Le vicende fiscali del sig. Rossi

Minelli Bruno 27/09/07
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Varie e variegate sono state le interpretazioni relative alla nota vicenda di Valentino Rossi e del Fisco Italiano. Sul problema degli italiani all’estero (fino a prova contraria), fin dal 1997,  il Ministero delle Finanze si è preoccupato di dare istruzioni ai propri Uffici, le attuali agenzie delle entrate,  al fine di verificare l’effettiva residenza   fiscale  in Italia, indipendentemente dalle risultanze  anagrafiche, al dichiarato scopo di contrastare fenomeni evasivi legati a casi di fittizia emigrazione all’estero di persone fisiche residenti, anche in presenza di cancellazione dall’Anagrafe della Popolazione Residente  e dall’iscrizione degli italiani residente all’estero.
Si paventava, già allora,  l’ indebito beneficio  del piu’ favorevole regime impositivo dello Stato estero, con la conseguenza di sottrarre   all’imposizione   progressiva   in Italia i complessivi redditi ovunque prodotti.      Esempio tipico, forse tra i più conosciuti, era quello di Montecarlo,  dove, non si sa se leggenda metropolitana o realtà, si raccontava che i cd “residenti”, di nazionalità italiana, avessero acquistato un’abitazione, al cui interno quotidianamente accedesse un loro incaricato per accendere luci, gas ed acqua. Si sarebbe così precostituita la prova dell’effettivo esercizio abituale ai fini abitativi dell’immobile (da parte del proprietario, se no chi altro?).
A tal fine il Ministero, disponeva:
1. Qualificazione dei soggetti residenti ai fini delle imposte sui redditi.        L’art. 2,  comma 2, del Testo Unico DPR n. 917 del 1986 stabilisce che  "ai fini delle imposte sui redditi si considerano residenti le persone che per   la maggior   parte   del  periodo d’imposta sono iscritte nelle anagrafi della popolazione residente   o   hanno nel territorio dello Stato il domicilio o la  residenza ai sensi del codice civile".                                        
          Pertanto gli   elementi che determinano la residenza fiscale in Italia sono:                                                                         
  – l’iscrizione nelle anagrafi comunali della popolazione residente;           
  – il   domicilio  nel territorio dello Stato, ai sensi dell’ art. 43, comma 1,   del codice civile;                                                          
  – la   residenza  nel territorio dello Stato, ai sensi dell’ art. 43, comma 2, del codice civile.                                                          
          Dal dettato   testuale   della norma emerge chiaramente che i predetti  requisiti sono    tra    loro    alternativi e non concorrenti: sara’ pertanto   sufficiente il   verificarsi   di   uno solo di essi affinche’ un soggetto sia  considerato fiscalmente residente in Italia.                                  
          Nelle ipotesi    in    argomento,    essendo  venuto meno il requisito   dell’iscrizione nelle     anagrafi     della     popolazione residente, assume   fondamentale importanza,   ai   fini  della qualificazione fiscale di soggetto   residente in  Italia, la verifica della sussistenza di almeno uno dei restanti  requisiti.                                                                    
          Al riguardo   si   evidenzia  che la cancellazione dall’anagrafe della  popolazione residente   e  l’iscrizione nell’anagrafe degli italiani residenti  all’estero (AIRE)   non   costituisce   elemento determinante per escludere il   domicilio o la residenza nello Stato, ben potendo questi ultimi essere desunti   con ogni   mezzo   di  prova anche in contrasto con le risultanze dei registri anagrafici (Cass. 17 luglio 1967, n. 1812; 20 settembre 1979, n.4829; 24 marzo 1983, n.2070; 5 febbraio 1985, n.791).                                        
        Da cio’   discende   che  l’aver stabilito il domicilio civilistico in Italia ovvero   l’aver fissato la propria residenza nel territorio dello Stato sono condizioni  sufficienti per l’integrazione della fattispecie di residenza fiscale, indipendentemente   dall’  iscrizione nell’anagrafe della popolazione residente.                                                                     
 
