Libertà di pensiero e personalità morale dell’individuo tra diritto ed illecito

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L’esistenza del diritto alla libertà di pensiero e degli illeciti penali di ingiuria e diffamazione sono indici dell’interesse dello Stato alla tutela dell’incolumità morale delle persone, all’ossequio del dovere di carattere generale del neminem laedere (art. 2043 c.c.) e, segnatamente, alla difesa dell’inviolabilità dei beni giuridici della personalità morale individuale consistenti nell’onore, nel decoro e nella reputazione.

Tale interesse è protetto mediante un limite, posto dalla legge penale, alla libertà di espressione della persona (art. 21 Cost.), situazione giuridica soggettiva già prevista dalla Dichiarazione d’Indipendenza statunitense (4 luglio 1776), dal Bill of Rights (1689), dalla Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino (1789) ed, infine, dall’art. 18 della Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo (10-12-1948). 

La libertà di espressione, sancita anche dall’art. 10 della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, ratificata dall’Italia con l. 4-08-1955 n. 848, e dante luogo, altresì, al diritto all’informazione (artt. 10 e 11 Carta diritti fondamentali U.E., 7-12-2000), è ritenuta la base per il progresso della società democratica e per lo sviluppo di ciascun individuo (C.E.D.U. 8-07-1986 e 1-07-1997).

Sul piano giuridico-sostanziale, l’art. 21 Cost. ha natura di norma precettiva e non può essere interpretato nel senso che abbia affermato meri principi programmatici che, per poter essere attuati, necessitano di una ulteriore norma o elaborazione legislativa.

Il pensiero, anche critico, può essere esternato anche in maniera estemporanea, non essendo necessario che si esprima nelle sedi, ritenute più appropriate, istituzionali o altro: diversamente, verrebbe indebitamente limitato il diritto di manifestazione del pensiero che spetta al comune cittadino (Cass. Sez. quinta n. 19509/2006).

I limiti alla libertà di manifestazione del pensiero sono: il buon costume (pudore sessuale) il quale non è diretto ad esprimere semplicemente un valore di libertà individuale quanto, piuttosto, un valore riferibile alla collettività in generale (Corte Cost. 27-07-1992 n. 368) (1); il diritto alla riservatezza, i segreti (di stato, d’ufficio, istruttorio, professionale e industriale), l’onore (dignità, reputazione).

Le modalità oggettive della condotta rappresentano il dato costitutivo essenziale per il suo inserimento nella fattispecie oggettiva del reato (2): il fatto tipico può essere realizzato da qualsiasi persona (reato comune), la condotta è di tipo positivo ovvero consiste in un fare (reato di pura azione), l’oggetto materiale (l’entità su cui incide la condotta) o soggetto passivo è la persona.

L’evento è di tipo immateriale in quanto coincidente con la lesione, ovvero l’offesa, del bene onore-decoro (ingiuria, 594 c.p.) o reputazione (diffamazione, 595 c.p.), sempre legato da nesso di causalità o consequenzialità (art. 40 c.p.): alla condotta dell’agente, cioè, deve riconoscersi efficacia causale rispetto al pregiudizio dell’altrui persona.  

In entrambi i casi, l’offesa è punita, su querela di parte (art. 597 co. 1), a titolo di delitto doloso generico: sul piano soggettivo psicologico, cioè, è richiesta la coscienza e la volontà di pronunciare, all’indirizzo altrui, espressioni di cui si conosca l’oggettiva portata offensiva.

L’offesa, aggravata se commessa contro un pubblico ufficiale o incaricato di pubblico servizio (art. 61 n. 10) si consuma nel momento e nel luogo in cui viene percepito il fatto illecito ed anche a danno delle persone giuridiche (Cass 14-01-2002 n. 1188).

I reati non sono configurabili qualora non sia possibile individuare l’effettivo destinatario dell’offesa, ad es. omettendo il cognome (Cass. n. 37466/2001): tuttavia, non è necessario che il nome sia espressamente indicato nell’offesa, potendo individuare il soggetto anche per esclusione o per via induttiva (Cass. n. 1477/1992). 

