudenza di merito [20], le quali hanno rilevato, in primo luogo, che l’espressione « è surrogato fino alla concorrenza   dell’ammontare » dell’indennità versata indica soltanto il limite massimo entro il quale la surrogazione può operare [21]. La mancata fissazione di un limite minimo, per contro, prova che il legislatore non ha ritenuto opportuno stabilire, in ogni caso, a favore dell’assicuratore, il diritto di subentrare nei diritti dell’assicurato per un ammontare pari a quello dell’indennità versata. Tale soluzione, infatti, travolgerebbe ogni limite della responsabilità del terzo, il quale si vedrebbe costretto a rispondere anche di quei danni che soltanto l’assicuratore è obbligato ad indennizzare in forza del contratto di assicurazione [22].

          Le osservazioni della dottrina a proposito del 1° comma dell’art. 1916 c.c. non sono smentite dalla lettera del 1° comma dell’art. 11 del d.P.R. 1124 del 1965, secondo cui  « l’istituto assicuratore ha il diritto di regresso per le somme pagate a titolo di indennità ». La preposizione “per” che ricorre in questa espressione in luogo dell’altra “fino a” sembra fare genericamente riferimento ad un rapporto di uguaglianza tra l’indennità assicurativa e la somma recuperabile dall’assicuratore mediante la surrogazione. Questo argomento, tuttavia, non può essere invocato a sostegno della tesi dell’unitarietà del danno risarcibile, in quanto non esclude la dipendenza del diritto di regresso dalla relazione che viene ad instaurarsi tra l’assicurato e l’assicuratore in forza del contratto di assicurazione [23].

           Attraverso l’art. 1916 c.c., inoltre, il legislatore non ha disciplinato il c.d. profilo interno dell’istituto della surrogazione, relativo ai rapporti tra i soggetti del contratto di assicurazione, ma soltanto quello esterno, limitandosi ad attribuire all’assicuratore un’azione contro il terzo responsabile in sostituzione del titolare originario [24]. Questa azione è diretta soltanto formalmente contro il danneggiante: essa, infatti, sostanzialmente incide sul patrimonio dell’assicurato, che viene privato in tutto o in parte del suo credito al risarcimento. Pertanto, é nel rapporto assicurativo e nella sua funzione indennitaria che vanno ricercati i limiti della surrogazione dell’assicuratore, nel cui ambito non possono farsi rientrare quelle componenti del danno spettanti all’assicurato nei confronti del terzo, che non abbiano formato oggetto della copertura assicurativa [25].

            Questa soluzione potrebbe sembrare poco opportuna in una prospettiva di analisi economica del diritto. Secondo una parte della dottrina [26], infatti, perché l’istituto della surrogazione possa costituire un efficace strumento di contenimento dei costi dell’impresa di assicurazione è necessario, da un lato, che il danneggiante paghi all’assicurato una somma equivalente alle perdite subite da quest’ultimo e ciò anche al fine di conservare gli incentivi a ridurre i rischi che possono derivare ai terzi e, dall’altro, che l’assicurato riceva dall’assicuratore e dall’autore del danno una somma uguale alle perdite da lui sofferte.

            Questa tesi, tuttavia, presuppone che la copertura assicurativa sia integrale, corrispondendo esattamente all’ammontare dei danni subiti dall’assicurato [27]. Nei casi in cui essa sia solo parziale, invece, consentire all’assicuratore, che agisce in surroga, di aggredire anche le somme dovute all’assicurato dal terzo responsabile a titolo di risarcimento di quei danni che non formarono oggetto della copertura assicurativa significa « sacrificare il diritto dell’assicurato all’integrale risarcimento del danno, in palese contrasto con il principio generale espresso dall’art. 2043 c.c., secondo cui ogni danno ingiusto deve essere risarcito » [28].

           È privo di fondamento, poi, il rilievo secondo il quale la soluzione favorevole all’integrale recupero delle somme dovute dal danneggiante da parte dell’assicuratore surrogatosi consentirebbe il contenimento dei costi dell’impresa e, quindi, dei premi assicurativi [29]. Infatti, a prescindere dalla circostanza che la determinazione dell’ammontare dei premi è il frutto di una decisione discrezionale degli assicuratori, i quali, in questa loro scelta, devono necessariamente tenere presenti la concorrenza e gli altri fattori del mercato e della politica aziendale [30], i vantaggi economici per la massa degli assicurati non possono essere conseguiti compromettendo il diritto dei singoli assicurati all’integrale risarcimento dei danni [31].

            Giova ricordare, infine, che la tesi sostenuta dalla dottrina prevalente sembra trovare un preciso riscontro nell’art. 438 dell’abrogato codice di commercio del 1882, il quale, come è noto, costituisce il precedente storico della norma di cui all’art. 1916 c.c.. Tale articolo, infatti, nello stabilire che l’assicuratore, dopo aver risarcito il danno o la perdita delle cose assicurate, è surrogato solo « nei diritti che per causa del danno competono all’assicurato » verso il terzo responsabile, si riferiva evidentemente al danno rientrante nella copertura assicurativa [32]. È stata proprio questa interpretazione della norma, infatti, a consentire alla dottrina più autorevole di individuarne la ratio nella necessità di impedire il cumulo, in capo all’assicurato, di un duplice indennizzo « pel medesimo danno » [33].

            Nonostante le critiche della dottrina, la Corte di cassazione ha continuato per lungo tempo ad affermare che l’assicuratore subentra in tutti i diritti che l’assicurato vanta nei confronti del terzo responsabile, i quali hanno come contenuto il risarcimento del danno « nella sua globale configurabilità, corrispondente ad una categoria giuridica unitaria che unifica gli effetti pregiudizievoli  del  fatto  illecito », a nulla rilevando « che detto concetto giuridico possa avere economicamente specificazioni diverse corrispondentemente alle separate voci di danno che concretamente ne derivino » [34].

           Questo orientamento giurisprudenziale è stato dapprima incrinato e poi definitivamente travolto dalla giurisprudenza della Corte costituzionale dei primi anni novanta.

            Con la sentenza n. 319 del 6 giugno 1989 [35] il giudice delle leggi ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dei commi 2°, 3° e 4° dell’art. 28 della legge 990 del 1969 istitutiva dell’assicurazione obbligatoria della responsabilità civile derivante dalla circolazione dei veicoli a motore e dei natanti, nella parte in cui consente all’ente gestore delle assicurazioni sociali di esercitare l’azione di surroga con pregiudizio del diritto del danneggiato al risarcimento dei danni alla persona non altrimenti risarciti [36] .

            L’art. 1916 c.c., invece, che, pur investito delle medesime accuse, era stato ritenuto estraneo al caso di specie dalla sentenza n. 319 del 1989 [37], è stato dichiarato costituzionalmente illegittimo dalla sentenza n. 356 del 18 luglio 1991 della Corte costituzionale [38] nella parte in cui permette all’assicuratore di avvalersi, nell’esercizio del diritto di surrogazione nei confronti del terzo responsabile, anche delle somme da quest’ultimo dovute all’assicurato a titolo di risarcimento del danno biologico che non formi oggetto della copertura assicurativa. Con la stessa sentenza, la Corte ha dichiarato infondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 10, 1° e 2° comma del d.P.R.  n. 1124 del 1965, dovendosi interpretare tale norma nel senso che il datore di lavoro conserva la propria responsabilità nei casi in cui, con il proprio comportamento colpevole, anche se non penalmente rilevante, abbia cagionato al lavoratore un danno alla salute non rientrante tra quelli indennizzati dall’INAIL.

            Attraverso la sentenza n. 485 del 27 dicembre 1991 [39], infine, la Consulta ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dei commi 6° e 7° dell’art. 10 del d.P.R. n. 1124 del 1965, nella parte in cui prevedono che il lavoratore infortunato o i suoi aventi causa hanno diritto, nei confronti delle persone civilmente responsabili per il reato da cui l’infortunio è derivato, al risarcimento del danno biologico non collegato alla perdita o alla riduzione della capacità lavorativa generica solo se e nella misura in cui il danno risarcibile, complessivamente considerato, superi l’ammontare delle indennità corrisposte dall’INAIL. Con la stessa sentenza è stata, altresì, sancita l’illegittimità costituzionale dei commi 1° e 2° dell’art. 11 del d.P.R. 1124 del 1965, nella parte in cui consentono all’INAIL di avvalersi, nell’esercizio del diritto di regresso contro le persone civilmente responsabili, anche delle somme dovute al lavoratore infortunato a titolo di risarcimento del danno biologico non collegato alla perdita o alla riduzione della capacità lavorativa generica.

3. Surrogazione dell’assicuratore e danno morale

            La sentenza n. 356 del 1991 si caratterizza rispetto alle altre per il contributo teorico che ha fornito per lo studio e la soluzione di alcune tra le più importanti questioni in tema di risarcimento del danno biologico [40].