La tesi pubblica, per contrastare il fenomeno elusivo, era quella della valutazione, e del riscontro, del concetto civilistico  di “residenza”, dove cioè uno ha la dimora  abituale. Non solo in senso fisico ed oggettivo, volontaria dimora di una persona in un dato luogo, ma anche con riferimento ad un criterio soggettivo, volontà di rimanervi, in quanto la sussistenza di fatti univoci (affetti, residenze, etc) è essenza stessa dell’elemento oggettivo. Il concetto è che la residenza non viene meno per assenze più o meno prolungate.
 
Il caso di Valentino Rossi è emblematico: La strategia difensiva, almeno dalle prime dichiarazioni (tutti sanno che per almeno sette mesi all’anno sono all’estero), è quella di limitarsi all’assenza fisica dall’Italia per più dei canonici 183 giorni.
Ma il ragionamento ha un limite. Rimanendo nel campo delle corse, si pensi ad un professionista che in un anno partecipa a quaranta gran premi, di cui uno solo in Italia. Se, mediamente e per ognuno, deve stare sul posto una settimana, sarebbe  provato che per almeno duecentosettantre giorni non dimori in Italia. Quindi, se ci si limitasse al solo aspetto oggettivo, non dovrebbe pagare le tasse in Italia.
Se passasse questo concetto, (per assurdo) basterebbe dimorare quattro mesi all’anno in tre paesi diversi che abbiano legislazioni similari per essere escluso dalla tassazione in qualsiasi posto.
 
