La Puglia, con legge regionale n. 30/2024, per la prima volta in Italia, ha disciplinato la corresponsione della retribuzione minima tabellare inderogabile pari a nove euro l’ora, sia pure limitatamente appalti stipulati con la Regione Puglia, le aziende sanitarie locali, le aziende ospedaliere, le Sanitaservice, le agenzie regionali e tutti gli enti strumentali regionali. Tale provvedimento è stato impugnato dal governo, ma la Corte Costituzionale, con sentenza n.188/2025 in data 16 dicembre 2025, ha ritenuto legittimo il provvedimento normativo in quanto le disposizioni regionali impugnate non introducono un obbligo generalizzato di retribuzione minima che si imponga direttamente a tutti i contratti di lavoro privato subordinato stipulati nel territorio regionale, ma hanno un ambito di applicazione circoscritto alla sola sfera degli appalti pubblici e delle concessioni affidate dalla Regione e dagli enti strumentali. La sentenza, ritenuta una vittoria dalle forze politiche di opposizione, ha riaperto il dibattito sulla necessità di approvare una legge nazionale in materia che, da ultimo, è stata nuovamente respinta dal governo nel corso dell’esame della legge di bilancio per l’anno 2026. Per approfondimenti sul nuovo diritto del lavoro, abbiamo organizzato il corso di formazione Corso di alta formazione in sicurezza sul lavoro – Analisi dei rischi, appalti privati e pubblici e tecniche ispettive INL
Indice
1. La legge n. 30/2024 della Regione Puglia sul salario minimo
Con legge 21 novembre 2024, n. 30, il Consiglio regionale pugliese ha disciplinato norme e interventi graduali finalizzati alla tutela della retribuzione minima salariale nei contratti della Regione Puglia (art.1).
Il provvedimento normativo, in particolare, ha regolamentato le procedure di gara stabilendo che la Regione, le aziende sanitarie locali, le aziende ospedaliere, le Sanitaservice, le agenzie regionali e tutti gli enti strumentali regionali devono prevedere in tutte le procedure di gara, in coerenza con quanto previsto all’articolo 11 del decreto legislativo 31 marzo 2023, n. 36[1] che al personale impiegato nei lavori, servizi e forniture oggetto di appalti pubblici e concessioni sia applicato il contratto collettivo maggiormente attinente alla attività svolta, stipulato dalle organizzazioni datoriali e sindacali comparativamente più rappresentative, salvo restando i trattamenti di miglior favore.
Inoltre i menzionati soggetti hanno l’obbligo di verificare che i contratti indicati nelle procedure di gara stabiliscano un trattamento economico minimo inderogabile pari a nove euro l’ora.
È anche, precisato che, se gli operatori economici dichiarano di applicare, in sede di offerta, un differente contratto collettivo, gli stessi soggetti hanno l’obbligo di verificare, ai sensi dell’articolo 11 del d.lgs. 36/2023, che tale contratto garantisca ai dipendenti le stesse tutele di quello indicato dalla stazione appaltante.
Il giudizio di equivalenza deve essere condotto sulla base dei dodici parametri indicati dall’Autorità nazionale anticorruzione (ANAC) nella relazione illustrativa al Bando tipo n. 1/2023, elaborati sulla base delle indicazioni fornite dall’Ispettorato nazionale del lavoro con la Circolare 28 luglio 2020, n. 2.
Può anche ritenersi sussistente l’equivalenza in caso di scostamenti in numero massimo di due parametri, accertando preventivamente che il diverso contratto collettivo indicato dagli operatori economici in sede di offerta preveda una retribuzione minima inderogabile pari a nove euro l’ora. Pertanto, la verifica da effettuare verte sulla equivalenza sia delle tutele normative che delle tutele.
economiche dei diversi contratti collettivi (art. 2).
La legge rappresenta, quindi, una norma chiave per stabilire una soglia retributiva minima (circa 9 euro/ora) per i lavoratori negli appalti pubblici e nelle concessioni regionali, al fine di contrastare il dumping contrattuale[2] e garantire salari dignitosi.
L’obiettivo è quello di garantire la qualità e la sicurezza del lavoro e prevenire lo sfruttamento negli appalti e nelle concessioni eseguiti sul territorio regionale, anche se il suo ambito di applicazione è limitato ai contratti d’appalto o concessioni di servizi, forniture o lavori, specialmente quelli ad alta intensità di manodopera.