            Assumendo come parametro per la sua decisione  l’art. 32 della Costituzione, secondo il quale « la Repubblica tutela la salute come bene fondamentale dell’individuo e interesse della collettività », la Corte costituzionale ha affermato che l’esercizio del diritto di surrogazione da parte dell’assicuratore non può mai risolversi nel pregiudizio di valori costituzionalmente garantiti come il diritto alla salute.

            Da questa premessa, però, la Corte non ha tratto tutte le dovute conclusioni: essa, infatti, ha espressamente ritenuto l’art. 1916 c.c. costituzionalmente legittimo nella parte in cui consente all’assicuratore surrogatosi di aggredire anche le somme devolute al ristoro del danno morale di cui all’art. 2059 c.c. [41] o di « altre ragioni risarcitorie parimenti non assistite dalla garanzia di cui all’art. 32 della  Costituzione ».

            A tale conclusione sembrano condurre due ordini di considerazioni:  una lettura ristretta al solo profilo del danno alla salute della sentenza n. 319 del 1989, la quale ha, invero, affermato il principio secondo cui l’esercizio del diritto di surrogazione non può compromettere il risarcimento dei danni alla persona non altrimenti risarciti [42]; una convinta adesione alla storica sentenza n. 184 del 1986 dello stesso giudice e, in particolare, alla « rilettura costituzionale » dell’art. 2043 c.c. da essa compiuta [43]. Circostanza questa che sembra potersi desumere dal richiamo, non del tutto esplicito, per la verità, alla distinzione tra danno biologico in sé considerato (danno – evento) ed effetti che dalla lesione della salute possono derivare (danno – conseguenza) e che sembra sorreggere la decisione finale secondo cui solo il danno evento godrebbe di un’effettiva copertura costituzionale [44].

            L’assunto della Consulta è stato duramente contestato dalla dottrina, la quale non ha mancato di sottolineare la contraddittorietà della conclusione della Corte con il principio, sotteso alla pronuncia, della necessaria correlazione tra oggetto della copertura assicurativa ed ambito di applicazione della surrogazione [45]. Che  il risarcimento del danno morale non rientri tra i rischi indennizzati dall’INAIL è una cosa di cui la stessa Corte costituzionale sembra, peraltro, essere convinta. In questa sentenza, infatti, essa ha affermato che le indennità dovute dall’INAIL ai sensi dell’art. 66 del d.P.R. n. 1124 del 1965 sono collegate e commisurate esclusivamente ai riflessi che la menomazione psicofisica ha sull’attitudine al lavoro dell’assicurato [46].

            È privo di fondamento, poi, l’assunto secondo il quale il danno morale non godrebbe di alcuna copertura assicurativa. Anch’esso, infatti, trova un punto di riferimento nella Carta fondamentale, che è dato non già dall’art. 32, ma dall’art. 2, che tutela la dignità della  persona [47].

            I suggerimenti della dottrina sono stati ben presto accolti dalla giurisprudenza della Corte di cassazione [48], la quale, realizzando una sorta di “interpretazione autentica” della sentenza n. 356 del 1991 della Corte costituzionale, ha individuato il fondamento ed il limite della declaratoria di incostituzionalità dell’art. 1916 c.c. nel fatto che l’azione da esso prevista può essere esercitata esclusivamente per il recupero delle somme dovute al danneggiato per il risarcimento di quella parte del danno che abbia formato oggetto della copertura assicurativa [49]. E, poiché la funzione indennitaria dell’assicurazione contro i danni non può in nessun caso compromettere la finalità riparatoria propria dell’istituto del risarcimento, non vi è ragione per limitare al solo danno alla salute il processo di scomposizione del complessivo ammontare del risarcimento spettante al danneggiato [50].

            Questo nuovo indirizzo della giurisprudenza di legittimità ha, alla fine, ricevuto l’autorevole avallo della Corte costituzionale, la quale, con la sentenza n. 37 del 17 febbraio 1994 [51], ha dichiarato manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale dei commi 1° e 2° dell’art. 11 del d.P.R. n. 1124 del 1965, dovendosi interpretare tali norme nel senso che l’assicuratore sociale, surrogatosi nei diritti dell’assicurato verso il terzo responsabile, non può aggredire le somme da quest’ultimo dovute al danneggiato a titolo di risarcimento del danno morale.

4. Surrogazione dell’assicuratore e danno da lesione della c.d. capacità lavorativa generica

            La sentenza n. 356 del 1991 della Corte costituzionale, pur essendo formalmente riferibile sia agli assicuratori privati che a quelli sociali, riguarda, sostanzialmente, la posizione di questi ultimi e si inserisce in quel più vasto e nuovo orientamento giurisprudenziale volto a circoscrivere sempre di più l’ambito e la portata delle azioni di rivalsa degli enti gestori delle assicurazioni sociali [52] .

            Essa, tuttavia, pone dei problemi di ordine concettuale e di ordine pratico gestionale. I primi consistono nello stabilire quali tra le categorie di danno alla persona, elaborate dalla dottrina civilistica, corrispondono a quelle prese in considerazione dalla legislazione previdenziale e che, pertanto, possono esattamente dirsi indennizzate dagli assicuratori sociali [53]. Sul piano pratico gestionale, per contro, i problemi riguardano soprattutto gli assicuratori della responsabilità civile, i quali, direttamente o indirettamente  — a seconda che il danneggiato abbia o meno azione diretta nei loro confronti ovvero che la surrogazione dell’assicuratore sociale si fondi sull’art. 1916 c.c. o su altre disposizioni che concedono un’azione immediatamente esperibile contro l’assicuratore del responsabile —  trovandosi esposti alle contrastanti pretese del danneggiato e del suo assicuratore sociale, devono, per pagare bene e con effetto liberatorio, individuare con precisione l’ambito e la portata dell’azione di surrogazione dell’ente previdenziale, anche alla luce dei nuovi criteri dettati dalla Corte costituzionale [54].

            Sulla questione dell’ampiezza dei limiti della surrogazione dell’ente previdenziale, la dottrina e la giurisprudenza sono divise.

            Alcuni autori [55] e una parte della giurisprudenza [56], muovendo dal presupposto secondo cui oggetto della copertura assicurativa dell’INAIL sia esclusivamente il danno da lesione dell’attitudine al lavoro (comunemente definita come “capacità lavorativa generica”) [57] e non anche il danno patrimoniale in senso stretto e il danno morale, ritengono che, in sede di surrogazione, l’ente gestore delle assicurazioni sociali debba limitarsi ad aggredire le somme dovute dal terzo responsabile al danneggiato a titolo di risarcimento del danno derivante dalla lesione della capacità lavorativa generica.

            Secondo tale orientamento, in sostanza, quest’ultimo tipo di danno nulla ha in comune con il danno biologico:   l’indennizzo pagato dall’INAIL, infatti, prescinderebbe completamente dagli svantaggi e dagli ostacoli che il danno all’integrità psicofisica del soggetto comporta negli ambiti esistenziali diversi da quello lavorativo.

            Questo assunto troverebbe una conferma nella disomogeneità dei criteri adottati per la liquidazione del danno biologico e del danno da lesione della capacità lavorativa generica [58] e nella diversità degli scopi perseguiti dai due risarcimenti [59].

            Tali argomentazioni non possono essere condivise.

            La lesione della capacità lavorativa generica, infatti, costituisce null’altro che un danno biologico riguardato in un suo aspetto particolare [60]. Lo dimostra il fatto che, così come il danno biologico [61], essa viene comunemente definita dalla medicina legale [62], dalla dottrina più accreditata [63], nonché dalla giurisprudenza di legittimità [64], come un danno la cui entità prescinde completamente dal reddito del danneggiato, un danno, cioè, che attinge alla complessiva integrità psicofisica del soggetto, limitando la sua capacità di svolgere in futuro una qualsiasi attività lavorativa o extralavorativa.

            La tesi che configura il danno da lesione alla capacità lavorativa generica come un danno autonomo, rispetto a quello biologico, rischia, oltretutto, di frantumare quella nozione unitaria di danno alla salute, auspicata dalla Corte costituzionale in due delle sue più significative pronunce [65].

            È necessario, dunque, che in sede di liquidazione del danno biologico, i giudici tengano conto di tutte le ripercussioni che la lesione all’integrità psicofisica e i suoi postumi potranno avere su tutte le attività del soggetto, compresa quella lavorativa [66].

            Dalla disomogeneità dei criteri adottati per la liquidazione dei due tipi di danno, inoltre, non possono trarsi elementi per desumerne la natura. Non è raro, infatti, che danni aventi la stessa natura vengano liquidati con criteri diversi, anche legislativamente imposti [67].

