L’Edipo Re di Renoir: la folle contesa del diritto di proprietà del dipinto

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Il presente elaborato si pone l’obiettivo di delineare una breve, ma minuziosa, analisi dell’intricata tematica dell’acquisto in buona fede di beni mobili da parte di chi non è proprietario partendo da una nota vicenda sottoposta al vaglio critico della Suprema Corte di Cassazione, vertente sulla restituzione di un bene, nella specie un dipinto del famoso pittore francese Renoir

Indice

1. La querelle: a chi spetta il diritto di proprietà?

Ripercorrendo gli albori del caso processuale, nel 2014 il Tribunale di Treviso, accoglieva, con sentenza, la domanda proposta dai germani nei confronti di parte convenuta volta alla restituzione del dipinto attribuito al famoso pittore francese Renoir, trafugato dall’abitazione dei genitori dei ricorrenti e ritrovato, dopo lunghi anni, nel possesso del convenuto (rectius, un architetto collezionista d’arte).
Parallelamente, pendeva un processo penale per ricettazione ex art. 648 c.p., sospeso in attesa della soluzione della causa petitoria tra imputato e parti civili, relativa alla proprietà del dipinto in oggetto.
Il convenuto, soccombente in primo grado e in appello, decideva di adìre la Suprema Corte che si è pronunciata, in materia, con sentenza del 04 febbraio 2021, n. 2612.
In particolare, con la sentenza ut supra, la Corte ha avuto modo di qualificare il tipo di azione promossa da chi lamenta di essere il legittimo proprietario di un bene nei confronti di chi, di contro, afferma di averne acquistato la proprietà in forza del possesso in buona fede.
 In via preliminare, al fine di comprendere l’approdo ermeneutico della Corte, è necessario ripercorrere la ratio degli istituti connessi.
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2. Acquisto a non domino e rilevanza del concetto di buona fede