Avverso il provvedimento legislativo della Puglia il Consiglio dei Ministri, su proposta del Ministro per gli Affari regionali e le autonomie Roberto Calderoli, con ricorso notificato il 24 gennaio 2025, ha promosso questioni di legittimità costituzionale dell’art. 2, comma 2, della citata legge n.30/2024.
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2. La sentenza della Corte Costituzionale n. 188/2025
Preliminarmente, con riferimento all’ambito oggettivo di applicazione, la Corte rileva che, dalla rubrica e dal tenore letterale dell’intero articolo, l’impugnato comma 2 è destinato a trovare applicazione nelle procedure di evidenza pubblica bandite dall’amministrazione regionale e dagli enti strumentali. La disposizione, nel porre in capo alle stazioni appaltanti l’obbligo di verifica di una soglia retributiva minima, detta un criterio di selezione del contratto collettivo che le stazioni appaltanti sono chiamate a indicare negli atti di gara, fermo restando il potere dell’operatore economico di indicare un diverso contratto collettivo che garantisca tutele equivalenti.
L’art. 2, comma 2, della legge reg. Puglia n. 30 del 2024, pertanto, non introduce un obbligo generalizzato di retribuzione minima che si imponga direttamente a tutti i contratti di lavoro privato subordinato posti in essere nel territorio regionale, ma ha un ambito di applicazione circoscritto agli appalti pubblici e alle concessioni affidati dalla Regione e dai suoi enti strumentali.
Quanto alle finalitàdella disciplina, risulta dai lavori preparatori che la Regione Puglia, con una serie di interventi normativi, ha inteso porre norme volte ad assicurare condizioni di lavoro dignitose e a garantire i diritti dei lavoratori.
La legge, in particolare, vorrebbe contrastare il dumping contrattuale, alimentato dalla coesistenza di molteplici contratti collettivi in uno stesso settore, spesso sottoscritti da soggetti poco o per nulla rappresentativi, che finirebbe per favorire il cosiddetto “lavoro povero”, consentendo un confronto concorrenziale fondato sulle retribuzioni più basse, a discapito delle tutele del lavoro e della qualità dell’offerta.[3]
La stessa direttiva 2022/2041/UE relativa ai salari minimi adeguati nell’Unione europea[4] riconosce che negli ultimi decenni le strutture tradizionali di contrattazione collettiva si sono indebolite a causa, tra l’altro, di spostamenti strutturali dell’economia verso settori meno sindacalizzati e del calo delle adesioni ai sindacati, anche come conseguenza di attività antisindacali e dell’aumento delle forme di lavoro precarie e atipiche (considerando n. 16). Nel fare esplicitamente salva la scelta degli Stati membri, in conformità alle proprie tradizioni, di prevedere salari minimi per legge, per contrattazione collettiva o mediante entrambi (art. 1, paragrafi 3 e 4; considerando n. 12 e n. 19), la direttiva istituisce un quadro di azioni volte a garantire l’adeguatezza dei salari minimi legali, ove previsti, la promozione della contrattazione collettiva sulla determinazione dei salari e il miglioramento dell’accesso effettivo dei lavoratori al diritto alla tutela garantita dal salario minimo dal diritto nazionale e/o dai contratti collettivi (art. 1, paragrafo 1).
Osserva, anche, la Corte che recentemente è intervenuta la sentenza della Corte di giustizia, grande sezione, 11 novembre 2025, causa C-19/23, Regno di Danimarca contro Parlamento europeo e Consiglio dell’Unione europea, che ha rigettato la domanda di annullamento integrale della citata direttiva, mentre ha annullato singole frazioni normative contenute nell’art. 5, relativo alle procedure per la determinazione dei salari minimi legali adeguati, in quanto ritenute un’ingerenza diretta nella determinazione delle retribuzioni, in violazione della esclusione di competenza dell’Unione di cui all’art. 153, paragrafo 5, TFUE.
Alla luce del tenore letterale e delle sue finalità, per la Corte, la legge regionale della Puglia è ascrivibile al cosiddetto uso “strategico” dei contratti pubblici, ossia la previsione, nelle procedure di evidenza pubblica, di condizioni volte alla realizzazione di obiettivi sociali, tra cui la tutela dei lavoratori, che sono ulteriori rispetto alle finalità proprie dei contratti stessi.
Le direttive di settore dell’Unione europea, nelle diverse fasi della loro evoluzione, hanno, quindi, previsto la possibilità per le stazioni appaltanti di considerare fattori di ordine sociale e ambientale nelle procedure di evidenza pubblica attraverso l’inserimento negli atti di gara di “clausole sociali”.