            Per quanto riguarda, infine, il richiamo alle diverse finalità del risarcimento nei due tipi di danno, può seriamente dubitarsi che l’INAIL indennizzi, mediante la corresponsione della rendita perpetua (art. 79 del d.P.R. n. 1124 del 1965), un danno patrimoniale futuro o anche presunto, in quanto l’indennizzo è dovuto anche ove sussista la prova certa e inconfutabile dell’assenza di ogni pregiudizio economico [68].

            Che la lesione della capacità lavorativa generica non sia che un aspetto peculiare del danno biologico, lo si può desumere, inoltre, dalla sua autonomia rispetto al danno patrimoniale [69]; dalla considerazione secondo cui, per la giurisprudenza di legittimità, può costituire danno indennizzabile, ai sensi dell’art. 74 del d.P.R. n. 1124 del 1965, anche il danno estetico, che costituisce un danno biologico per eccellenza [70]; da quell’orientamento della giurisprudenza di legittimità, secondo cui sono riconducibili alla nozione di danno biologico tutti gli effetti del fatto lesivo che incidono negativamente sul bene della salute, con la conseguenza che la riduzione della capacità lavorativa generica non può formare oggetto di autonomo risarcimento, in quanto già valutata come danno biologico [71]; dalle conclusioni cui è pervenuta la commissione di studi insediata presso l’INAIL, in seguito alle pronunce della Consulta, secondo la quale « quella che comunemente si definisce perdita della capacità lavorativa generica non è che un aspetto del danno biologico, con la conseguenza che le prestazioni INAIL già ora, potrebbe ritenersi, coprano, sia pure in parte, il danno biologico » [72].

            A questo punto, è facile rendersi conto che l’interesse di una parte della dottrina a mantenere in vita l’obsoleta categoria del danno da lesione della capacità lavorativa generica dipende più che da fondate motivazioni di ordine giuridico, dal timore che, considerando il danno previdenziale come un ordinario danno alla salute, si corra il rischio di compromettere la tutela risarcitoria che compete al danneggiato, restringendo, oltremodo, l’area del danno risarcibile. Si teme, cioè, che, una volta liquidata una somma a titolo di risarcimento del danno biologico, parte di essa possa essere aggredita dall’azione di rivalsa dell’INAIL, con conseguente pregiudizio delle ragioni creditorie del danneggiato – assicurato [73].

            Tuttavia, a prescindere dal fatto che il problema della definizione del danno previdenziale e di quello biologico va tenuto distinto da quello della loro liquidazione, il timore che il giudice, chiamato a liquidare il danno alla salute, non tenga conto delle ripercussioni di esso sull’attività lavorativa, diverse dalla mera contrazione del reddito, non costituisce un valido motivo per costruire un’autonoma categoria di danno da aggiungere a quello alla salute [74].

            E questo vale a maggior ragione se si considerano le conseguenze inique che la tesi respinta, di fatto, produce.

            L’esclusione di ogni commistione tra danno biologico e danno previdenziale, infatti, implica che, nell’esercizio della rivalsa, l’INAIL possa aggredire solo le somme dovute dal terzo responsabile a titolo di risarcimento del danno patrimoniale. Ne consegue che, ogniqualvolta siffatto danno non si verifichi, viene meno la possibilità dell’INAIL di surrogarsi [75].

            Questo assetto di interessi, determinando l’aumento del rischio di duplicazioni risarcitorie, si pone in palese contrasto con le finalità della surrogazione e, soprattutto, con il principio indennitario.

            La validità di tutte queste argomentazioni non risulta sminuita dal nuovo indirizzo della Corte di cassazione, la quale, nel tentativo di porre fine ai vari contrasti sul punto (emersi, soprattutto, in sede di merito), ha recentemente affermato che « il risarcimento del danno biologico e l’indennizzo erogato dall’assicuratore sociale sono due forme diverse di ristorazione di una medesima menomazione psicofisica » [76], che ben possono cumularsi senza dare luogo ad alcuna duplicazione risarcitoria.

            In particolare, la Corte di cassazione ha detto che la nozione di “attitudine al lavoro”, alla quale fa riferimento l’art. 74 del d.P.R. n. 1124 del 1965 e che va intesa come capacità di lavoro in atto, non coincide con quella di “capacità lavorativa generica”, la quale, riferendosi ad una qualità della persona, costituisce, a differenza della prima, un aspetto del danno biologico.

            L’assunto della Corte di cassazione non convince,  perché se, da un lato, sembra non tenere conto delle caratteristiche che il danno indennizzato dall’INAIL ha in comune con il danno biologico, dall’altro, non dice che tipo di danno è la lesione dell’attitudine al lavoro, dando luogo a tutta una serie di aporie logiche.

            Nel nostro ordinamento, infatti, sono indennizzabili soltanto il danno biologico, il danno morale ed il danno non patrimoniale [77]. Tuttavia, stabilito dalla Corte costituzionale che il danno da lesione dell’attitudine al lavoro è diverso dal danno biologico [78] ed escluso, per ovvi motivi, che esso costituisca un danno morale, all’interprete non resta altra alternativa che considerarlo come un danno patrimoniale. Me è proprio qui che sorge il problema. Il danno da lesione dell’attitudine al lavoro, infatti, ha pochissimi tratti in comune con il danno patrimoniale, essendo indennizzato sia quando manca la prova di una riduzione, attuale o potenziale, del reddito, sia quando vi è la prova che il reddito è addirittura cresciuto. Esso, inoltre, viene indennizzato in modo proporzionale all’entità della lesione, a differenza del danno civile da riduzione della capacità di produrre reddito, per il cui risarcimento la giurisprudenza di legittimità e la medicina legale prescindono, di regola, dalla gravità della lesione [79].

[1] Cfr. GENOVESE, I limiti della surroga dell’assicuratore, in Studi in onore di Antigono Donati, Roma, 1970, vol. II, p. 349.

[2] Cfr. ROSSETTI, Le azioni, op. cit., p. 13.

[3] Cfr. FANELLI, voce Assicurazione contro i danni, op. cit., p. 21.

[4] Cfr. ROSSETTI, Le azioni, op. cit., p. 14.

[5] Vedi, fra le tante, Cass. 25 maggio 1987, n. 4689, in FI Rep., 1987, voce Assicurazione (contratto di), n. 139.

[6] Cfr. ANTINOZZI, Inammissibilità della surroga dell’INAIL nei danni non coperti dalla garanzia assicurativa, in Dir. e pret. assic., 1972, p. 750. L’Autore giunge a questa conclusione dopo aver attentamente esaminato la prassi assicurativa in tema di polizze incendio, polizze infortuni caso morte e polizze “casko” (che sono quelle attraverso le quali vengono coperti i danni subiti dall’autoveicolo per urto o ribaltamento durante la circolazione).

[7] Cfr. ANTINOZZI, Inammissibilità della surroga, op. cit., p. 751; ALIBRANDI, Aspetti problematici, op. cit., p. 200. L’assicurazione sociale è un istituto giuridico proprio del diritto del lavoro e, più precisamente, di quella parte di esso nota sotto il nome di previdenza sociale. Conformemente al disposto dell’art. 38 Cost., essa interviene a garanzia del reddito dei lavoratori tutte le volte in cui la loro capacità di lavoro e, quindi, di guadagno, subisce una menomazione a causa di determinati eventi (cfr. GHERA, Diritto del lavoro, Bari, 2000, p. 79). L’assicurazione sociale, proprio a causa della sua funzione di protezione dei lavoratori, è governata da principi diversi da quelli che regolano l’assicurazione privata, tra cui possiamo ricordare il principio solidaristico, secondo il quale i soggetti esposti al rischio non si identificano con quelli tra i quali sono ripartititi i relativi oneri ed il principio dell’automaticità delle prestazioni, in forza del quale le prestazioni sono dovute dagli enti previdenziali in tutti i casi in cui l’evento assicurato si verifichi, indipendentemente dal concreto versamento dei contributi da parte del datore di lavoro (cfr. DONATI e VOLPE PUTZOLU, Manuale, op. cit., p. 7). La prima forma di assicurazione sociale obbligatoria introdotta in Italia è stata quella contro gli infortuni sul lavoro e le malattie professionali (1898). Ad essa, oggi, si affiancano l’assicurazione per l’invalidità, la vecchiaia e i superstiti e l’assicurazione contro la disoccupazione involontaria (entrambe istituite nel 1919), l’assicurazione contro la tubercolosi (1927), quella contro le malattie comuni (1943) e quella per la maternità (1971) (cfr. LEVI SANDRI, voce Assicurazioni sociali (in genere), in Enc. dir., Milano, 1958, vol. III, p. 666).