Peraltro, l’escamotage, che sembra abbiano trovato un paio di centinaia di migliaia di italiani, di avere la residenza, ma non il domicilio, in Inghilterra, non li aiuta ai fini della detassazione di rilevanti redditi.
Poichè non conosco gli atti di Valentino Rossi, se non per le indiscrezioni conosciute dalla stampa, nella disamina mi occuperò di un contribuente italiano, il cui archetipo è il sig,. Rossi (che chiamerò  Mario  per generalizzarlo e distinguerlo dall’arcinoto Valentino) che ha prodotto redditi in Inghilterra, oltre che in altre parti del mondo, ed è  residente a Londra, ma non vi è domiciliato.
La legge britannica dispone un distinguo fra coloro che sono residenti e domiciliati nel regno Unito e coloro che sono soltanto residenti. Ai primi è applicato il principio del cd worldwide incombe taxation,       tassazione di tutti i redditi ovunque prodotti, mentre ai secondi è richiesta la tassazione soltanto sui redditi prodotti in   quel paese.
Il sig. Rossi  (Mario) ha fatto un ragionamento troppo esemplificativo. Sono residente in Gran Bretagna, ho redditi per cento milioni di €, di cui un milione prodotti nello Stato nel quale risiedo. Tradotto, pago le imposte su un milione, mentre 99 milioni sono esclusi, e/o esenti e/o non imponibili da qualsivoglia imposta sui redditi.
Ma ciò cozza contro due principi basilari di una sorta di diritto sovraordinato tributario, secondo il quale le persone fisiche devono pagare per tutti i redditi prodotti (per l’italia, da lavoro, da capitale e fondiari) e lo devono fare una volta soltanto. Per questo, poiché i confini dei singoli casi della vita spesso sono sfumati, non sempre esattamente inquadrabili in fattispecie date,   e le varie legislazioni nazionali non sono completamente armonizzate, vigono i trattati internazionali, siglati proprio per evitare le doppie imposizioni. Per l’Italia e la Gran Bretagna, il trattato di Pallanza del 21/10/1988, ratificato con legge n° 329 del 5/11/1990, entrato in vigore il 31/12/1990.  Altri principi danno forza a questo enunciato. Le convenzioni prevalgono sulla legge nazionale, mentre nel caso in cui è previsto la dichiarazione di  redditi prodotti all’estero su cui sono state già versate imposte si consente lo scomputo di quanto pagato attraverso il meccanismo del credito d’imposta. 
E’ qui che Mario Rossi, se fosse famoso come il suo omonimo Valentino, non potrebbe sperare nell’appoggio neanche dei suoi fan più affezionati, perché, al di  la degli ipertecnicismi della complessa materia, è facilmente percepibile la stonatura dell’assunto della richiesta,  escludere dalla tassazione tutto il reddito non prodotto dentro le mura della Gran Bretagna. Non è, quindi, o se lo è, lo è in misura ridottissima, un problema di doppie imposizioni. L’Erario italiano non ha reclamato imposte che Mario Rossi ha versato presso lo stato estero, ma reclama imposte non versate in nessuna parte del mondo. Il principio dell’esclusione sulla base del gioco della residenza/non domicilio è risibile, perché va contro il principio già enunciato, certamente non codificato, ma generalmente accolto dagli ordinamenti vigenti e dalla loro interazione attraverso le convenzioni.
Né, come paventato, vi è bisogno, a mio parere, di un intervento della Corte di Giustizia Europea che non può far altro che ribadire i due principi cardini enunciati (tassazione dei redditi, ma una volta soltanto) senza condannare la legge inglese. Essa, per un particolare caso, si limita a attrarre nella competenza del proprio Erario gli imponibili ivi prodotti, ma ciò vuol dire soltanto che i redditi prodotti fuori dai propri confini non sono tassabili in Gran Bretagna. Ciò non significa che non possono esserlo altrove.
L’autocertificazione del non domicilio in Gran Bretagna, legittima, anche nei confronti del sig.  Rossi, il quesito: ma allora dove è domiciliato? Per la legge italiana, art. 43 del codice civile, comma 1, il domicilio è nel luogo in cui uno ha stabilito la sede principale dei suoi affari ed interessi.
Vero è che la Gran Bretagna non è stata inclusa (dm 4/05/1999, art. 1) in quegli stati aventi un regime fiscale privilegiato, nel qual caso si sarebbe formata una presunzione legale non assoluta di residenza in Italia (salvo prova contraria a carico del contribuente), e che quindi è l’Erario Italiano a dover dimostrare la soggettività passiva  del contribuente, ma, come si è detto, basta uno dei seguenti requisiti per farla scattare:
–         iscrizione nei registri anagrafici (si è conclamata l’esclusione),
–         domicilio,
–         residenza.
Già si è detto che il concetto di residenza non deve essere un mero computo di giorni effettivamente trascorsi in Patria, come acutamente osservato dalla Cassazione (sent. n° 1738/1986):
Cosicché l’abitualità della dimora permane qualora il soggetto lavori o svolga altre attività al di fuori del territorio dello stato, purchè conservi in esso l’abitazione, vi ritorni quando possibile e mostri l’intenzione di mantenervi il centro delle proprie relazioni familiari e sociali.
Così per il domicilio, che per la legge italiana è il luogo dove la persona ha stabilito la sede principale degli affari e degli interessi.
Non spetta, quindi, all’Agenzia un computo numerico dei giorni trascorsi in qualsivoglia  sito italiano; mentre il diritto tributario italiano, in materia di accertamento,  è essenzialmente fondato su presunzioni.
Se i fatti  e le circostanze contestate sono ragionevolmente sostenibili, la posizione del sig. Rossi si aggrava, proprio perché non può dare la prova principe che lo metterebbe al riparo dagli accertamenti miliardari che si paventano, la tassazione di tutti i suoi redditi nel paese straniero. Se al nostro sig. Rossi, a prescindere  dai dati dei registri anagrafici, venisse contestata sia la residenza che il domicilio in Italia (per la tassazione, ne basterebbe uno solo), la prova diventa un cerino. Passando di mano, dovrà essere il contribuente a smontare la tesi della parte pubblica. Più gli addebiti saranno ragionevoli, più difficile sarà smontare la residenza (art. 43, 1 c), ma ancora più difficile sarà smontare il domicilio (art. 43, 2 c), proprio perche’ il sig. Rossi ha dichiarato di non essere domiciliato in Gran Bretagna e, per questo,  ha versato imposte  soltanto per i  redditi  ivi prodotti. Ma una domanda sorge spontanea: dove crede il sig. Rossi di tassare gli altri 99 milioni di €? Dovrà allora indicare quale sito catalizza i suoi interessi, dove non soltanto gli amici ed i familiari possono ragionevolmente trovarlo, ma anche dove le aziende che sono, o vorrebbero entrare, in rapporto di lavoro con lui, possono, alla bisogna, raggiungerlo. Non è semplice, allora, rispondere a posteriori la Gran Bretagna, proprio perché ivi non domiciliato. Anzi, se esistesse anche nel Regno Unito una legislazione antielusiva,  insistere sul punto potrebbe scatenare gli agenti delle tasse britannici, sul presupposto dell’effettivo domicilio, al fine della tassazione del reddito ovunque prodotto (sui cento milioni, invece che sul milione).
 