Anche la già richiamata direttiva 2022/2041/UE riconosce il ruolo fondamentale dei contratti pubblici per l’attuazione efficace della tutela del salario minimo, sia esso previsto dalla legge o dalla contrattazione collettiva (considerando n. 31 e art. 9, rubricato “Appalti pubblici”).
Lo stesso legislatore statale ha da tempo recepito e fatto proprio l’uso “strategico” dei contratti pubblici di matrice europea attraverso istituti volti a contemperare la libertà di iniziativa economica degli operatori privati, nell’ottica di favorire la concorrenza per il mercato[5] e il perseguimento di obiettivi di politica sociale, di tutela dei lavoratori, di sostegno al reddito e alle imprese.[6]
Per la Corte è espressione di questo orientamento l’art. 11 cod. contratti pubblici che ha introdotto, tra i principi generali del codice, l’obbligo delle stazioni appaltanti di indicare nei bandi o inviti il contratto collettivo nazionale e territoriale in vigore per il settore e per la zona nella quale si eseguono le prestazioni di lavoro, stipulato dalle associazioni comparativamente più rappresentative sul piano nazionale e strettamente connesso con l’attività oggetto dell’appalto o della concessione.
Dopo l’entrata in vigore delle disposizioni regionali controverse, soggiunge la Corte, l’art. 11 cod. contratti pubblici è stato modificato dall’art. 2 del d.lgs. n. 209 del 2024, il cui art. 73 ha contestualmente introdotto un apposito Allegato I.01 al codice, espressamente richiamato nell’art. 11 e recante criteri per la scelta del CCNL applicabile e per il giudizio di equivalenza che le stazioni appaltanti sono chiamate a svolgere.
Il legislatore statale, inoltre, prosegue la Corte, è intervenuto con la legge n. 144 del 2025 con l’obiettivo di dare attuazione al diritto a una retribuzione proporzionata e sufficiente ai sensi dell’art. 36 Cost. (art. 1), dettando principi e criteri direttivi relativi anche ai trattamenti economici complessivi minimi negli appalti di servizi (art. 1, comma 2, lettera b).
La conformità dell’art. 2, comma 2, della legge reg. Puglia n. 30 del 2024 all’art. 11 del codice dei contratti pubblici non è oggetto di contestazione e, quindi, resta estranea al giudizio. I rinvii operati all’art. 11 del medesimo codice nei commi 1 e 3 della disposizione regionale, tuttavia, rilevano ai fini del corretto inquadramento della fattispecie normativa, che è indubbiamente circoscritto all’alveo degli appalti pubblici e delle concessioni. Vengono in gioco, pertanto, l’insieme dei beni e degli interessi di rango costituzionale e unionale sottesi al sistema dei contratti pubblici, tra cui, in relazione alla disciplina di cui è causa, la libertà degli operatori economici di decidere se partecipare alla procedura di evidenza pubblica e, per coloro che si siano determinati a presentare un’offerta, la possibilità di optare per un diverso contratto collettivo, se pure condizionato al giudizio di equivalenza.
Ricostruito l’ambito di applicazione della disposizione impugnata, la Corte ha proceduto all’esame delle singole questioni riferendo che, con il primo motivo di ricorso, l’art. 2, comma 2, della legge reg. Puglia n. 30 del 2024, è stato impugnato per violazione dell’art. 36, primo comma, Cost.
Al riguardo la Regione ha eccepito l’inammissibilità della questione per difetto di motivazione e per inconferenza del parametro, in quanto la disposizione non stabilirebbe un principio generale, ma soltanto un requisito relativo alle procedure di gara regionali.
L’eccezione è stata ritenuta fondata per entrambi i profili; costituisce, infatti, principio costante della giurisprudenza della Corte quello per cui “l’esigenza di un’adeguata motivazione a fondamento dell’impugnazione si pone in termini rigorosi nei giudizi proposti in via principale, nei quali il ricorrente ha l’onere non soltanto di individuare le disposizioni impugnate e i parametri costituzionali dei quali denuncia la violazione, ma anche di suffragare le ragioni del dedotto contrasto con argomentazioni chiare, complete e sufficientemente articolate”, per cui “il ricorrente deve proporre una motivazione che non sia meramente assertiva ma contenga una specifica e congrua indicazione delle ragioni per le quali vi sarebbe il contrasto con i parametri evocati, con il sostegno di una sintetica argomentazione di merito”.[7]
Il governo, invece, per la Consulta, si limita a dedurre che l’ordinamento non prevede un salario minimo stabilito dalla legge o da altre disposizioni giuridiche vincolanti; si tratta di una affermazione assertiva, dal momento che il ricorrente non chiarisce perché la previsione di una soglia minima retributiva dovrebbe porsi in contrasto con i principi di sufficienza e di proporzionalità della retribuzione garantiti dall’art. 36, primo comma, Cost., né si esprime sull’incidenza di tale soglia quale criterio di selezione del contratto collettivo applicabile all’appalto o alla concessione, dunque in relazione allo specifico assetto degli interessi che connota l’ambito delle procedure di evidenza pubblica.