[8] L’INAIL gestisce l’assicurazione obbligatoria contro gli infortuni sul lavoro e le malattie professionali per tutti i lavoratori del settore privato, oltre a  “gestire per conto” (in pratica, sulla base di un contratto di mandato) l’assicurazione obbligatoria per i dipendenti civili dello Stato, degli enti pubblici istituzionali e locali e delle aziende autonome dello Stato. Questa “gestione per conto” comporta la possibilità per l’INAIL di intervenire, a spese delle amministrazioni interessate, in caso di infortunio di un dipendente pubblico (cfr. CINELLI, Diritto della previdenza sociale, Torino, 1999, p. 394).

[9] L’assicurazione contro gli infortuni sul lavoro è stata istituita in forma obbligatoria per il settore dell’industria dalla legge n. 80 del 17 marzo 1898 (entrata in vigore il 1° gennaio 1898 successivamente all’emanazione del relativo regolamento di attuazione n. 411 del 25 settembre  1898). Nel 1917 essa venne estesa al settore dell’agricoltura (con il decreto luogotenenziale n. 1450 del 23 agosto). Nel 1929 alla tutela contro gli infortuni sul lavoro si affiancava, nel corpo della medesima assicurazione, quella contro le malattie professionali (resa operativa, però, solo nel 1934, anno in cui entrò finalmente in vigore il relativo regolamento di attuazione, approvato con r.d. n. 1565 del 5 ottobre 1933) (cfr. MIRALDI, voce Assicurazioni sociali (infortuni), in Enc. dir., Milano, 1958, vol. III, pp. 676-677). Il decreto n. 38 del 23 febbraio 2000, infine, ha esteso l’obbligo assicurativo ai lavoratori dell’area dirigenziale (art. 4), ai lavoratori parasubordinati soggetti ai rischi lavorativi specifici (art. 5) ed agli sportivi professionisti (art. 6). L’onere finanziario dell’assicurazione obbligatoria contro gli infortuni sul lavoro e le malattie professionali incombe sui datori di lavoro. L’intervento dell’assicurazione è, tuttavia, limitato all’essenziale. Da un lato, infatti, la tutela è accordata esclusivamente a quei lavoratori esposti ad un più intenso rischio professionale, dall’altro, l’indennità non è sempre ragguagliata al danno subito dal lavoratore. La responsabilità del datore di lavoro è, inoltre, limitata. L’art. 10 del d.P.R. n. 1124 del 1965, infatti, stabilisce l’esonero del datore di lavoro dalla responsabilità civile derivante da infortunio o da malattia professionale, a meno che con sentenza (penale o civile), non si accerti che l’evento si è verificato per fatto costituente reato, perseguibile d’ufficio, commesso dal  datore di lavoro o da un suo dipendente. Vi è poi un sostanziale esonero da responsabilità nelle ipotesi di lesioni lievi (con conseguente accollo del relativo danno in capo al lavoratore), posto che l’art. 74 del d.P.R. dichiara non indennizzabili i danni da infortunio che non producano una riduzione della capacita lavorativa superiore al 10 per cento (cfr. CINELLI, Diritto della previdenza sociale, op. cit., p. 392).

[10] Cfr. LEVI SANDRI, voce Assicurazioni sociali (in genere), op. cit., p. 667; ALIBRANDI, Aspetti problematici, op. cit., p. 201. Sull’ambito della previsione dell’art. 1886 c.c. vedi anche Cass. 14 dicembre 1992, n. 13173, in Riv. giur. circ. e trasp., 1993, p. 550 e Cass. 4 agosto 1995, n. 8600, in Giust. civ. mass., 1995.

[11] Cfr. Corte cost. 14 aprile 1988, n. 444, in Giur. cost., 1988, I, p. 2033; Cass. 28 ovembre 1986, n. 7033, in Giust. civ. mass., 1986, fasc. 11; Cass. 9 giugno 1989, n. 2805, in Resp. civ. prev., 1990, p. 671.

[12] Cfr. GIANNINI,  Surroga dell’INAIL, danno morale, danno biologico e questioni di legittimità costituzionale, in Dir. e prat. assic., 1990, p. 581. Il diritto di regresso dell’INAIL di cui all’art. 11 del d.P.R. n. 1124 del 1965 non è altro che una manifestazione del principio generale sancito dall’art. 1916 c.c.. Occorre osservare, tuttavia, che esso risulta variamente limitato e compresso rispetto all’ordinario diritto di surrogazione esperibile allorché il responsabile dell’infortunio sia un terzo. Esso è, infatti, limitato ai casi previsti dall’art. 10 del d.P.R. del 1965 e compresso per quanto riguarda i termini di decadenza e di prescrizione di cui all’art. 112 del medesimo d.P.R. (cfr. NANNI, Le nuove frontiere della surroga dell’assicuratore privato e sociale nel quadro della più recente giurisprudenza costituzionale in tema di danno alla salute, in Dir. ed econ. assic., 1992, p. 540, nota n. 20).

[13] Cfr. Cass. 23 giugno 1986, n. 4171, in Dir. e prat. assic., 1987, p. 641.

[14] Vedi, fra le tante, Cass. 7 agosto 1991, n. 8597, in Giust. civ. mass., 1991, fasc. 8. In alcune sentenze si è addirittura parlato di jus receptum (vedi, per es., Cass. 25 maggio 1987, n. 4689, cit., in FI Rep., 1987, voce Assicurazione (contratto di), n. 139).

[15] Cfr. COLASSO, Colpa concorrente del danneggiato assicurato e surrogazione dell’assicuratore, in Dir. e prat. assic., 1959, p. 241; POGLIANI, Aspetti e problemi in tema di surrogazione dell’assicuratore, op. cit., p. 731; TORRENTE, Rilievi in tema di surrogazione dell’assicuratore, in Assicurazioni, 1959, II, p. 135; PALERMO, L’assicurazione di responsabilità civile, Piacenza, 1969, p. 615; ALIBRANDI, Surrogazione dell’assicuratore e danno non patrimoniale, in Arch. civ., 1988, p. 1073.

[16] L’avvio alla giurisprudenza consolidata della Corte di cassazione fu dato dalla sentenza n. 1586 del 16 maggio 1958 (in Assicurazioni, 1959, II, p. 135, con la già citata nota adesiva di TORRENTE, Rilievi in tema di surrogazione dell’assicuratore), in tema di concorso di colpe dell’assicurato e del terzo nella produzione del sinistro.

[17] Cfr. Cass. 24 ottobre 1975, n. 3548, in Giur. It., 1976, I, p. 1536, con nota critica di PARTESOTTI, Nemo subrogat contra se !. In questa pronuncia la Corte chiarì che nella surrogazione, a differenza di quanto accade nella cessione del credito non si verifica un trasferimento di posizioni giuridiche, ma la delazione della posizione del creditore originario a favore dell’assicuratore « con prevalenza, nella valutazione degli interessi protetti, della posizione del terzo surrogato, al fine di permettergli il recupero totale, ove possibile, della somma erogata ». Il concetto di delazione, al quale si fa riferimento nella sentenza citata, fu teorizzato dal BETTI in uno studio generale (Sulla natura giuridica della girata nei titoli di credito, in Riv. dir. comm., 1927, I, p. 565 ss.) sul subingresso in un rapporto obbligatorio, per offrire un inquadramento sistematico all’istituto dell’acquisto per girata della cambiale, che si caratterizza, rispetto alla cessione, per il fatto dell’inopponibilità al giratario delle eccezioni opponibili al suo dante causa. In questo studio l’Autore ha fatto un breve accenno alla surrogazione dell’assicuratore inserendola in questo concetto di delazione (cfr. PARTESOTTI, Nemo subrogat contra se !, op. cit., pp. 1361-1362). Quest’ultimo non è stato più utilizzato dalla giurisprudenza successiva, anche se, a livello argomentativo, ne è rimasta la ricaduta in termini di conseguenze economiche: la giurisprudenza, infatti, suole affermare che la tesi dell’unitarietà del danno risarcibile si traduce in uno strumento di contenimento dei costi e, di conseguenza, di premi assicurativi (cfr. DE MARZO, Danno morale e limiti oggettivi alla surroga dell’assicuratore, in FI, 1993, I, p. 3135).

[18] Vedi, fra le tante, Cass. 24 aprile 1972, n. 1296, in Assicurazioni, 1972, II, 2, p. 202 e Cass. 11 agosto 1988, n. 4928, in FI Mass., 1988, di cui giova riportare la significativa massima: « Sia nel caso che l’ente previdenziale agisca in via surrogatoria ex art. 1916 c.c., sia nell’ipotesi in cui eserciti l’azione di regresso ai sensi degli artt. 10 e 11 del d.P.R. n. 1124 de. 1965, il credito dell’INAIL verso il responsabile civile di un infortunio sul lavoro per quanto corrisposto al lavoratore, è limitato solo quantitativamente all’ammontare del risarcimento che sarebbe dovuto secondo le norme che disciplinano la responsabilità da fatto illecito (art. 2056 c.c.), senza esclusione dei danni morali, che, pur costituendo la pecunia doloris e traendo giustificazione da elementi diversi da quelli che integrano il danno patrimoniale, costituiscono, tuttavia, una componente di natura risarcitoria (e, quindi, un diritto di credito diverso dai c.d. diritti personali indisponibili) del coacervo complessivo del risarcimento ».