L’offesa recata è trasmissibile ai prossimi congiunti: essi, cioè, in caso di morte dell’offeso, sono legittimati a proporre querela o proseguire nell’azione già avviata (art. 597 co. 3). 

La qualificazione di “fatto ingiusto” deriva anche dalle modalità (connotazioni) con cui la condotta viene realizzata (3): ad es. quando ha la potenzialità di suscitare un giustificato turbamento nell’animo dell’offeso; l’espressione che può avere un significato di disprezzo dell’uomo e della sua dignità (es. quando si vuole evidenziare mancanza di adeguata preparazione in relazione ad attività professionali) ovvero possedere oggettiva idoneità a ledere la personalità morale del destinatario, tipica offensività, che non può rientrare nelle funzioni politiche o ancora quando le parole offensive non hanno alcuna giustificazione (Cass. n. 21254/2001).

Sono state, così, qualificate offensive le espressioni (4): gay (Cass. n. 10248/2010), maiale (Cass. n. 16262/2010), pennivendolo (Cass. n. 16702/2009), “che c….. vuoi, chi siete” (Cass. n. 7656/2008), dilettante, ignorante (Cass. n. 8639/2008), comportamento hitleriano (Cass. 21-01-2008 n. 3131), selvaggio (Cass. n. 5302/2008), maleducato (Cass. 21-03-2006 n. 9799), raccomandato (Cass. 14-10-2005 n. 37455), apostrofare, con evidente atteggiamento di scherno e dileggio, una persona con aggettivo che riflette la provenienza etnica (Cass. 20-05-2005 n. 19378), messaggi su reti sociali internet (Trib. Monza sez. quarta 2-03-2010 n. 770), attribuire falsamente ad un soggetto una relazione sentimentale nel caso in cui il predetto ne intrattenga effettivamente una con altra persona e la circostanza sia nota nel suo ambiente sociale (Cass. 27-08-2001 n. 31912), la pubblicazione giornalistica delle affermazioni fatte da un avvocato nell’arringa durante un processo (Cass. 5-02-2002 n. 4462), criticare il provvedimento giudiziario trasmodando in critiche virulente che comportino il dileggio del magistrato stesso (Cass. 11-11-2008 n. 2066), la rappresentazione negativa di persone che non abbiano significative responsabilità individuali (Cass. 25-09-2008 n. 41283), accusare un magistrato di svolgere indagini politiche (Cass. 1-07-2005 n. 29509)

Non vale, ad es. la tesi giustificatrice dell’offesa basata sull’intento di evidenziare l’inadeguatezza della prestazione o sull’esistenza di rapporti tesi se, in tale ultimo caso, la condotta e’ in contraddizione con il tempo trascorso rispetto ai fatti indicati come provocatori. La condotta non è punibile se è stato realizzata in stato d’ira determinato da fatto ingiusto altrui (e provocatorio, art. 62 n. 2), e subito dopo di esso (art. 599 co. 2): l’immediatezza delle reazione non è qualificabile come illecito ed, in tal caso, non si ravvisa la meditazione della condotta offensiva (Cass. 24-03-2009 n. 15752). L’esimente della provocazione è applicabile anche nel caso in cui la reazione sia diretta contro persona diversa dal provocatore se quest’ultima sia legata all’offensore da rapporti tali da giustificare lo stato d’ira (Cass. 4-02-2002 n. 13162).

Ugualmente infondata la tesi giustificatrice incentrata sul mancato o impossibile accertamento del numero dei soggetti in grado di avere conoscenza dei fatti offensivi diffusi ovvero sul modo (punibile anche a mezzo messaggi su cellulare, Cass. 17-05-2005 n. 18449) o sulla durata della diffusione dei fatti offensivi (Cass. n. 6485/1999) o, ancora, sull’avere adoperato il condizionale (Cass. n. 31912/2001).  

Il giudizio deve tenere, altresì, conto della reciprocità delle offese (art. 599 co. 1).

La verità del fatto attribuito (exceptio veritatis), valida come prova liberatoria, non esclude di per sé il carattere offensivo della condotta, cioè se i modi usati arrechino le offese di cui ai co. 1 degli artt. 594 e 595: la verità dell’addebito, quindi, esclude l’illecito solo in casi espressamente e tassativamente stabiliti dalla legge.  

