- La nascita del contratto collettivo quale strumento di regolazione dei rapporti di lavoro
- Il contratto collettivo nell’ordinamento corporativo
- Il contratto collettivo costituzionale
- Il contratto collettivo secondo le regole del diritto privato
- Volume consigliato
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La nascita del contratto collettivo quale strumento di regolazione dei rapporti di lavoro
La seconda rivoluzione industriale aveva accelerato quel processo di legislazione sociale che sfocerà, negli anni successivi, nel diritto corporativo, prima, e nel diritto del lavoro, dopo. Il contratto collettivo, di cui possiamo rinvenire le tracce nei primi accordi aziendali dell’inizio del XX secolo, costituirà un formidabile strumento di regolazione dei rapporti di lavoro. Prima di entrare nel vivo del dibattito giurisprudenziale e dottrinale, circa l’efficacia soggettiva del contratto collettivo, è bene chiarire – in via del tutto prolusiva – che il sindacato dell’età liberale operava quale associazione non riconosciuta. Nessuna investitura formale ad esso venne riconosciuta, se non sotto l’egida Fascista nell’anno ‘ 26 del secolo scorso.
La dottrina e la giurisprudenza degli inizi del ‘900 furono impegnate a tracciare il perimetro della natura e dell’efficacia del contratto collettivo. In proposito, i collegi dei probiviri[1], partendo dalla considerazione della funzione economico-sociale del contratto collettivo (o concordato), diretto a regolare la concorrenza tra industriali da una parte e lavoratori dall’altra, affermarono l’efficacia ultra partes del concordato o contratto collettivo (efficace, secondo il diritto civile, solo tra le parti che lo avevano stipulato). Inoltre, i suddetti collegi asserirono l’inderogabilità del contratto collettivo da parte degli accordi individuali in ragione del principio di “solidarietà” tra “consorti” legati in un patto associativo. [2]
Tuttavia, l’elaborazione giurisprudenziale dianzi citata, incontrò serie ostilità da parte di taluna dottrina e di alcuni giudici ordinari delle Corti d’appello. Secondo questi attori del diritto, i concetti di contratto collettivo ultra partes e di inderogabilità erano alquanto cagionevoli: di fatti, sulla sola base del diritto civile in quel tempo vigente,[3] non sembrava fosse possibile estendere l’efficacia soggettiva del contratto ultra partes, né tantomeno rendere immune il contratto dalla derogabilità delle pattuizioni individuali.
La borghesia degli inizi del ‘900, mediante il dispositivo del contratto di lavoro, aveva l’obiettivo di garantire la pace sociale per tutto il periodo di vigenza dello stesso: “la stabilità del regolamento di lavoro concordato, e quindi l’affidabilità del contratto collettivo come base di programma dei costi di lavoro”, era il reale interesse dei datori, che ne giustificava l’impegno assunto col contratto collettivo.[4] Pur tuttavia, al fine di raggiungere la finalità sopra trascritta, era necessaria una legge, giacché il diritto civile non era in grado di soddisfare tale interesse contingente.
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Il contratto collettivo nell’ordinamento corporativo
Divenuto Governo, dall’ottobre del 1922 con la marcia su Roma, il Fascismo si pose l’obiettivo di ricostruire l’autorità dello Stato, turbata dai continui disordini degli anni precedenti. Attraverso il nuovo principio della collaborazione delle classi e mediante l’istituzione di uno Stato forte e di una magistratura del lavoro, il Fascismo voleva dar vita ad un sistema di rapporti tra datori di lavoro e prestatori d’opera che operasse sotto il continuo controllo dello Stato.
In quest’ottica si ebbe, “come logico sviluppo dell’organizzazione sindacale fascista”,[5] la promulgazione della legge n. 563 del 1926. Essa si componeva di 23 articoli e constava di 3 capi di seguito indicati:
- Del riconoscimento giuridico dei sindacati e dei contratti collettivi di lavoro;
- Della magistratura del lavoro;
- Della serata e dello sciopero.
Il sindacato, pertanto, secondo quanto richiamato dalla succitata legge, aveva personalità giuridica di diritto pubblico e operava sotto il diretto controllo dello Stato. Per la prima volta, dall’unità d’Italia, il sindacato viene riconosciuto formalmente e giuridicamente dallo Stato.
Nel 1927, dopo appena un anno dalla legiferazione della legge del ’26, venne promulgata la Carta del Lavoro[6] dal Gran consiglio del Fascismo. Essa fu considerata il “vero atto costitutivo” dell’ordinamento corporativo, rectius dell’economia corporativa. [7]
Tra le 30 dichiarazioni solenni che conteneva il documento Fascista, vi era la dichiarazione IV che fissava i contenuti di ordine sociale del contratto collettivo di lavoro secondo i principi della dottrina Fascista. La Carta sanciva, poi, la subordinazione del contratto collettivo ai principi Corporativi dai quali derivava lo stesso sindacato Fascista.