[19] Cfr. DONATI, Trattato, op. cit., p. 473 e 479; GENOVESE, Il fondamento razionale, op. cit., p. 562; IdI limiti della surroga, op. cit., p. 439; GASPERONI, Tesi anomale e rischi … anormali nell’assicurazione, in Assicurazioni, 1970, I, p. 582; ANTINOZZI, Inammissibilità della surroga dell’INAIL, op. cit., p. 743 ss.; PARTESOTTI, Rapporto italiano, op. cit., pp. 444-445 ; Id., Nemo subrogat contra  se !, op. cit., p. 1356; DURANTE, La giurisprudenza e la c.d. surrogazione assicurativa, in Assicurazioni, 1976, I, p. 522; CASTELLANO e SCARLATELLA, Le assicurazioni private, op. cit., pp. 403 e 415-416; SCALFI, I contratti di assicurazione, op. cit., p. 253; COLOMBINI, Diritto di surrogazione ex art. 1916 c.c. e concorso di colpa, in Arch. circol., 1996, p. 182.

[20] Vedi, fra le tante, App. Milano 10 ottobre 1978, in Resp. civ. e prev., 1978, p. 888, secondo la quale così come è assurdo pensare che un soggetto possa appropriarsi di beni sui quali non può vantare alcun diritto, in aperta violazione del principio per cui suum cuique tribuere, e, in ultima analisi, dello stesso neminem laedere, è assurdo autorizzare l’assicuratore a mettere le mani sui risarcimenti relativi a danni che egli non ha affatto assicurato e, per i quali, di conseguenza non ha versato alcuna indennità. Questa attribuzione, invero, costituisce un assurdo giuridico e morale, perché senza titolo, e un’attribuzione senza titolo non è altro che un’appropriazione indebita. Nello stesso senso sono alcune isolate pronunce della Cassazione (cfr. Cass. 19 ottobre 1979, n. 5442, in Resp. civ. e prev., 1980, p. 642, con nota di GRISENTI BRUNA, La congruenza delle pretese di danno quale presupposto del diritto di surrogazione dell’assicuratore: nuova regola juris della Cassazione, e Cass. 18 febbraio 1982, n. 1018, in FI Mass., 1982).

[21] Cfr. GENOVESE, Il fondamento razionale, op. cit., p. 362, secondo il quale      « nella formula legislativa è […] inclusa la possibilità che l’assicuratore ottenga meno di quanto egli ha dovuto pagare ». A conferma del proprio assunto questo Autore ha invocato lo stesso art. 1882 c.c., che definisce l’assicurazione contro i danni come quel contratto con il quale l’assicuratore si obbliga, verso il pagamento di un premio, a rivalere l’assicurato, entro i limiti convenuti, del danno ad esso prodotto da un sinistroe, cioè, da un evento determinato in modo più o meno preciso nella polizza. È dunque alla causa produttiva che bisogna guardare per individuare quale tra i danni aventi la medesima natura sia quello rientrante nella copertura assicurativa (cfr. GENOVESE, I limiti, op. cit., p. 368).

[22] Cfr. GENOVESE, Il fondamento razionale, op. cit., p. 363.

[23] Cfr. GENOVESE, I limiti, op. cit., p. 356. In giurisprudenza, vedi Cass. 20 giugno 1992, n. 7577, in Dir. e prat. assic., 1992, p. 630.

[24] Cfr. DURANTE, La giurisprudenza, op. cit., p. 529; GENOVESE, I limiti, op. cit., p. 352.

[25] Cfr. GENOVESE, I limiti, p. 352 ; MARCHIO, Sui limiti del diritto di surroga dell’assicuratore, in Giur. It., 1975, I, 2, p. 136.

[26] Cfr. SHAVELL, Economic Analysis of Accident Law, Cambridge – London, 1987, p. 235.

[27] Cfr. SHAVELL, Economic Analysis, op. cit., p. 235. Questo Autore esclude, in ogni caso, dall’ambito della surrogazione i punitive damages e i damages for pain and suffering, che non rientrano nell’ipotesi di pregiudizi patrimoniali, sui quali si fonda la sua ricostruzione.

[28] Cfr. Cass., 20 giugno 1992, n. 7577, cit., in Dir. e prat. assic., 1992, p. 630.

[29] Tale rilievo è stato operato, tra gli altri dal PASANISI, Postilla minima sul problema dei diritti di surroga dell’assicuratore nel caso di concorso di colpa del terzo nel sinistro, in Assicurazioni, 1971, p. 348.

[30] Cfr. Cass. 20 giugno 1992, n. 7577, in Dir. e prat. assic., p. 631. La mancanza di ogni collegamento tra il diritto di surrogazione dell’assicuratore e l’ammontare dei premi risulta, inoltre, dal fatto che le compagnie di assicurazione rinunciano, di regola, a questo diritto, in favore dell’assicurato, senza richiedere il pagamento di un sovrapremio come corrispettivo (COLOMBINI, Diritto di surrogazione, op. cit., p. 184). Vedi anche, supra, cap. I, paragr. 2.

[31] Cfr. GENOVESE, I limiti, op. cit., p. 352, nota n. 6.

[32] Cfr. PASANISI, Concorso dell’assicuratore e dell’assicurato sulla somma dovuta dal terzo responsabile, in Dir. e prat. assic., 1959, p. 341.

[33] Cfr. VIVANTE, Trattato, op. cit., n. 1972, p. 461.

[34] Cfr. Cass. 24 aprile 1972, n. 1096, cit., in Assicurazioni, 1972, II, p. 202.

[35] In FI, 1989, I, p. 2965, con nota di DE MARZO.

[36] Come è noto, l’art. 28 della legge 990 del 1969, in caso di infortunio derivante dalla circolazione dei veicoli a motore e dei natanti, consente all’assicuratore sociale di ottenere direttamente dall’assicuratore del responsabile del sinistro il rimborso delle spese sostenute per le prestazioni erogate al danneggiato, ai sensi delle leggi e dei regolamenti che disciplinano l’assicurazione sociale. In caso di insufficienza del massimale assicurativo, però, la legge accordava all’assicuratore sociale una surroga preferenziale. Questo assetto di interessi è stato ritenuto in contrasto con il disposto dell’art. 38 Cost., sulla base dell’osservazione secondo cui l’integrità personale, nel nostro ordinamento, è un diritto fondamentale dell’individuo, oltre che interesse della comunità: il legislatore è, dunque, chiamato ad assicurarne il più ampio ristoro. La dichiarazione di illegittimità costituzionale dei commi 2°, 3° e 4° dell’art. 28 della legge n. 990 del 1969 non ha, peraltro, inciso sull’azione diretta che gli enti gestori delle assicurazioni sociali possono esperire contro l’assicuratore della RCA, ai sensi del 1° comma dello stesso art. 28, per ottenere il rimborso delle spese di spedalità erogate al proprio assicurato, con le conseguenza che, in questo caso, l’importo di tali spese e i relativi interessi, costituendo parte del debito risarcitorio dell’assicuratore deve essere detratto dal massimale di polizza a favore dell’ente gestore dell’assicurazione sociale (cfr. Cass. 20 aprile 1993, n. 4632, in Riv. giur. circ. e trasp., 1993, p. 940).

[37] In quella occasione, infatti, la questione di legittimità costituzionale dell’art. 1916 c.c. era stata ritenuta inammissibile per difetto di rilevanza, essendo stata proposta non in riferimento all’azione esperita contro il danneggiante, ma con riguardo a quella promossa dall’assicuratore sociale contro l’assicuratore del danneggiante, rispetto alla quale l’art. 1916 c.c. non trova applicazione.

[38] In Riv. Giur. Circ. e trasp., 1991, p. 102, con nota di ASSANTE, Diritto di surroga ex art. 1916 c.c. e danno biologico alla luce della sentenza n. 356 del 1991 della Corte costituzionale e in FI, 1991, pp. 2968, 2340 e 3292, con note di DE MARZO, Pregiudizio della capacità lavorativa generica: danno da lucro cessante o danno alla salute ?, ESPOSITO, Danno alla salute per infortunio sul lavoro, e POLETTI, Il danno “biologico” del lavoratore tra tutela previdenziale e responsabilità civile.