Non costituisce reato (ma esimente di responsabilità anche in sede civile), invece, quella condotta – espressione dell’esercizio dei diritti di critica e di cronaca (e di satira), se ricorrono le condizioni dell’utilità sociale dell’informazione, la verità, oggettiva e completa nonché sostanziale (Trib. Foggia 7-02-2001 n. 443), dei fatti, la forma civile dell’esposizione ovvero non eccedente rispetto allo scopo informativo, asettica, senza preconcetti intenti denigratori, sottintesi o accostamenti suggestionanti, senza espressioni volgari o umilianti, funzionale allo scopo informativo.

Il limite della continenza è, quindi, superato dall’attribuzione di una condotta intenzionale, che può integrare gli estremi di reato (Cass. 22-12-2004 n. 49019) o quando le informazioni, pur vere, si traducano, per il lessico impiegato, per l’uso strumentale delle medesime, per la sostanza e la forma dei giudizi che le accompagnano, in un attacco personale e gratuito al soggetto cui si riferiscono (Cass. 20-02-2001 n. 6925): ciò che determina l’abuso del diritto è la gratuità delle modalità del suo esercizio non inerenti al tema apparentemente in discussione ma tese a ledere esclusivamente la reputazione del soggetto interessato (Cass. 3-11-2004 n. 42643).

In difetto dei requisiti della veridicità, continenza ed interesse pubblico dei fatti riferiti, si concretizza una palese violazione dell’onorabilità di una persona.

Indipendentemente dalla forma grammaticale o sintattica delle frasi o delle locuzioni adoperate, assume rilevanza la capacità di ledere o mettere in pericolo l’altrui reputazione: il reato si realizza anche quando il contesto della pubblicazione determini il mutamento del significato apparente di una o più frasi, altrimenti non diffamatorie, attribuendo ad esse un contenuto allusivo percepibile dal lettore medio (Cass. 15-07-2008 n. 37124).

Il diritto di cronaca non implica il controllo della fondatezza di una denuncia quando riferisce un fatto di indiscutibile rilevanza sociale, oggettivamente sospettabile e meritevole di verifica in sede giudiziaria (Cass. n. 998/2001) e sarebbe sufficiente il riferimento a fonti di sicura qualità ed affidabilità (es. intervista di un soggetto investito di particolare qualità istituzionale, Cass. 23-09-2004 n. 37435): il controllo è, invece, necessario quando sia evidente l’assoluta inverosimiglianza del fatto denunciato o la palese strumentalità e gratuità della denuncia (Cass. n. 41135/2001).

Non sussiste l’esimente, anche putativa, del diritto di cronaca giudiziaria allorché manchi la necessaria correlazione tra il fatto narrato e quello accaduto (Cass. 6-04-2005 n. 12859).

Il giornalista che riporti un fatto emergente da un processo come fatto realmente accaduto ha il dovere di effettuare i necessari controlli di veridicità circa il fatto stesso e, se si limita alla diffusione della notizia dell’adozione di un provvedimento giudiziario, deve accertare la reale sussistenza del provvedimento medesimo (Cass. 21-10-2008 n. 44522): la verità della notizia deve essere riferita agli sviluppi di indagine quali risultano al momento della pubblicazione dell’articolo (Cass. 13-09-2004 n. 36244).

Quando le informazioni desumibili da un provvedimento giudiziario sono utilizzate per ricostruzioni o ipotesi giornalistiche tendenti ad affiancare o a sostituire gli organi investigativi nella ricostruzione di vicende penalmente rilevanti e autonomamente offensive, il giornalista ha l’onere di verificare le notizie e di dimostrarne la pubblica rilevanza (Cass. 28-01-2008 n. 7333).

Tuttavia, il concetto di cronaca presuppone la immediatezza della notizia e la tempestività dell’informazione, così che l’esigenza della velocità può comportare un sacrificio, in nome dell’interesse alla notizia, dell’accuratezza della verifica della sua verità e della bontà della fonte: ciò, per contro, non deve accadere quando si offre il resoconto di fatti distanti nel tempo (Cass. 15-12-2005 n. 8042).