In funzione di tale assunto è bene precisare, dunque, le funzioni che il contratto svolgeva, al di là degli aspetti formali giuridici richiamati dalla Carta.
Alla libertà sindacale subentrò il sindacato Fascista. Esso era l’unico legale rappresentante della categoria. In riferimento ai rapporti collettivi di lavoro, ciò comportava:
- l’assoluta parità di diritto dei due sindacati contraenti (quello dei lavoratori e dei datori), nella stipulazione del contratto collettivo. Essi erano entrambi persone giuridiche, in possesso della stessa forza giuridica, con la quale dipanare il comando, che era destinato ad uscire dall’incontro dei consensi. In questo modo, la lotta di classe, si trasformava in collaborazione tra le classi;
- l’efficacia obbligatoria si estendeva a tutti gli appartenenti alla categoria investita, rappresentata da entrambi i sindacati firmatari. Il precetto, quindi, sopprimeva le fazioni politiche e le ragioni del più forte.
Orbene, il contratto collettivo, secondo la dottrina fascista, poggiava su un concetto di assoluta legalità, resa possibile solo mediante la collaborazione delle classi. E solo grazie a questo concetto era possibile dare una spiegazione alla definizione: “la espressione concreta della solidarietà fra i vari fattori della produzione”. Ancora, sempre in relazione a tale assunto, era possibile spiegare come a suddetta solidarietà si arrivasse, non solo mediante la conciliazione di interessi contrapposti, ma anche e soprattutto per il tramite della subordinazione di tali interessi a quelli superiori della produzione. Tutto questo costituiva piena attuazione del principio corporativo.
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Il contratto collettivo costituzionale
Con la caduta del regime Fascista, il costituente – impegnato nella stesura del testo costituzionale – dovette affrontare la spinosa questione di ricostruire, sotto un’altra veste, il sindacato. In proposito, l’attuale articolo 39 della Costituzione, risulta essere frutto del compromesso delle varie anime della costituente. Probabilmente è meglio affermare che quest’ultima “aveva costruito un modello cucito addosso alla CGIL unitaria”.[8]
L’articolo 39, che non ha mai subito una modifica legislativa nel solco dell’arco repubblicano, recita il seguente: “l’organizzazione sindacale è libera.
Ai sindacati non può essere imposto altro obbligo se non la loro registrazione presso uffici locali o centrali, secondo le norme di legge.
E` condizione per la registrazione che gli statuti dei sindacati sanciscano un ordinamento interno a base democratica.
I sindacati registrati hanno personalità giuridica. Possono, rappresentati unitariamente in proporzione dei loro iscritti, stipulare contratti collettivi di lavoro con efficacia obbligatoria per tutti gli appartenenti alle categorie alle quali il contratto si riferisce”.
Entrando nel dettaglio, pare appena il caso di passare in rassegna le diverse posizioni delle organizzazioni sindacali, ovvero quella della CGIL (nata dal Patto di Roma del 1944), della Cisl e della Uil, nel rispettivo ruolo di propulsori, acché l’articolo in commento non fosse reso operativo mediante le norme di attuazione.
La UIL (terzo sindacato nato dalla scissione dalla CGIL avvenuta nel 1950) aveva un atteggiamento incerto, che tuttavia conveniva sulla contrarietà ad ogni forma di controllo sulla consistenza numerica del sindacato.
La CGIL, invece, poneva il suo atteggiamento in contrasto con le posizioni assunte dalle sue due “costole”, la CISL e la UIL. Essa era favorevole all’attuazione dell’articolo 39. La CGIL, sindacato largamente maggioritario, avrebbe avuto una prevalenza nell’ambito della rappresentanza unitaria, se il citato articolo avesse avuto attuazione: “ciò le avrebbe assicurato la possibilità di resistere con successo alla emarginazione che subiva nelle fabbriche, dove la guerra fredda tra sindacati apertasi subito dopo la scissione trovava terreno favorevole nell’atteggiamento degli industriali, che sostenevano apertamente la CISL, e discriminavano i militanti della CGIL”. [9]
Sicuramente l’atteggiamento delle confederazioni doveva considerarsi quale atto a valle delle ragioni storiche che erano e sono, tutt’oggi, alla base della mancata attuazione dei commi 2-3 e 4 dell’articolo 39 della Costituzione.
Il fronte sindacale, comunque, conveniva sul riconoscere, al contratto collettivo, l’efficacia erga omnes, affinché i lavoratori potessero avere la garanzia di minimi inderogabili di trattamento economico e normativo. Ma il problema era, ancora una volta, quello di stabilire quali contratti e stipulati da chi: e qui i contrasti riemergevano.
Trascorsa la prima legislatura, furono CGIL e CISL che avanzarono una pletora di proposte per cercare di arginare il problema.