[39] In FI, 1993, I, p. 72, con note di BIANCO, Corte costituzionale e danno biologico: incontri vieppiù riavvicinati e di FERRARI, Danno biologico e danno previdenziale: una questione di copertura assicurativa del rischio. In questa sentenza, la Corte costituzionale, traendo i necessari corollari da quanto affermato con la sentenza n. 356 del 1991, ha stabilito che il diritto al risarcimento del danno alla salute “puro”, privo, cioè, di ripercussioni sull’attività lavorativa, è un diritto che, trovando, a livello costituzionale, una tutela rafforzata, è insuscettibile di essere limitato in alcun modo; in caso di lesioni subite dal lavoratore, l’indennizzo pagato dall’INAIL  non si estende all’intero danno alla persona, ma è limitato ai riflessi che il danno esercita sulla capacità lavorativa. L’INAIL, inoltre, non può surrogarsi sulle somme dovute al danneggiato per il risarcimento di danni diversi da quelli che formavano oggetto della copertura assicurativa (cfr. ROSSETTI, Assicurazione obbligatoria infortuni sul lavoro e responsabilità civile, in Riv. giur. circ. e trasp., 1995, p. 893).

[40] Cfr. CIAFRÈ, Risarcimento del danno biologico e “azioni di rivalsa dell’INAIL: due sentenze della Corte costituzionale, in Giust. civ., 1992, II, p. 1680.

[41] L’art. 2059 c.c. stabilisce che il danno non patrimoniale (comunemente definito anche come danno morale) deve essere risarcito solo nei casi determinati dalla legge. Tali casi si riconducono a quelli in cui il fatto generatore del danno ha natura di reato (art. 185, 2° comma, c.p.). In altre parole, solo la sussistenza di un interesse pubblico penalmente tutelato rende possibile la protezione giuridica di un interesse privato relativo ad un bene non patrimoniale (cfr. DE CUPIS, voce Danno (diritto vigente), in Enc. dir., Milano, 1962, vol. XI, p. 619). Attraverso la previsione del danno morale si risarcisce, dunque, il patema, il dolore, l’ingiusto turbamento subito dalla vittima del reato (cfr. TRABUCCHI, Istituzioni di diritto civile, op. cit., p. 231).

[42] Cfr. POLETTI, Il danno “biologico” del lavoratore, op. cit., p. 3294.

[43] Con la sentenza n. 184 del 14 luglio1986, in FI, 1986, I, col. 2053, con nota di PONZANELLI, La Corte costituzionale, il danno non patrimoniale e il danno alla salute, la Corte costituzionale ha dichiarato non fondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 2059 c.c., per contrasto con l’art. 32 Cost., nella parte in cui prevede la risarcibilità del danno non patrimoniale derivante dalla lesione di un diritto costituzionalmente tutelato (il diritto alla salute) soltanto in conseguenza di un reato. Con questa sentenza, la Consulta ha dato il definitivo avallo alla nozione di danno “biologico” elaborata dalla dottrina a cavallo fra gli anni sessanta e settanta, riconoscendone la natura non patrimoniale e definendolo come “menomazione dell’integrità psicofisica della persona”. L’espressione “danno non patrimoniale”, che compare nell’art. 2059 c.c., è stata definita, per contro, come un sinonimo di danno morale subiettivo, inteso come il “momentaneo, tendenzialmente transeunte, turbamento psicologico”, secondo un’impostazione coerente con l’originaria intenzione del legislatore, risultante dai Lavori preparatori della norma e con le esigenze di ricostruzione di un sistema di tutela civile della salute compatibile con la Costituzione. La Corte costituzionale ha stabilito che la tutela del danno biologico non  è assicurata dall’art. 2059 c.c., ma dal combinato disposto degli artt. 2043 c.c. e 32 Cost.. Secondo la Consulta, infatti, l’art. 2043 c.c. è una norma di carattere generale (c.d. “in bianco”), che garantisce, in ogni caso, la risarcibilità dei danni qualificati “ingiusti” dall’ordinamento, tra i quali rientra, senza ombra di dubbio, il danno da lesione del bene salute, costituzionalmente garantito dall’art. 32 Cost. (cfr. PARADISO, Il danno alla persona e il “danno biologico”. La giurisprudenza della Corte costituzionale, in Casi e questioni di diritto privato a cura di BESSONE, Milano, 1998, p. 426).

[44] Cfr. POLETTI, Il danno “biologico” del lavoratore, op. cit., p. 3294.

[45] Cfr. POLETTI, Il danno “biologico” del lavoratore, op. cit., p. 3294.

[46] In altre parole, poiché il quantum del danno morale, rappresenta proprio una somma dovuta al danneggiato a titolo di risarcimento di un danno diverso da quello che aveva formato oggetto della copertura assicurativa, il suo recupero da parte dell’assicuratore fa dubitare della costituzionalità della norma (cfr. POLETTI, Il danno “biologico” del lavoratore, op. cit., p. 3294).

[47] Cfr. BUSNELLI, Il commento del giurista (a Corte cost. 184/86), in La valutazione del danno alla salute, a cura di BARGAGNA e BUSNELLI, Padova, 1988, p. 307; POLETTI, Il danno “biologico” del lavoratore, op. cit., p. 3294; GIACCHERO, Surrogazione dell’assicuratore nel diritto al risarcimento del danno biologico e del danno morale, in Giur. It., 1995, I, p. 314; SCALFI, Azione surrogatoria o di regresso e principio di destinazione del risarcimento al ristoro del danneggiato, in Resp. civ. prev., 1994, p. 234. Quest’ultimo Autore giunge addirittura a negare che la tutela della salute possa desumersi dall’art. 32 Cost., con il quale il legislatore costituente volle, in realtà, riferirsi, ad un compito dello Stato verso i cittadini piuttosto che ad un diritto soggettivo nei rapporti intersoggettivi. È l’art. 2 Cost., invece, che, riconoscendo e garantendo « i diritti inviolabili dell’uomo sia come singolo, sia nelle formazioni sociali nelle quali si svolge la sua    personalità » cura lo sviluppo e l’attuazione della personalità per le quali sono necessari sia l’integrità fisica (e, cioè, la salute), che l’equilibrio morale, quello, cioè, attinente  alla vita interiore.

[48] Vedi, in particolare, Cass. 20 giugno 1992, n. 7577, cit., in Dir. e prat. assic., 1992, p. 581, con nota di GIANNINI, Art. 1916 c.c. e surroga INAIL: ultimo atto ?, e in FI, 1993, I, p. 3134, con la già citata nota di DE MARZO, Danno morale e limiti oggettivi alla surroga dell’assicuratore e con quella di POLETTI, Surroga assicurativa e danno morale: un ripensamento del Supremo collegio. Nello stesso senso vedi Cass. 10 novembre 1998, n. 11315, in Assicurazioni, 1999, II, 2, p. 121.

[49] Cfr. POLETTI, Surroga assicurativa e danno morale, op. cit., p. 3142.

[50] Cfr. POLETTI, Surroga assicurativa e danno morale, op. cit., p. 3143.

[51] In Giur. cost., 1994, I, p. 224.

[52] Cfr. NANNI, Le nuove frontiere, op. cit., p. 534.

[53] Sempre sul piano concettuale, inoltre, l’altro problema che si pone riguarda la quantificazione, secondo i criteri civilistici, del risarcimento dovuto dal responsabile dell’illecito aquiliano, a fronte delle categorie di danno indennizzate dall’assicuratore sociale, secondo le prescrizioni delle leggi e dei regolamenti che lo riguardano (cfr. NANNI, Le nuove frontiere, op. cit., p. 536). A questo proposito occorre ricordare che al verificarsi di una lesione personale dovuta a causa di lavoro, l’INAIL può erogare due tipi di prestazioni ai lavoratori infortunati: a) in caso di inabilità temporanea assoluta e, cioè, tale da impedire completamente e di fatto al lavoratore di attendere al proprio lavoro, l’INAIL corrisponde un’indennità giornaliera, per tutta la durata della inabilità temporanea (art. 68 d.P.R. n. 1124 del 1965); b) in caso di inabilità permanente assoluta o relativa e, cioè, tale da togliere completamente, ovvero da ridurre in parte, ma essenzialmente e comunque per tutta la vita, l’attitudine al lavoro, l’INAIL corrisponde una rendita perpetua (art. 74 d.P.R. n. 1124 del 1965). Mentre non ci sono dubbi in dottrina circa lo scopo dell’indennità temporanea individuato nella ricomposizione dell’equilibrio economico infranto dall’infortunio (cfr. FERRARI, Infortuni sul lavoro e malattie professionali, Padova, 1995, p. 253; ROSSETTI, Assicurazione obbligatoria, op. cit., p. 904) controversie sono sorte a proposito della definizione della natura giuridica della rendita perpetua per il caso di inabilità permanente e di quella del danno che essa indennizza.

[54] Cfr. NANNI, Le nuove frontiere, op. cit., p. 536.

[55] Cfr. POLETTI, Cronaca di un incontro annunciato: il danno alla salute e l’assicurazione contro gli infortuni, in FI, 1991, I, p. 1668; PAGLIANTINI, I criteri di liquidazione del danno biologico: analisi della più recente giurisprudenza di legittimità, in Giur. It., 1998, p. 203.