E’ da precisare, però, che se non si è in grado, in ragione della ristrettezza dei tempi, di compiere ogni accertamento atto a fugare ogni dubbio o incertezza in ordine alla verità sostanziale del fatto, bisogna astenersi dal divulgare la notizia, non potendo trasmetterla al pubblico con il rischio di una sua eventuale non rispondenza al vero (Cass. 14-12-2004 n. 48095).

Così, ad es., non è stato qualificato come reato:

1) la frase “ protettore dell’illegalità” (Cass. n. 13880/2008), se si tratta di valutazione prettamente politica che, inquadrata in un suggestivo parallelismo storico, intende sottolineare e stigmatizzare la perpetuazione di sistemi gestionali ritenuti volti alla copertura di interessi illegali: è, cioè, mera opinione valutativa propria del particolare punto di vista del gruppo politico di appartenenza;

2) chiamare “intollerante e fascista” un politico (Cass. n. 29433/2007): la critica politica consente l’uso di espressioni forti ed anche suggestive al fine di rendere efficace il discorso e richiamare l’attenzione di chi ascolta, semprechè la questione trattata sia di interesse pubblico e non si trascenda in gratuiti attacchi personali.

Se si tratta di un uomo politico (personaggio pubblico), quindi, i limiti alla protezione della reputazione si estendono ulteriormente: il diritto alla tutela della reputazione deve essere ragionevolmente bilanciato con l’utilità della libera discussione delle questioni politiche (C.E.D.U. 8-07-1986 e 1-07-1997).

La critica, in sostanza, può esplicarsi in forma tanto più incisiva e penetrante, utilizzando anche espressioni suggestive, quanto più elevata è la posizione pubblica della persona che ne è destinataria (Cass. Sez. settima n. 11928/1998 e n. 3473/1984).

I presupposti per l’esimente dell’art. 51 c.p., il cui ambito è ampliato dalla causa di liceità penale eccezionale di cui all’art. 598 (Cass. 6-06-1966 n. 995), sono la verità del fatto attribuito e l’interesse pubblico al fatto narrato e/o criticato: il diritto di critica scrimina, quindi, il comportamento realmente tenuto dal personaggio pubblico ed, altresì, le condotte realizzate nell’esercizio del diritto di difesa (Cass. 3-11-2005 n. 39934), ma non la falsa attribuzione di una condotta scorretta (Cass. 23-02-2007 n. 7662) anche quando riguarda un soggetto dalla reputazione già compromessa (Cass. 4-07-2008 n. 35032).

Esulano dal diritto di critica le affermazioni svolte in un articolo giornalistico che, traendo spunto da un fatto di cronaca, esprimano una polemica intensa su temi di rilevanza sociale, qualora i dati riportati siano strumentalmente travisati nel loro nucleo essenziale (Cass. 14-01-2008 n. 4496, n. 11664/1995, n. 19334/2004, n. 11662/2007).

I limiti al diritto di critica non sussistono, invece, qualora la critica concerna indagini non in corso ma inchieste giudiziarie aventi innegabile effetto politico (Cass. 21-02-2007 n. 25138).

L’esimente del diritto di critica è configurabile quando il discorso giornalistico abbia un contenuto prevalentemente valutativo e si sviluppi nell’alveo di una polemica intensa e dichiarata su temi di rilevanza sociale, senza trascendere in attacchi personali, finalizzati all’unico scopo di aggredire la sfera morale altrui, non richiedendosi, a differenza del diritto di cronaca, che la critica sia formulata con riferimento a precisi dati fattuali, sempre che il nucleo ed il profilo essenziale dei fatti non siano strumentalmente travisati e manipolati (Cass. 6-02-2007 n. 11662).

Esula, così, dal diritto di critica (politica o giornalistica) l’accusa, rivolta ad un magistrato, di asservimento della funzione giudiziaria ad interessi personali, partitici, politici, ideologici, o di strumentalizzazione della stessa per finalità estranee a quelle proprie, in ragione dei doveri istituzionali, all’operato del pubblico ministero (Cass. 8-08-2006 n. 29453): costituisce reato la gratuita attribuzione di mala fede a chi conduce indagini giudiziarie (Cass. 30-06-2004 n. 28661).

