Le “nuove” società tra professionisti

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Sommario: 1. Introduzione: rivoluzione copernicana nell’ambito delle professioni intellettuali ? . 2. L’ambito soggettivo ed oggettivo di applicazione delle nuove “società professionali”. 3. Distinzione da altri fenomeni associativi o societari tra professionisti. 4. Società tra professionisti come società <<di diritto speciale>>. 5. Lo statuto societario puro: inquadramento generale. 6. (Segue): l’esame dei singoli requisiti. 7. Lo statuto dell’attività professionale. 8. Lo statuto dell’attività. 9. Conclusioni. (*)

 

1. Introduzione: rivoluzione copernicana nell’ambito delle professioni intellettuali ? . L’art. 10, terzo comma e ss. l. 12 dicembre 2011, n. 183 [Legge di stabilità per il 2012: d’ora innanzi, l. 183/11] contiene, nel contesto del secondo intervento attuato in materia di professioni nell’arco di pochi mesi quella che, a prima vista, sembra rappresentare una vera e propria rivoluzione copernicana; vale a dire, il riconoscimento esplicito della possibilità, per i professionisti, di costituire, ai limiti e con l’osservanza delle previsioni dettate dallo stesso art. 10 l. 183/11, società per l’esercizio in comune della professione intellettuale. Opportuno appare, peraltro, attesa la molta confusione esistente anche tra gli operatori pratici, evocare – come faccio a lezione per i miei studenti – subito una serie di esempi chiari e semplici, pur rinviando infra l’approfondita discussione dei rapporti tra tale nuova figura ed i fenomeni, associativi e societari tra professionisti, ammessi e reputati leciti in passato: quindi, si pensi, oltre che alle società tra avvocati – unico tipo sicuramente ammesso e regolato dal d.lgs., 96/01 – ad una società tra medici per l’esercizio in comune della professione medica; ad una società tra ingegneri o architetti per l’esercizio in comune della professione ingegneristica o di architetto; ad una società tra commercialisti per l’esercizio in comune della professione di commercialista.

Tale recentissima normativa solleva, tuttavia, una pluralità di problemi relativi non solo al piano della mera esegesi delle nuove disposizioni – che, come ormai consueto nell’esperienza giuridica italiana, risentono di un pessimo drafting (i.e.: tecnica di redazione e scrittura delle norme), al quale non ha sicuramente recato giovamento il contesto emergenziale nel quale la l. 183/11 è stata approvata – ma, altresì, di coordinamento sistematico della nuova figura di “società tra professionisti” o “società di esercizio professionale” così introdotte; aspetto, questo, che già ad una prima lettura appare costellato di (poche) luci e (molte) ombre.

 

2. L’ambito soggettivo ed oggettivo di applicazione delle nuove “società professionali”. Come sempre davanti ad un nuovo testo normativo, ritengo, preliminarmente, necessario definirne con precisione l’ambito applicativo. Mi sembra, al proposito, opportuno evidenziare come, per le nuove società tra professionisti, tale problema riguardi essenzialmente due profili: a) il primo, direi soggettivo, dei soggetti ammessi alla costituzione di società tra professionisti per l’esercizio in comune della professione intellettuale; b) il secondo, se si vuole in qualche misura oggettivo, dei tipi di società mediante i quali l’art. 10, terzo comma, l. 183/11 consente tale esercizio in comune.

Muovendo dal primo profilo, a) l’art. 10, terzo comma, l. 183/11 è chiarissimo nell’individuare i professionisti intellettuali ammessi alla costituzione di società per l’esercizio in comune della propria professione nei soli professionisti “protetti” o, come altrimenti si dice, “riservati”; tanto emerge con estrema chiarezza nel riferimento – dalla dicitura, peraltro, davvero pessima sotto il piano formale – di “attività professionali regolamentate nel sistema ordinistico”; in breve, di professioni per le quali sia già stato costituito un vero e proprio ordine professionale.

Appare, quindi, evidente l’impatto sistematico della nuova normativa: con effetto dal prossimo 1° gennaio 2012, essa abroga, infatti, l’art. 1 r.d.l. 1815/1939 che, fino all’agosto 1997 insieme all’art. 2 dello stesso decreto, obbligava, da un canto, i professionisti intellettuali ad operare in forma associata mediante la figura dello studio professionale ivi prevista – nel contempo escludendo qualsiasi altra forma associativa per l’esercizio della professione – e, letto unitamente al principio della rigida personalità della professione intellettuale ex art. 2232 c.c. ed al connesso regime di responsabilità civile personale e diretta del professionista, escludeva, dall’altro canto, con altrettanta chiarezza, la possibilità dell’esercizio in comune della professione da parte dello studio e, quindi, la possibilità che lo studio assumesse incarichi e prestasse attività professionale, sotto pena di nullità del contratto e di perdita (art. 2231) del diritto al compenso.