La locuzione “acquisto a non domino” (dal latino, “da chi non è padrone/proprietario”) indica, genericamente, una situazione nella quale un soggetto acquista un diritto di proprietà su di un bene che proviene da un soggetto non qualificabile come titolare del diritto stesso.
In particolare, il possessore può acquistare il diritto reale corrispondente alla situazione di fatto esercitata, quando non è già titolare, attraverso il principio “possesso vale titolo”, in virtù del quale chi possiede un bene mobile è presunto proprietario dello stesso oppure in base all’usucapione, per il solo fatto di possedere un bene per il tempo previsto dalla legge.
La regola disciplinata dall’art. 1153 cod. civile è sovente sintetizzata, per l’appunto, con la formula di cui ut supra del “possesso vale titolo”, i cui elementi costitutivi sono:
–          il titolo astrattamente idoneo al trasferimento del diritto reale (ossia, il contratto traslativo);
–          la buona fede dell’alienatario;
–          il conseguimento effettivo del possesso di un bene mobile.
 Pedissequamente, l’art. 1153 c.c., rubricato “Effetti dell’acquisto del possesso”, stabilisce che “Colui al quale sono alienati beni mobili da parte di chi non ne è proprietario, ne acquista la proprietà mediante il possesso, purché sia in buona fede al momento della consegna e sussista un  titolo idoneo al trasferimento della proprietà. La proprietà si acquista libera da diritti altrui sulla cosa,  se questi  non  risultano  dal  titolo   e   vi   è la   buona   fede dell’acquirente.  Nello stesso modo si acquistano i diritti di usufrutto, di uso e di pegno”.
Sul conseguimento del possesso, la Suprema Corte ha avuto modo di precisare che il requisito della consegna reale, proveniente dall’alienante, non comporta necessariamente un contatto fisico e diretto dell’acquirente con il bene, rilevando unicamente che quest’ultimo sia posto in grado di esercitare sulla res i poteri di controllo e vigilanza che costituiscono il contenuto proprio del possesso, quale potere di fatto sulla cosa che si manifesta attraverso l’esercizio di un’attività corrispondente all’esercizio del diritto di proprietà o di altro diritto reale, di cui all’art. 1140 c.c. (Cfr., Cass. civile, Sez. II, 29 gennaio 2018, n. 2100).
L’istituto del “possesso vale titolo” ha lo scopo di garantire la sicurezza della circolazione dei diritti aventi ad oggetto beni mobili: in mancanza di un sistema pubblicitario, la regola in rassegna, è volta a dirimere il conflitto fra più acquirenti dello stesso bene mobile, in favore di colui che per primo ha conseguito il possesso in buona fede della res. Con riferimento al trasferimento dei beni immobili, invece, il Legislatore ha previsto che la proprietà del bene viene acquisita dal soggetto che per primo ha trascritto.
In relazione al concetto di buona fede che rileva, nell’àmbito dell’acquisto a non domino di un bene mobile, si rinvia a quanto stabilito nell’art. 1147 c.c. in forza del quale:
E’ possessore di  buona  fede  chi  possiede  ignorando  di  ledere l’altrui diritto. La buona fede non giova se l’ignoranza dipende da colpa grave. La buona fede è presunta e  basta  che  vi  sia  stata  al  tempo dell’acquisto”.
Dal tenore letterale, si evince come la buona fede in esame è da ricondurre alla c.d. buona fede soggettiva, intesa quale status di incolpevole ignoranza di ledere l’altrui diritto. La predetta regola trova un limite nel secondo comma dello stesso art. 1147 c.c., ai sensi del quale la buona fede non giova se l’ignoranza dipende da colpa grave, che sussiste quando l’errore è inescusabile.
Ancora, la buona fede non giova a chi compie un acquisto senza impiegare quel minimo di diligenza proprio delle persone scarsamente avvedute che gli avrebbe permesso di percepire l’idoneità dell’acquisto, in quanto “non intelligere quod omnes intellegunt”, integrando gli estremi della c.d. culpa làta[1]. 
La buona fede, di cui all’art. 1147 comma III cod. civile è presunta ed è sufficiente che vi sia stata al tempo dell’acquisto, rinviando all’antico brocardo latino accolto nell’odierno ordinamento civilistico “mala fides superveniens non nocet”.
Ciò detto, è evidente che il Legislatore tende a tutelare colui che, in buona fede e sulla base di un titolo astrattamente idoneo, consegue il possesso di un bene mobile da chi non è proprietario.
Tuttavia, giova chiedersi, che tutela è riconosciuta al legittimo proprietario del bene che sia stato spogliato del possesso della res?
Ma, procediamo con ordine.