Il diritto di critica non esclude necessariamente l’uso di un epiteto infamante: bisogna ponderare se il ricorso ad aggettivi o frasi particolarmente aspri sia o meno funzionale alla economia dell’articolo, alla luce della eventuale assoluta gravità oggettiva della situazione rappresentata (Cass. 25/03/2005 n. 11950).

La valutazione di una critica, comunque, non può prescindere dal contesto in cui si colloca l’oggetto della critica medesima e da quello in cui essa si esprime: in tal senso ad affermazioni apodittiche e comunque non argomentate, oggetto della critica, non è lecito contrapporre una critica ricca di approfondimenti e distinzioni (Cass. 2-12-2004 n. 46788).

E’ da ricordare che la pubblicazione della rettifica della notizia giornalistica falsa non riveste efficacia scriminante, in quanto non elimina gli effetti negativi dell’azione criminosa (Cass. 7-03-2006 n. 16323 e n. 32364/2002).

Non è stato ritenuto illecito:

3) la frase “pigro di penna” (Cass. n. 10724/2008) in quanto la reputazione non si identifica con la considerazione che ciascuno ha di sé bensì con il senso di dignità personale in conformità all’opinione del gruppo sociale, secondo il particolare contesto storico.

4) la pubblicazione, integrale, imparziale ed asettica ovvero senza alcun commento, di un’interrogazione di un politico, anche se oggettivamente diffamatoria (Cass. 19-12-2001 n. 15999 e sez. terza 27-10-2004 n. 20783), senza cioè dimostrare di aderire al suo contenuto diffamatorio: occorre, cioè, accertare se il giornalista abbia assunto la prospettiva del terzo osservatore dei fatti, agendo per conto del pubblico dei suoi lettori, ovvero sia solo un dissimulato coautore della dichiarazione diffamatoria, che agisca contro il diffamato (Cass. 10-10-2007 n. 42085 e n. 5192/1999);

5) definire “cicciona” la paziente (Cass. n. 4990/2007), poiché un medico non può porsi il problema dell’offensività della mera constatazione della condizione patologica del paziente e specialmente quando l’espressione è diretta a spronarla a perdere peso;

6) il termine “vaffa…” (Cass. n. 27966/2007) se pronunciato tra soggetti in posizione di parità ed in risposta a frasi che non rappresentano manifestazioni di specifico riguardo al soggetto: l’uso troppo frequente, altresì, ne ha modificato la portata offensiva;

7) l’avanzare dubbi sulla possibilità che un magistrato, in servizio da tempo in un posto ad alta densità criminale, possa subire condizionamenti (Cass. 13-11-2009 n. 43403);

8) toni volgari al telefono nei riguardi di colleghi medici che cercano di scaricare un paziente scomodo (Cass. n. 46512/2009);

9) la caricatura dei tratti fisionomici di un magistrato, se attinente ad ambiti diversi da quello della vita privata della persona nota (Cass. 18-01-1991), se non utilizzata come veicolo informativo in quanto, in tal caso, sarebbe soggetta ai limiti del diritto di cronaca (Trib. Milano 26-05-1994) ed, altresì, se la rappresentazione non si orienti a denigrare l’attività professionale dell’offeso (Cass. n. 36348/2001). Tuttavia, non può considerarsi satirico un insulto gratuito, fondato su luoghi comuni e privo di qualsiasi aggancio con la reale condotta della persona criticata (Cass. 3-11-2004 n.42643);

10) la critica di un fatto ancora da verificarsi ma probabile in base alla ragionevole valutazione di altri fatti certi (Cass. n. 31037/2001);

11) la pubblicazione di un articolo riproducente il contenuto di una denuncia all’Autorità giudiziaria ed avente per oggetto l’acquisto di un terreno, successivamente destinato dal Comune ad area fabbricabile, da parte di una società della cui amministrazione fa parte un consigliere comunale (Cass. nn. 5259/1984 e 1446/1966);

12) espressioni pronunciate da un conduttore televisivo, nel corso di una trasmissione, nei riguardi di un uomo citato con il solo nome, se le espressioni, anche se colorite, non abbiano, singolarmente o complessivamente considerate, alcuna capacità idonea ad offendere (Trib. Monza n. 2314/2002). 