Sorge, tuttavia, il primo problema. In base all’attuale formulazione della disposizione, invero, sono sicuramente esclusi dalla possibilità di costituire società tra professionisti soggette allo speciale regime normativo della art. 10, l. 183/11, i c.d. professionisti non protetti; vale a dire, quelli per i quali non esista ancora un albo pubblicistico a motivo della recente introduzione dello stesso tipo di attività professionali. E si pensi, sempre per tornare agli esempi introduttivi, al consulente pubblicitario ovvero all’esperto di ricerche sul mercato. Se è vero che, con posizione confermata anche dalla Corte cost., a tali professionisti non si applicava il divieto di costituire società per l’esercizio in comune della propria attività e non era, di conseguenza, impedita né la costituzione di società di tal tipo né l’assunzione di incarichi da parte di tali enti, non è meno vero che, nell’optare per tale organizzazione della propria attività, il professionista non protetto si poneva – e, in base alle nuove norme, si pone – automaticamente al di fuori dell’ambito della professione. Ed invero, la società per l’esercizio in comune della consulenza pubblicitaria a) conclude contratti di appalto di servizi e non più contratti d’opera; b) produce un servizio e non svolge più un attività professionale; c) ergo, perde la qualità di professionista – con la connessa esenzione dallo statuto, generale e speciale, dell’imprenditore accordata a tutti i professionisti dall’art. 2238 c.c. e diventa un semplice imprenditore commerciale. Anche nel rinnovato contesto, quindi, posso con sicurezza affermare che, in tanto il professionista non protetto conserverà la qualifica di professionista a tutti gli effetti, in quanto svolga, esclusivamente in forma individuale e non mediante strutture societarie, la propria attività.

Identica delimitazione deve essere operata b) anche sul piano c.d. oggettivo sopra anticipato; vale a dire, in ordine ai tipi di società che i professionisti protetti possono utilizzare per l’esercizio in comune della propria attività.

Anche su tale punto, infatti, l’art. 10, terzo comma, l. 183/11 sembrerebbe operare un rinvio amplissimo: <<i modelli societari regolati dai titoli V e VI del libro V del codice civile>>; in una, tutti i tipi di società, di persone e di capitali (titolo V), nonché cooperative (titolo VI) previste dalla disciplina nazionale. Non è, tuttavia, fatto rinvio alle società c.d. consortili ex art. 2615 ter c.c.; in una, alle società – anche qui, di tutti i tipi, esclusa la società semplice – che abbiano ad oggetto gli scopi di un consorzio e, dunque, la creazione della c.d. comune organizzazione per l’esercizio di fasi delle imprese dei singoli consorziati. Se il motivo della esclusione appare, in effetti, intuitivo – atteso il carattere intrinsecamente commerciale e non professionale dell’attività svolta dalle società consortili ed il suo evidente contrasto con la professione intellettuale – ne consegue che, ai fini degli appalti di servizi con la p.A., i professionisti non potranno, come invece consentito in generale a tutti gli altri operatori economici, avvalersi della possibilità di costituire, dopo l’aggiudicazione dell’appalto, società consortili per l’esecuzione dello stesso.

 

3. Distinzione da altri fenomeni associativi o societari tra professionisti. Fino a questo punto abbiamo ragionato in termini di delimitazione della fattispecie delle nuove società tra professionisti. Occorre, invece, adesso addentrarci all’interno di tale nuova figura, in primo luogo per consentirne una distinzione – nella mia prospettiva: assolutamente essenziale – rispetto ad una pluralità di fenomeni associativi – e, si badi, anche societari – tra professionisti ben noti alla pratica anteriore all’introduzione della riforma ma non riconducibili affatto alla società per l’esercizio professionale prevista dall’art. 10, terzo comma e ss., l. 183/11.

Da tale punto di vista, è necessario porre in rilievo come, con la costituzione di società per l’esercizio in comune della professione intellettuale, i professionisti diano vita ad un nuovo ente che assume esso stesso la qualità di professionista. Ed invero, le società ex art. 10, terzo comma, l. 183/11 possono, previa la loro iscrizione all’albo professionale di riferimento, a) esercitare attività professionale, b) concludere contratti di opera professionale (assunzione c.d. di incarichi), obbligandosi al compimento della relativa prestazione professionale; c) maturare, in forza della prestata attività il diritto al compenso; d) infine, rispondere dei danni nei confronti dei clienti in caso di negligenze nella esecuzione della prestazione professionale.