Tra queste la CGIL proponeva che, in attesa della promulgazione di una legge organica, l’efficacia obbligatoria fosse attribuita ai contratti collettivi stipulati da chi aderiva alle confederazioni che, in quel momento, rappresentavano l’ampia maggioranza dei lavoratori.
La CISL, invece, proponeva l’estensione erga omnes dei contratti collettivi con decreto presidenziale, emanato a seguito di una complessa procedura da svolgersi nell’ambito di una commissione sindacale paritetica cui era affidata l’individuazione dei contratti collettivi da estendere.
Le proposte della CGIL e della CISL furono i prodromi della legge n. 741 del 1959, la cosiddetta legge Vigorelli, che previde l’estensione erga omnes dei contratti attraverso il recepimento di questi in un decreto legislativo. Tuttavia, la predetta fu dichiarata incostituzionale dopo solo un anno dalla sua promulgazione.
Orbene, il tentativo di attuare il contratto costituzionale fallì, e i lavoratori dovettero (e devono) accontentarsi del contratto c.d. di diritto comune.
4. Il contratto collettivo secondo le regole del diritto privato
L’esito della lettura del precedente paragrafo, ci porta alla conclusione che il sindacato, quale associazione non riconosciuta (ex artt. 18 e 39 della Costituzione), stipula contratti collettivi ai quali non possono imputarsi gli effetti dell’art. 39. In altri termini, secondo l’attuale compagine del diritto sindacale Italiano, al contratto collettivo stipulato dagli attori sociali, si applicano le regole del diritto civile sui contratti in generali. “È stata questa lettura, storicamente data alla norma costituzionale, che ha fornito il fondamento positivo della teorizzazione della contrattazione di diritto comune e ha giustificato, sul piano teorico, l’accantonamento della prospettiva dell’attuazione costituzionale”.[10]
Sovente, inoltre, si è ricondotto il contratto c.d. di diritto comune, alla fattispecie di cui all’art. 1322 del codice civile, secondo la quale le parti possono stipulare anche contratti che non appartengono ai tipi aventi una disciplina particolare, purché siano diretti a realizzare interessi meritevoli di tutela secondo l’ordinamento giuridico (contratto tipico- atipico, nominato-innominato). Tuttavia, la qualificazione del contratto collettivo in termini di contratto di diritto comune, non può considerarsi – ab origine – dirimente, in quanto la giurisprudenza non ha mai applicato le norme del codice “Grandi” in generale. Anzi, spesso ha applicato in via diretta alcune norme del codice civile per il contratto collettivo corporativo. Si pensi, ad esempio, all’art. 2077 del contratto collettivo, norma con la quale viene, o meglio veniva,[11] spiegato il concetto di efficacia oggettiva del contratto collettivo.
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Note
[1] La legge n. 295 del 1893 istituì i collegi dei probiviri sui luoghi di lavoro. Essi erano organi, abilitati dalla legge, a comporre – in via giudiziale – le controversie di lavoro. Contro le decisioni del collegio era ammesso il ricorso in sede di gravame solo per ragioni di incompetenza o di eccesso di potere. Era possibile ricorrere davanti alla Suprema Corte senza l’assistenza tecnica di un legale. Con il collegio dei probiviri si ha l’introduzione, nell’ordinamento giuridico italiano, del primo processo del lavoro.
[2] M.V. Ballestrero, Diritto sindacale, G. Giappichelli editore 2018
[3] Il codice civile previgente a quello Fascista del 1942 era il codice Pisanelli del 1865
[4] L. Mengoni, Il contratto collettivo nell’ordinamento giuridico italiano, in Jus, 1975, 167, ora in L. Mengoni, Diritto e valori, Il Mulino, Bologna, cit., p. 247
[5] R. Pighetti, L’ordinamento sindacale corporativo in sintesi, 1940
[6] Singolare, nel panorama giuridico italiano, fu il concepimento della Carta del Lavoro. Quest’ultima fu oggetto di una sequela di critiche circa il suo valore giuridico, poiché l’organo promulgatore fu il Gran consiglio Fascista, organo di partito e non di stato. Tuttavia, la Carta acquistò pieno valore giuridico con la legge 14 del 1941, che collocò il testo solenne in premessa al codice civile del 1942.
[7] Così G. Bottai in “La carta del lavoro illustrata e commentata”, Edizioni di diritto del Lavoro 1929
[8] S. Turone, Storia del sindacato in Italia 1943-1969, Laterza, Bari, 1973
[9] Op. cit.
[10] Così M. Magnani in Diritto sindacale, G. Giappichelli Editore pag. 102
[11] La dottrina riconduce la questione della efficacia oggettiva del contratto collettiva, sotto la copertura dell’art. 2113 del codice civile, poiché muove le sue critiche dal fatto che la norma di cui all’art. 2077 sia di rango corporativo e dunque abrogata con la soppressione dell’ordinamento fascista (R.D.L. 721/1943; Decreto legge luogotenenziale n. 369/1944).
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