3. Azioni a difesa della proprietà o actio petitoria

Nell’àmbito delle azioni a difesa del diritto proprietà, il codice civile, disciplina l’azione di rivendicazione, actio negatoria, l’azione di regolamento dei confini e l’azione per l’opposizione dei termini.
Al fine di condurre la presente analisi, è opportuno soffermarsi solamente sull’azione di rivendicazione e, in particolare, sulla differenza rispetto all’azione di restituzione.
 La rèi vindicàtio (dal latino, azione di rivendicazione), trova cittadinanza nell’art. 948 c.c. e consiste nell’azione attraverso la quale il proprietario di un bene agisce contro chi possiede o detiene illegittimamente la res, al fine di ottenerne la restituzione[2].
La causa petendi dell’azione in esame consiste nella lesione del diritto di proprietà mentre il petitum nella condanna del convenuto alla restituzione della cosa o al pagamento di un equivalente in denaro.
Si tratta di un’azione di natura reale e imprescrittibile, al pari del diritto di proprietà, salvi gli effetti dell’acquisto della proprietà da parte di altri per usucapione e se ha ad oggetto un bene immobile, la domanda deve essere trascritta, di cui all’art. 2653, n. 1 cod. civile.
Ciò che connota l’azione di rivendicazione è che la prova del diritto è diversa a seconda se l’acquisto sia a titolo originario o derivativo: nel primo caso l’attore dovrà dimostrare i presupposti della fattispecie acquisitiva; nel secondo caso, ossia nel caso di acquisto a titolo derivativo, sarà necessario dimostrare l’esistenza di un titolo idoneo e che il dante causa sia effettivamente il proprietario, la c.d. probatio diabolica.
 L’azione di rivendicazione e l’azione di restituzione si pongono in un rapporto di inclusione reciproca: entrambe tendono al medesimo risultato ma hanno natura e presupposti diversi.
La prima ha carattere reale, l’attore assume di essere proprietario del bene e, non essendone in possesso, agisce contro chiunque di fatto ne disponga, previo riconoscimento del suo diritto di proprietà; differentemente, l’azione di restituzione, ha natura personale, l’attore non mira al riconoscimento del suo diritto di proprietà, ma solo ad ottenere la riconsegna del bene medesimo, limitandosi a dimostrare l’avvenuta consegna in base ad un titolo ed il successivo venir meno di questo per qualsiasi causa, o ad allegare l’insussistenza ab origine di qualsiasi titolo.
Sulla dicotomia che permea le azioni in esame, la giurisprudenza di legittimità a Sezioni Unite con sentenza del 28 marzo 2014, n. 7305[3] ha riconosciuto che le azioni di rivendicazione e di restituzione sono accumunate dallo scopo pratico cui entrambe tendono, ossia ottenere la disponibilità materiale di un bene, di cui si è privi, ma si distinguono nettamente per la natura, poiché all’analogia del petitum non corrisponde quella delle rispettive causae petendi: l’accertamento del diritto di proprietà per l’una, un rapporto obbligatorio per l’altra. La prima è connotata da realità e assolutezza mentre la seconda da personalità e relatività.
In particolare, nella rivendicazione la ragione giuridica e l’oggetto del giudizio coincidono, identificandosi nel diritto di proprietà, di cui l’attore deve dare la c.d. probatio diabolica, mentre nel caso dell’azione di restituzione si verte, invece, su una prestazione di dare, derivante da un rapporto obbligatorio. Recentemente, con ordinanza n. 25084/2022, la Corte di Cassazione si è pronunciata nuovamente sul punto, ponendosi in linea con quanto affermato dalle Sez. Unite del 2014.
In particolare, rimarcando le differenze sia sostanziali che processuali tra l’azione di rivendicazione e quella di restituzione, la Corte ha ribadito che nell’ipotesi in cui l’attore agisse in restituzione del bene, la difesa del convenuto, che pretenda di essere proprietario del bene in contestazione, non è idonea a trasformare in reale l’azione personale proposta nei suoi confronti, atteso che, per un verso, la controversia va decisa con esclusivo riferimento alla pretesa dedotta in giudizio, per altro, la semplice contestazione del convenuto non costituisce strumento idoneo a determinare l’immutazione, oltre che dell’azione, anche dell’onere della prova incombente sull’attore, imponendogli, una prova ben più onerosa, la probatio diabolica della rivendica, di quella cui sarebbe tenuto alla stregua dell’azione inizialmente introdotta. 

4. Riflessioni conclusive

L’analisi fin qui condotta ha evidenziato la labile, ma non scontata, differenza tra l’azione di rivendicazione e quella di restituzione; dal corretto inquadramento dell’una o dell’altra discendono importanti ripercussioni in materia di onere della prova.
Con la sentenza oggetto di esame, la n. 2612 del 2021, la II Sezione Civile della Cassazione, nell’accogliere il ricorso promosso dal soccombente- parte convenuta nel primo grado, ha precisato come la domanda di restituzione di un bene già oggetto di furto, proposta nei confronti del soggetto che si trova nel possesso della res, introduce un’azione di rivendicazione e non di restituzione, con le ovvie ricadute sul piano processuale in materia probatoria.
Ancora, in linea con la giurisprudenza del merito, ha altresì escluso che la successione universale potesse costituire titolo per l’acquisto della proprietà del dipinto, ai sensi dell’articolo 1153 c.c., occorrendo un atto traslativo a titolo particolare, ai fini dell’assolvimento dell’onere probatorio, in relazione alla proprietà del dipinto oggetto di refurtiva e, successivamente, di possesso.
È vero, infatti, che l’accettazione dell’eredità devoluta per legge costituisce una manifestazione unilaterale di volontà del successibile, non del suo dante causa, con l’effetto di far acquistare l’eredità a norma dell’articolo 459 c.c. e non in forza di disposizioni del de cuius. La fattispecie non è perciò riconducibile nello schema negoziale dell’atto traslativo della proprietà (Cfr., Cass. 23/07/1994, n. 6890), e di conseguenza non concreta il requisito del titolo proveniente a non domino astrattamente idoneo al trasferimento della proprietà.