Riguardata in tale angolo visuale, quindi, è sicuramente certo che, con la sola eccezione degli avvocati e della loro (speciale) società in nome collettivo regolata dal già richiamato d.lgs., 96/01, la nuova normativa segna un passo in avanti deciso: ed invero, essa supera il previgente regime di assoluta chiusura all’esercizio in comune – i.e.: mediante strutture societarie – delle professioni intellettuali, quali si desumeva dagli artt. 1 s. r.d.l., 1815/1939 e dall’art. 2332 c.c. Ma non è meno vero, peraltro, che la nuova normativa non apporta alcuna modifica a quei fenomeni associativi tra professionisti diffusisi nel mondo delle professioni e reputati universalmente legittimi e leciti sul presupposto che non vi fosse – e, nel nuovo contesto, non vi sia – affatto una società tra professionisti. E di fenomeni, si badi, dei quali la l. 183/11 tiene conto, ancorché indirettamente, la dove prevede che <<restano salvi i diversi modelli societari e associativi già vigenti alla data di entrata in vigore della presente legge>> (art. 10, nono comma, l. 183/11); norma, questa, che consente di ritenere assolutamente legittimo il ricorso a tali fattispecie ma che, nel contempo, ne evidenzia (<<i diversi modelli>>) l’assoluta estraneità – già desunta dalla migliore dottrina e giurisprudenza – al fenomeno della società tra professionisti.

Volendo, a questo punto, operarne una ripartizione, occorre evidenziare come, in taluni casi, a) non vi sia affatto una società; e, in altri, pur esistendo una società questa abbia un oggetto diverso.

Non vi è, infatti, un rapporto a) di società, innanzitutto, nel 1) mandato professionale c.d. congiunto: qui, due o più professionisti si obbligano a prestare, per conto dello stesso cliente, un servizio professionale. E’ vero, quindi, che l’attività dei singoli dovrà certamente coordinarsi onde assicurare al cliente il relativo servizio; ma non è meno vero che non vi è alcun rapporto associativo tra i professionisti – difettandone tutti gli elementi e, in particolare, l’esercizio in comune della professione, come tale imputato, mediante la spendita del nome dell’ente, prima al gruppo e, solo in termini di risultati, ai singoli – e, quindi, i professionisti presteranno sulla base di rapporti contrattuali diversi – e, in via di principio, neppure avvinti dal vincolo della solidarietà – la propria attività. Così, la responsabilità potrà imputarsi solo ad uno dei professionisti e non all’altro, ove solo al segmento di attività da questo svolta si manifesti una negligenza; del pari, potrà accadere che il rapporto sia valido solo per uno dei professionisti ma non non per l’altro (esempio: uno è iscritto all’albo e l’altro no). E ciò pure quando il rapporto tra i professionisti presenti carattere stabile, dando luogo all’affidamento di una pluralità di incarichi congiunti.

Non vi è, similmente, un rapporto di società nell’ipotesi del c.d. 2) studio professionale ex r.d.l. 1815/1939. Ed invero, tale figura associativa – e, meglio sarebbe dire, plurilaterale – promana direttamente dalla società c.d. civile prevista dagli artt. 1697 ss. c.c. 1865; dunque, uno schema meramente obbligatorio, riconducibile essenzialmente ad una comunione di acquisti, per un verso, ed al conferimento di un mandato senza rappresentanza nei confronti dei terzi, per altro. Era così naturale che, nel vigore della l. 1815/1939, allo studio fosse inibita, sotto pena di nullità, l’assunzione di incarichi professionali: oltre alla mancata iscrizione dello studio in se e per se considerato all’albo, infatti, decisiva ad escludere tale possibilità era l’ulteriore circostanza che tale schema si riducesse ad un rapporto obbligatorio tra gli associati e non desse luogo alla costituzione di un nuovo ente. Espressivo di tale tendenza appare, in ogni caso, l’art. 34, terzo comma, d.lgs., 96/01, ove viene espressamente previsto il divieto – da reputare di portata generale non solo per lo studio ivi previsto, ma, altresì, per tutte le ipotesi di studio professionale tra avvocati e, inoltre, tra professionisti in genere – di assunzione di incarichi. Vero è, comunque, che, in un sistema in cui la soggettività giuridica viene attribuita anche ad enti auto-costituitisi al di fuori di ogni controllo della pubblica autorità – e si pensi all’associazione non riconosciuta ed ai comitati, oltre che alle società di persone – ed è, quindi, sufficiente la spendita del nome del soggetto collettivo per porre un problema in termini di personalità dello stesso, la giurisprudenza ha finito con il riconoscere anche agli studi professionali un minimo di soggettività giuridica, ritenendo – orientamento oramai costante della Suprema Corte – che gli stessi possano concludere acquisti immobiliari ed essere, dunque, titolari di beni immobili.