Sempre con il primo motivo di ricorso il ricorrente lamenta un contrasto con gli artt. 36, primo comma, e 39, quarto comma, Cost., per violazione dei principi costituzionali posti a presidio dell’autonomia della contrattazione collettiva; anche di questa questione la difesa regionale eccepisce l’inammissibilità, in quanto la censura sarebbe “oscura” e generica nella motivazione.
L’eccezione è stata ritenuta fondata dal Giudice delle leggi perché il ricorso assume l’erronea prospettiva dell’incidenza imperativa e cogente della disposizione regionale sulla generalità dei rapporti di lavoro privato subordinato o comunque sull’intera fascia del mercato del lavoro coperta dalla contrattualistica pubblica regionale, ma non affronta i profili della compatibilità o meno con gli evocati parametri della fissazione di una soglia minima retributiva quale criterio per la selezione del CCNL applicabile in sede di gara, omettendo ogni considerazione sia sugli obblighi delle stazioni appaltanti, sia sulle facoltà degli operatori economici.
Con il secondo motivo di ricorso, il ricorrente deduce la violazione dell’art. 117, secondo comma, lettera l), Cost. in quanto, ogni norma che disciplina il contratto, inteso come fonte regolatrice del rapporto di lavoro subordinato, rientra nella materia dell’ordinamento civile, riservata alla potestà legislativa esclusiva statale, per cui la previsione di una soglia salariale di riferimento determinerebbe un intervento nella disciplina del lavoro privato subordinato sottratta al legislatore regionale.[8]
La Regione, in proposito, ha eccepito l’inammissibilità della questione per erronea individuazione del parametro costituzionale, che avrebbe se mai dovuto essere l’art. 117, secondo comma, lettera e), Cost., che riserva alla competenza esclusiva statale la materia della tutela della concorrenza, sempre a motivo che la disposizione controversa circoscrive la sua incidenza al solo ambito dei contratti pubblici regionali.
L’eccezione, secondo la Corte, merita di essere accolta in quanto la propria giurisprudenza è costante nel ritenere che le disposizioni del codice dei contratti pubblici che riguardano la scelta del contraente (le procedure di affidamento) sono riconducibili alla tutela della concorrenza.[9]
È pacifico, inoltre, che la disciplina dei contratti pubblici comprende anche profili essenziali del diritto dei contratti relativi alle fasi di conclusione ed esecuzione dell’appalto.[10] Secondo la costante giurisprudenza della Corte, l’attrazione di una disposizione nell’area del diritto privato dipende dall’oggetto e dal contenuto della norma, dalla sua ratio e dalla finalità che persegue, mentre non è di per sé dirimente il coinvolgimento di istituti disciplinati dal codice civile. Proprio con riferimento al contratto pubblico d’appalto sono stati ravvisati aspetti di specialità rispetto a quanto previsto dal codice civile, relativi alla fase di stipulazione e di esecuzione del contratto, che non costituiscono tuttavia un ostacolo al riconoscimento della competenza legislativa esclusiva statale in materia di ordinamento civile di cui all’art. 117, secondo comma, lettera l), Cost.[11]
D’altra parte, la Corte osserva di essersi occupata in più occasioni di istituti di diritto privato correlati all’esecuzione del contratto di appalto che assumono rilievo sin dalla fase di gara, poiché contribuiscono a definire le condizioni di parità di accesso degli operatori economici[12] e sono ispirati a un principio di continuità che deve sussistere lungo l’intera fase procedimentale, dalla predisposizione dei meccanismi di selezione del contraente, all’aggiudicazione del contratto e alla sua esecuzione, a garanzia del fatto che le imprese, nella fase di esecuzione, si mantengano in possesso di requisiti già emersi in condizione di par condicio nella fase di gara, spesso proprio con riferimento a obblighi connessi alla tutela dei lavoratori.[13]
Nel caso di specie, tuttavia il ricorrente prospetta una violazione della competenza legislativa esclusiva statale in materia di ordinamento civile senza considerare che la disciplina regionale impugnata concerne la sfera dei contratti pubblici. L’errore di prospettiva in cui incorre lo stesso ricorrente nel ricostruire la fattispecie normativa, come se si trattasse di una disciplina imperativa di portata generale applicabile a tutti i contratti di lavoro privato subordinato, si riflette nel fatto che non è dedotto alcun profilo di censura con riferimento all’assetto dei beni e degli interessi, connessi alla tutela della concorrenza e all’ordinamento civile, che assumono consistenza nello specifico settore dei contratti pubblici. Non è sufficiente, da questo punto di vista, la prospettazione di una generalizzata interferenza con l’attività negoziale, che non dia conto delle peculiari condizioni in cui tale interferenza opera nelle procedure di evidenza pubblica. La questione relativa alla violazione dell’art. 117, secondo comma, lettera l), Cost. pertanto, è stata dichiarata inammissibile.