[56] Cfr. Cass. 11 giugno 1994, n. 5683, in Resp. civ. e prev., 1994, p. 1060.

[57] Il danno da lesione della c.d. capacità lavorativa generica, definita comunemente come la generica capacità di svolgere un lavoro, è una categoria concettuale creata appositamente dalla giurisprudenza in un’epoca in cui la possibilità di risarcire una lesione personale in sé e per sé, a prescindere dai suoi riflessi sul patrimonio del soggetto leso non era neanche concepibile. Fino alla metà degli anni settanta, infatti, la nostra giurisprudenza, sia di legittimità che di merito, ha costantemente affermato che dal danno da lesione della salute potevano discendere due sole conseguenze: il dolore, risarcibile come danno morale e la contrazione del reddito, risarcibile come danno patrimoniale. Non era dunque la lesione della salute ad essere considerata come un danno, ma la lesione della capacità di produrre reddito: questo assunto, tuttavia, finiva, inevitabilmente, con il limitare la tutela risarcitoria per tutta una serie di soggetti, come quelli non percettori di reddito (pensionati, casalinghe, studenti, disoccupati, ecc.), o quelli colpiti da una lesione insuscettibile di recare nocumento alla capacità di svolgere un qualunque lavoro (pensiamo alla procurata impotenza, alla perdita di denti, ecc.), o quelli esercenti un’attività che non risentiva delle lesioni subite (pensiamo ad un notaio al quale abbiano amputato un piede). Proprio al fine di evitare queste iniquità, la giurisprudenza, anziché ritenere autonomamente risarcibile il danno alla salute a prescindere da qualunque ripercussione sul reddito, preferì, tenendo fermo il principio opposto, ricorrere all’adozione di alcune fictiones juris, in base alla quali era possibile presumere l’esistenza di un danno reddituale dalla prova dell’esistenza di lesioni di una certa entità. Tali fictiones consistettero nell’adozione del concetto di capacità lavorativa generica, nella valutazione autonoma del danno estetico e nell’introduzione del concetto di danno alla vita di relazione. Questa concezione del danno alla salute fu sottoposto a critica per la prima volta dal Tribunale di Genova, il quale, nella ormai storica sentenza 25-05-74, in Riv. giur. circ. e trasp., 1975, p. 78, se da un lato osservò che la nozione di incapacità lavorativa generica era una mera astrazione, non potendo realmente sussistere una generica capacità a svolgere un qualunque tipo di lavoro, dall’altro affermò la natura fittizia del danno alla vita di relazione, in quanto « il requisito della patrimonialità del danno alla vita di relazione appare piuttosto postulato che dimostrato e, d’altra parte, non pare contestabile che la giurisprudenza abbia in realtà utilizzato il concetto soltanto come copertura di interventi equitativi e correttivi della liquidazione già operata sulla base del reddito » (cfr. ROSSETTI, Il danno alla salute, in Riv. Giur. circ. e trasp., 1999, pp. 239-240).

[58] Cfr. POLETTI, Cronaca, op. cit., p. 1668.

[59] Secondo una parte della dottrina, infatti, mentre il risarcimento del danno biologico è diretto a ristorare, per equivalente, la lesione dell’integrità psicofisica del soggetto, le prestazioni previdenziali riequilibrano il livello economico del danneggiato compromesso dalla lesione, attraverso la corresponsione di un ristoro di tipo indennitario forfettariamente liquidato (cfr. DE MARZO, Pregiudizio alla capacità lavorativa generica, op. cit., p. 2972; POLETTI, Cronaca, op. cit., p. 1668; NAVARRETTA, Capacità lavorativa generica, danno alla salute e nuovi rapporti tra responsabilità civile ed assicurazione sociale, in Resp. civ. e prev., 1992, p. 63).

[60] Cfr. GIANNINI, Art. 1916 c.c. e surroga INAIL: ultimo atto ?, in Dir. ed econ. assic., 1992, p. 635; ROSSETTI, Assicurazione obbligatoria infortuni, op. cit., p. 906; SUPPA, La liquidazione del danno biologico: un problema ancora in attesa di soluzione, in Giur. It., 1998, p. 204.

[61] Secondo la dottrina e la giurisprudenza, il danno biologico è un danno che prescinde completamente dal reddito del danneggiato e che attinge alla sua complessiva integrità psicofisica, limitando la sua capacità di svolgere, in futuro, una qualsiasi attività esistenziale, lavorativa o extralavorativa (cfr. ROSSETTI, Assicurazione obbligatoria infortuni, op. cit., p. 906). In giurisprudenza vedi anche la già citata sentenza n. 184 del 1986 della Corte costituzionale.

[62] Cfr. LEGA, La capacità lavorativa e la sua tutela giuridica, Milano, 1950; CAZZANIGA e CATTABENI, Medicina legale e delle assicurazioni, Torino, 1963, p. 373; GERIN, La valutazione medico – legale del danno alla persona in responsabilità civile, Milano, 1973.

[63] Cfr. BARNI, Il danno alla persona nel suo divenire concettuale e valutativo, in Resp. civ. e prev., 1968, p. 19; ALIBRANDI, Infortuni sul lavoro e malattie professionali, Milano, 1994, p. 404; FERRARI, Infortuni sul lavoro e malattie professionali, Padova, 1995, p. 253 ; ROSSETTI, Assicurazione obbligatoria infortuni, op. cit., p. 905.

[64] La giurisprudenza di legittimità ha, di volta in volta, definito l’“attitudine al lavoro” di cui all’art. 74 del d.P.R. n. 1124 del 1965 come la possibilità di esercitare un lavoro di qualsiasi genere, suscettibile di utilità economica, indipendentemente dalla incidenza che la menomazione esplica sulla capacità di lavoro dell’assicurato (cfr. Cass. 14 aprile 1982, n. 2239, in Riv. giur. lav., 1982, III, p. 442; Cass. 14 febbraio 1983, n. 1158, in Giur. lav. Mass., 1983, p. 270; Cass. 9 aprile 1987, n. 3520, in Riv. inf. e mal. prof., 1988, II, p. 63), come la capacità di svolgere un qualunque lavoro manuale medio (cfr. Cass. 14 luglio 1984, n. 4129, in Riv. inf. e mal. prof., 1985, II, p. 15; Cass. 24 luglio 1990, n. 7495, in Riv. inf. e mal. prof., 1990, II, p. 148), come la capacità biologica di erogare energie fisiopsichiche per il compimento di una qualsiasi attività lavorativa (cfr. Cass. 21 agosto 1986, n. 5138, in FI mass., 1986), come la capacità lavorativa generica “tout court”, ovvero come la capacità biologica di guadagno (cfr. Cass. 30 ottobre 1982, n. 5737, in FI mass., 1982).

[65] Si tratta della già citata sentenza n. 184 del 17 luglio 1986 della Corte costituzionale, nella quale quest’ultima ha affermato che il danno biologico è     « un tipo di fatto (menomazione dell’integrità psicofisica del soggetto) ed un tipo di lesione della salute, sempre presente, nel doloso o colposo illecito realizzativi della predetta menomazione. Tale tipo di fatto e di lesione non vanno, in alcun modo, confusi con l’eventuale presenza, in concreto, di danni patrimoniali od economici, conseguenti al fatto ed alla lesione, ora specificati », e della sentenza n. 356 del 18 luglio 1991, nella quale la Corte ha affermato che « la considerazione della salute come bene e come valore personale […] nella sua globalità e non solo quale produttore di reddito, impone, invece, di prendere in considerazione il danno biologico, ai fini del risarcimento, in relazione alla integralità dei suoi riflessi pregiudizievoli rispetto a tutte le attività, le situazioni e i rapporti in cui la persona esplica se stessa nella propria vita: non soltanto, quindi, con riferimento alla sfera produttiva, ma anche con riferimento alla sfera spirituale, culturale, affettiva, sociale, sportiva e ad ogni altro ambito e modo in cui il soggetto svolge al sua personalità, e cioè a tutte “le attività realizzatrici della persona umana” ».

[66] Cfr. ROSSETTI, Assicurazione obbligatoria infortuni, op. cit., p. 908; CASTRONOVO, Danno biologico: un itinerario di diritto giurisprudenziale, Milano, 1997, p. 51, il quale sostiene l’unicità del danno alla persona quale « espressione sintetica della vulnerazione da questa subita, sintetica come lo è la persona rispetto alle qualità che la costituiscono, le quali non possono essere assunte avulsamente dall’insieme nel quale si compongono ».

[67] Si pensi, ad esempio, all’art. 4 della legge n. 39 del 26 febbraio 1977 (da ultimo modificata dalla legge n. 57 del 2001), il quale, in mancanza di prova sull’entità del reddito, impone di liquidare il danno da riduzione del reddito che si sia verificato a causa di un sinistro stradale, in base al triplo della pensione sociale.