Un consiglio al sig. Mario Rossi? Tentare la strada dell’accertamento con adesione di cui al dlg n° 218/1997. Fare, cioè, una transazione con il Fisco Italiano, come fanno tanti contribuenti italiani che chiedono alle locali agenzie di rivedere i propri atti impositivi sulla base di un contraddittorio, possibilmente supportato da prove documentali, al fine di far emergere l’eccesso dell’imponibile accertato.
Nel caso del sig. Rossi, il lavoro di intelligence che ha prodotto gli accertamenti è stato mirato alla ricerca dei proventi non dichiarati. Ma il reddito, per definizione,  è dato dalla differenza tra compensi percepiti e spese afferenti. Andrebbero, quindi, prodotte le spese che hanno concorso alla produzione del reddito. Vero è che per la legislazione italiana le prove devono essere analiticamente dettagliate, meglio se riportate nelle scritture contabili; ma un professionista, che si ritiene escluso dal dichiarare il reddito di lavoro autonomo, non istituisce neanche i libri contabili. C’ è però il principio costituzionale, art. 53, del pagamento delle tasse in modo progressivo ed in ragione della propria capacità contributiva, che vuol dire la tassazione diretta (irpef) sul reddito (compensi meno spese) e non sui soli compensi. In questo senso, la Consulta ha dichiarato legittimo l’abbattimento forfetario dai compensi accertati; nel caso del sig. Rossi, si potrà ipotizzare una incidenza percentuale sul reddito delle spese di produzione.
Ancora. Si può dimostrare che certi compensi,  in realtà, non sono stati percepiti, in tutto o in parte. Che, come ad esempio per i redditi britannici, sono state pagate imposte, e, quindi, spetta il credito in detrazione. Che alcuni ingaggi e/o sponsorizzazioni sono stati corrisposti al netto di ritenute. Bisognerà, allora, vedere la società che ha versato, e di quale paese fosse. Vedere le convenzioni, possibile che in particolari ipotesi l’Italia e questo Stato abbiano statuito che certi compensi siano sottoposti a ritenuta secca alla fonte. Nel qual caso, il compenso andrebbe tolto.
E così via, fino alla rideterminazione dell’imponibile, su cui calcolare le imposte, con l’effetto premiale della riduzione ad un quarto della sanzione tributaria, ed, eventualmente, della caducazione, o attenuazione, delle sanzioni penali.
Per i più, sarebbe incomprensibile come da cento milioni si possa scendere di oltre la metà, ma tecnicamente è sostenibile.
E Valentino? Cosa farà? Dopo il 15 settembre, avrà sessanta giorni per decidere.
 
Bruno Minelli
 

Minelli Bruno

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