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  1. [1]

    La culpa làta, nel diritto romano classico, era un criterio eccezionale di imputazione della responsabilità contrattuale e consisteva nella mancata prestazione anche di un minimo di diligenza (particolarmente sfavorevole per il debitor), da parte del debitore, nell’adempimento. Si trattava del grado massimo di negligenza; Ulpiano la definiva come “nìmia neglegentia, id est non intellègere quod òmnes intèllegunt” (esasperata negligenza, cioè non capire ciò che tutti capiscono). La culpa làta era equiparata, negli effetti, al dolo (culpa lata dolo æquiparàtur).

  2. [2]

    Volgiamo uno sguardo all’evoluzione storica dell’actio:
    nel diritto arcaico, si esercitava nella forma della lègis àctio sacramènti in rem . In essa non si distinguevano attore e convenuto: entrambi i soggetti affermavano la proprietà della cosa, pronunciando la formula solenne e promettendo di versare alla cassa pubblica una somma di danaro (sacramentum) in caso di soccombenza. Il giudice decideva quale fosse il sacramentum iustum, risolvendo implicitamente, in tal modo, il giudizio sulla proprietà;
    nella età classica, il processo di restituzione della res aveva luogo con la procedura della legis actio per iudicis postulationem, ove chi affermava di essere proprietario faceva promettere a chi possedeva la cosa il pagamento di una somma in danaro (sponsio præiudicialis) qualora fosse risultato soccombente nel successivo giudizio. Il dominus in seguito citava in ius la controparte, esercitando la legis actio per iudicis postulationem;
    nel sistema formulare, ebbe maggior diffusione il procedimento della formula petitòria, senza che vi fosse bisogno di una preventiva sponsio del convenuto, quindi l’attore agiva in giudizio affermando di essere proprietario della cosa, chiedendone la restituzione. Instaurata la lite, se il convenuto non restituiva spontaneamente la res litigiosa , il giudice procedeva alla lìtis æstimàtio .Il convenuto soccombente doveva restituire la cosa cum sua causa, ossia: se possessore di buona fede, doveva restituire i frutti percepiti dopo la litis contestàtio , mentre, se di mala fede, doveva restituire anche quelli percepiti ante litem contestàtam, ossia sin dalla immissione nel possesso

  3. [3]

    Ex multis: si legge nella pronuncia delle Sezioni Unite che “l’azione personale di restituzione, come già dice il nome, è destinata a ottenere l’adempimento dell’obbligazione di ritrasferire una cosa che è stata in precedenza volontariamente trasmessa dall’attore al convenuto, in forza di negozi quali la locazione, il comodato, il deposito e così’ via, che non presuppongono necessariamente nel tradens la qualità di proprietario. Essa non può pertanto surrogare l’azione di rivendicazione, con elusione del relativo rigoroso onere probatorio, quando la condanna al rilascio o alla consegna viene chiesta nei confronti di chi dispone di fatto del bene nell’assenza anche originaria di ogni titolo. In questo caso la domanda è tipicamente di rivendicazione, poiché il suo fondamento risiede non in un rapporto obbligatorio personale inter partes, ma nel diritto di proprietà tutelato erga omnes, del quale occorre quindi che venga data la piena dimostrazione” (Sez. Unite sentenza n. 7305/2014).

Raffaella Ascolese

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