[68] Cfr. ROSSETTI, Assicurazione obbligatoria infortuni, op. cit., p. 909. È stata la stessa Corte costituzionale, del resto, ad affermare,nella sentenza n. 356 del 1991, che la copertura assicurativa dell’INAIL « non ha per oggetto esclusivamente il danno patrimoniale in senso stretto — ove per tale si intenda la perdita o la riduzione del reddito — posto che la prestazione dell’INAIL spetta a prescindere dalla sussistenza o meno di una effettiva perdita o riduzione dei guadagni dell’assicurato ». In questa sentenza, però, la Corte ha anche affermato che la copertura INAIL non ha ad oggetto il danno biologico nella sua integralità.

[69] L’art. 74 del d.P.R. n. 1124 del 1965, infatti, prevede la corresponsione della rendita in base alle tabelle allegate al testo unico in misura uguale per tutti i lavoratori (cfr. ROSSETTI, Assicurazione obbligatoria infortuni, op. cit., p. 908). La tesi secondo cui il danno biologico costituisce un danno autonomo rispetto a quello patrimoniale non è condivisa da una parte della dottrina. Alcuni autori, infatti, partendo dal presupposto secondo il quale la natura patrimoniale o non patrimoniale dell’interesse leso non si comunica necessariamente al pregiudizio subito e, dunque, al danno, riconoscono natura patrimoniale a tutti quei danni suscettibili di una valutazione economica secondo parametri certi, in ragione di criteri generalmente accettati (cfr. FRANZONI, Danno biologico e danno alla salute negli studi recenti, in Cont. Imp., 1988, p. 878 ss.; BUSNELLI, Tre “punti esclamativi”, tre “punti interrogativi” e un “punto e a capo”, in Giust. civ., 1994, I, p. 3045). Questi stessi autori, tuttavia, ritengono che il danno patrimoniale assuma una connotazione diversa a seconda della natura del bene leso: se esso ha un valore economico oggettivo, il pregiudizio si articola nelle tradizionali voci del danno emergente e del lucro cessante; se non lo ha (come nel caso dell’integrità psicofisica) si dovranno valutare le disutilità prodottesi in capo al soggetto anche stavolta mediante il ricorso ai suddetti parametri tipici (cfr. SALVI, voce Danno, in Digestodisc. priv., sez. civ., Torino, 1989, vol. V, p. 66 ss.). La giurisprudenza prevalente, per contro, configura il danno biologico come un tertium genus rispetto al danno patrimoniale e a quello morale (cfr. Cass. 24 agosto 1984, n. 4661, in Resp. civ. prev., 1985, p. 211; Cass. 10 aprile 1988, n. 883, in Nuova giur. cass. civ., 1988, I, p. 747). Questo indirizzo è talvolta disatteso dalla giurisprudenza di merito: interessante è una pronuncia del Tribunale di Torre Annunziata (sent. n. 719 del 16 marzo 1998, in Riv. giur. circ. e trasp., 1999, p. 378 annotata da ROSSETTI, Dalla chiarezza concettuale alle prassi applicative: anomalie giurisprudenziali nella liquidazione del danno alla persona), secondo la quale il danno biologico non si contrappone sempre al danno patrimoniale in senso stretto, potendo essere a quest’ultimo complementare. Secondo questa sentenza, insomma, il danno biologico sarebbe ciò che resta una volta liquidato il danno patrimoniale.

[70] Cfr. Cass. 23 giugno 1992, n. 7693, in Riv. it. dir. lav., 1993, II, p. 267, con nota di  MARIANI, Danno estetico e danno biologico da infortunio sul lavoro. Il danno estetico, consistente nella alterazione morfologica del viso che viene ad incidere sul modo di essere della persona e sulle sua relazioni con il mondo esterno, viene comunemente configurato come una particolare forma di danno biologico (CHINDEMI, Quando la riduzione della capacità lavorativa generica è ricompressa nel danno biologico, in Dir. econ. assic., 1992, p. 646).

[71] Vedi, per tutte, Cass. 19 marzo 1993, n. 3260, in Riv. giur. circ. e trasp., 1993, p. 817; Cass. 16 febbraio 1996, n. 1198, in Giur. It., 1997, I, p. 354; Cass. 15 novembre 1996, n. 10015, in Arch. civ., 1997, p. 750; Cass. 9 febbraio 1998, n. 1325 (inedita) ove si afferma che il danno biologico, quale menomazione dell’integrità psicofisica dell’uomo in tutta la sua concreta dimensione, che non si esaurisce nella sola attitudine a produrre ricchezza, ma si collega alla somma delle funzioni vitali del soggetto nell’ambiente in cui vive, aventi rilevanza non solo economica, ma anche biologica, sociale, culturale ed estetica, « può essere valutato anche tenendo conto dell’invalidità temporanea o permanente. Questa concorrenza di valutazioni è imposta dall’esigenza di assicurare il risultato che il risarcimento del danno alla persona sia sempre completo, fatto salvo il principio che questa concorrenza non si traduca in un ingiustificato arricchimento del soggetto leso ». In tutte queste sentenze la Corte di cassazione ha, tuttavia, affermato la possibilità di un’autonoma valutazione del danno da lesione della capacità lavorativa generica indipendentemente dal danno biologico quando il danneggiato dimostri che svolgesse o fosse in procinto di svolgere un’attività produttiva di reddito, sia pure figurativo (come nel caso delle casalinghe). A differenza del danno biologico, che è un pregiudizio sempre presente, in quanto interno al fatto illecito produttivo della lesione psicofisica, il danno patrimoniale (sub specie di lucro cessante) relativo alla perdita o riduzione della capacità lavorativa generica costituisce un danno risarcibile solo eventualmente nel caso in cui si riesca a dimostrare « la privazione di un valore economico effettivamente posseduto e non di un’attitudine redditizia latente » (cfr. Cass. 16 aprile 1996, n. 3653, in Riv. giur. circ. e trasp., 1996, p. 310). Nello stesso senso, in dottrina, vedi CHINDEMI, Quando la riduzione, op. cit., p. 646; NANNIPIERI, Il danno da riduzione della capacità produttiva, in Danno e responsabilità, 1997, p. 559; SUPPA, La liquidazione del danno biologico, op. cit., p. 2041.

[72] Cfr. ROSSETTI, Assicurazione obbligatoria infortuni, op. cit., p. 909.

[73] Cfr. ROSSETTI, Assicurazione obbligatoria infortuni, op. cit., p. 910.

[74] Cfr. ROSSETTI, Assicurazione obbligatoria infortuni, op. cit., p. 911.

[75] Cfr. ROSSETTI, Ancora in tema di surrogazione dell’INAIL, in Riv. Giur. Circ. e trasp., 2000, p. 511.

[76] Cfr. Cass. 22 gennaio 1998, n. 605, in FI mass., 1998; Cass. 29 settembre 1998, n. 9730, in Assicurazioni, 2000, I, p. 3; Cass. 27 agosto 1999, n. 8998, in FI mass., 1999; Cass. 14 febbraio 2000, n. 1636, in FI mass., 2000.

[77] Infatti, mentre il sistema delineato dal Titolo IX del Libro IV del Codice civile accoglie una nozione di danno come perdita economica, l’esperibilità dell’azione di risarcimento nei confronti di fatti economicamente irrilevanti è rimessa all’art. 2059 c.c.. La terminologia adottata dal codice in quest’ultimo articolo, inoltre, che parla di danno non patrimoniale, anziché di danno morale, conferma che il senso dell’alternativa tra le due figure si basa sul connotato della patrimonialità (cfr. SALVI, voce Responsabilità extracontrattuale (diritto vigente), in Enc. dir., Milano, 1988, vol. XXXIX, pp. 1204-1205).

[78] Cfr. Corte cost., 18-07-91, n. 356. In questa sentenza la Corte, affermando che la copertura assicurativa prevista dal sistema di assicurazione obbligatoria contro gli infortuni sul lavoro e le malattie professionali non ha per oggetto esclusivamente il danno patrimoniale in senso stretto, ha rilevato che « è anche altrettanto certo che la suddetta copertura assicurativa non ha per oggetto il danno biologico di per se stesso e nella sua integralità posto che le indennità previste dal d.P.R. n. 1124 del 1965 sono collegate e commisurate esclusivamente ai riflessi che la menomazione psicofisica ha sull’attitudine al lavoro dell’assicurato, mentre nessun rilievo assumono gli svantaggi, le privazioni e gli ostacoli che la menomazione comporta con riferimento agli altri ambiti e agli altri modi in cui il soggetto svolge la sua personalità nella propria vita ».

[79] Cfr. ROSSETTI, Ancora in tema di surrogazione dell’INAIL, op. cit., p. 509.

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