Non costituisce reato il menzionare circostanze che possono considerarsi di pubblico interesse, anche per la notorietà della persona cui si riferiscono, il limitarsi ad una pacata esposizione letterale della notizia: le caratterizzazioni della persona offesa non devono essere superflue e non pertinenti in relazione ai fatti narrati (Cass. 16-03-2006 n. 9246).

Sussiste il diritto di cronaca e di critica, quando il comportamento di una persona, essendo contrassegnato da ambiguità, sia suscettibile di più interpretazioni, tutte connotate in negativo, a favore del giornalista che abbia operato la ricostruzione di una determinata vicenda sulla scorta dei dati in suo possesso e di quelli contenuti in un provvedimento giudiziario (Cass. 29-11-2004 n. 46193).

Il diritto di cronaca, comunque, non può operare al di là del limite segnato dall’attitudine della notizia a soddisfare una oggettiva esigenza di informazione pubblica (Cass. 4/10/2007 n. 46295): la notizia giornalistica riportata utilizzando uno scritto anonimo è, come tale, inidonea a meritare l’interesse pubblico e insuscettibile di controlli circa l’attendibilità della fonte e la veridicità della notizia (Cass. 2-12-2008 n. 46528 e n. 5545/1992).

E’ consentito effettuare accostamenti solamente tra notizie vere ma a condizione che esse non producano un ulteriore significato che trascenda la notizia stessa (Cass. 4-02-2005 n. 3999, 24-05-2001 n. 21234) e non si devono introdurre elementi aggiuntivi alla notizia così da finire con il rappresentare i fatti come sostanzialmente diversi (Cass. 7-04-2004 n.16270) né esasperare e travisare i fatti con una arbitraria e fantasiosa ricostruzione per dare agli stessi una dimensione artatamente drammatica e sensazionale (Cass. 13-03-2001 n. 10331): l’offesa, quindi, si può realizzare anche mediante l’accostamento o l’accorpamento delle notizie (Cass. sez. terza 13-02-2002 n. 2066) o quando, pur essendo veri i singoli fatti riferiti, siano, anche soltanto colposamente, taciuti altri fatti così strettamente collegati ai fatti riferiti da mutarne completamente il significato (Cass. 22-03-2007 n. 6973).

E’ da tenere presente, infine, che la condotta, anche quando non reca pregiudizio alla reputazione del soggetto, può configurare un differente illecito (ad es. per lesione di diritti fondamentali), anche di natura civilistica: la pubblicazione di notizia non veritiera su una persona, ad es., ben può dar luogo a responsabilità per lesione dell’identità personale (Cass. sez. terza 31-01-2008 n. 2375): all’uopo, comunque, va sottolineato che il diritto all’identità non attribuisce il diritto ad una costante corrispondenza tra la narrazione dei fatti riferiti ad una determinata persona e l’idea che quest’ultima ha di sé. 

 

Avv. Alessandro M. Basso (avvocato, dottore di ricerca in “uomo-ambiente” Facoltà di Giurisprudenza ed Agraria/Università di Foggia, conciliatore professionista, giornalista pubblicista, geometra abilitato, guida ufficiale del Parco nazionale del Gargano)

mail pec: a.basso@pec.cinfor.org

 

NOTE AL TESTO

(1) reperibile su http://www.giurcost.org/decisioni/1992/0368s-92.html

(2) Per approfondimenti, C. FIORE “Diritto penale”, Torino, 1993; G. MARINUCCI, “Il reato come azione. Critica di un dogma”, Milano, 1971.

(3) Per approfondimenti, G. DELITALA “Il fatto nella teoria generale del reato”, Padova, 1930 e FIANDACA- MUSCO “Una introduzione al fatto di reato”, Catania, 1982.

(4) Le sentenze sono reperibili su www.cittadinolex.kataweb.it, www.altalex.com, A.M. BASSO, “L’uomo, la società, il diritto- Manuale di casistica giuridica ragionata”, Reggio Calabria, 2004 e www.ordinegiornalisti.veneto.it/pagine/vademecum%20edizione%20XX.pdf

 

Prof. Avv. Basso Alessandro Michele

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