La Corte precisa, tuttavia, che resta impregiudicata ogni valutazione di merito in ordine ai profili competenziali attinenti alla tutela della concorrenza e all’ordinamento civile non dedotti nei presenti ricorsi.
Anche la questione relativa al contrasto dell’art. 2, comma 2, della legge reg. Puglia n. 30 del 2024 con l’art. 117, secondo comma, lettera m), Cost., dedotta con il secondo motivo di ricorso, deve ritenersi per la Consulta inammissibile. Il ricorrente, infatti, si limita ad affermare assertivamente che la disciplina del contratto di lavoro è fortemente caratterizzata da esigenze di uniformità ed eguaglianza che giustificano la potestà legislativa esclusiva statale anche ai sensi dell’art. 117, secondo comma, lettera m), Cost., ma non chiarisce in alcun modo perché e in che modo si realizzerebbe il preteso vulnus, incorrendo in un difetto assoluto di motivazione.
3. Conclusioni
Il governo attuale si è sempre dichiarato contrario alla previsione di un salario minimo, nonostante le forze politiche di opposizione siano state compatte nel proporre un disegno di legge unitario.
In questo contesto, la legge della Regione Puglia, ritenuta legittima dalla Corte Costituzionale, ha nuovamente acceso i riflettori su una questione delicata: il trattamento salariale dei lavoratori e l’opportunità di individuare una retribuzione minima che garantisca un’esistenza dignitosa.
La conferma della vigenza della normativa regionale determina, infatti, un impatto immediato e sostanziale sui settori c.d. labour intensive (pulizie, della vigilanza privata, del portierato e della ristorazione collettiva ecc.) dove molto spesso sono previsti minimi tabellari inferiori alla soglia dei 9 euro.
Per le imprese operanti in questi ambiti, la legge regionale pugliese richiede una radicale revisione delle strategie di partecipazione alle gare: viene meno, di fatto, la possibilità di competere attraverso il ribasso sul costo del lavoro, spostando la concorrenza su altri fattori, come qualità del servizio, organizzazione aziendale e efficienza tecnologica, comprimendo i margini di profitto, specialmente qualora le basi d’asta non venissero proporzionalmente adeguate dalle stazioni appaltanti.
Sul piano operativo e giuslavoristico, la norma introduce inevitabilmente una disparità di trattamento: le aziende che applicano legittimamente CCNL con tariffe inferiori ai 9 euro si troveranno costrette, per poter operare con la Regione, a colmare il differenziale retributivo ricorrendo all’istituto del “superminimo” per i soli dipendenti impiegati nella commessa pubblica. Tale meccanismo potrebbe generare una situazione di disparità tra lavoratori della stessa azienda impiegati negli appalti regionali e colleghi assegnati a commesse private o extra-regionali, fermo restando che a tutti i lavoratori devono essere erogate retribuzioni adeguate rispetto al principio di sufficienza della retribuzione di cui all’art. 36 della carta costituzionale.
Infine, nonostante la sentenza della Consulta possa considerarsi un punto di svolta, permane uno scenario di incertezza giuridica che espone le procedure di gara a un potenziale rischio di contenzioso. Poiché la Corte non si è espressa nel merito della legittimità sostanziale della soglia, è prevedibile che gli operatori economici esclusi dalle gare – pur applicando regolarmente i propri CCNL di categoria – possano ricorrere al giudice amministrativo. Tali ricorsi potrebbero essere fondati sulla violazione dei principi di libera concorrenza e di libera prestazione dei servizi, lasciando aperta la possibilità che la giustizia amministrativa possa in futuro rimettere in discussione l’impianto della legge pugliese.[14]
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