In altri casi, invece, una società esiste b) ma non può essere considerata una società tra professionisti in quanto la stessa ha un oggetto sociale – e, dunque, un istituzionale ambito di attività – diverso dalla professione ed alla stessa non riconducibile.

In tale prospettiva, meritano di essere ricordati, in primo luogo, le c.d. società di mezzi tra professionisti; vale a dire, le società che hanno ad oggetto la creazione e gestione di un apparato materiale di beni e servizi mediante il quale i professionisti intellettuali esercitano, nel rispetto delle norme professionali, individualmente la propria professione. E si pensi, ad esempio, alla società che compra o acquista un immobile, assume i dipendenti, compra le poltrone dentistiche e tutti gli altri materiali al fine di consentire ai propri soci – tutti dentisti – di svolgere, sulla base di un rapporto di locazione e/o comodato della struttura concluso con la società, la professione di dentista. Ente, questo, di cui è, peraltro, pacifica la qualificazione come imprenditore commerciale e, dunque, la possibilità di applicazione del relativo regime, incluso il fallimento e le altre procedure concorsuali.

Identica, anche per ciò che concerne il riconoscimento della qualità di imprenditore commerciale, è, inoltre, la posizione delle società c.d. di servizi complessi; categoria, questa, amplissima ed idonea a comprendere non solo le società di diritto speciale espressamente previste – e si pensi, ad esempio, alle società di engeenering ex art. 10 l. 109/94 – ma, altresì, a quelle non previste per legge – che furono le prime ad essere “elaborate” dalla giurisprudenza della Cassazione – e, infine, alle società interprofessionali ex art. 2 l. 248/06. In tali casi, infatti, la società non esercita attività professionale in quanto presta un servizio complesso, che rappresenta non già la somma dei servizi resi dai singoli professionisti o, al limite, che coincida con l’attività di un singolo professionista; in effetti, essa integra tali prestazioni – tutte rese da professionisti abilitati – nel contesto di una unica prestazione che le supera e che si connota per un quid pluris aggiunto alle singole prestazioni professionali. Caso classico: la società di engeenering non si limita solo a progettare l’impianto o l’opera oggetto del contratto – prestazione che si risolverebbe in quella dell’ingegnere – ed a curare gli aspetti legali di tale attività – con prestazioni che rientrano nell’ambito della professione di avvocato – ma, ulteriormente, verifica la fattibilità dell’opera; ne cura il finanziamento, anche mediante la ricerca di investitori (prestazione sicuramente non professionale). E’ proprio il carattere della progettazione c.d. “chiavi in mano” a segnare, dunque, la differenza rispetto ad una società tra professionisti, prima vietata ed ora consentita nel rispetto delle previsioni dell’art. 10 l. 183/11.

 

4. Società tra professionisti come società <<di diritto speciale>>. A questo punto, credo che dovrei, già solo per cortesia istituzionale, smettere di tediarvi con questi miei appunti, così che inizio con il rinviare, per ulteriori approfondimenti, ad un mio predisponendo contributo.

L’importanza della modifica introdotta dall’art. 10 l. 183/11 mi impone, tuttavia, un breve esame dello <<statuto>> delle nuove società tra professionisti; in una, della particolare disciplina per esse prevista dal legislatore ovvero ricavabile dal coordinamento sistematico delle nuove norme con regole e principi tradizionali. In tale prospettiva, quindi, non credo sia fuori luogo discorrere, anche per tale nuova figura, di una – ennesima – ipotesi di <<società di diritto speciale>>; e ciò sotto i tre concorrenti profili 1) dello statuto societario puro; 2) dello statuto “professionale”, inteso come insieme di regole per l’esercizio della professione; 3) infine, di statuto per la disciplina dell’attività.

 

5. Lo statuto societario puro: inquadramento generale. Muovendo dallo statuto del soggetto, invero, le società tra professionisti previste dall’art. 10 l. 183/11 si caratterizzano per una marcata specialità della disciplina loro applicabile rispetto ai tipi societari pur richiamati ed utilizzabili per costituirle. Requisiti, questi, che, in una qualche misura, riprendono quelli già previsti dal d.lgs., 96/01 per le società tra avvocati – la cui disciplina si caratterizzava per una certa cura, senz’altro risalente all’apporto dato nella scrittura di quel testo normativo dal Prof. Gian Franco Campobasso – ma che, vuoi per la fretta nella predisposizione del testo normativo, vuoi per la decadenza della qualità legislativa sotto gli occhi di tutti gli studiosi ed operatori pratici, si presentano piuttosto pasticciati e che mi sembrano richiedere, al più presto, un nuovo intervento da parte del patrio legislatore.

Appare, quindi, piuttosto fuori luogo l’affermazione – contenuta nella Relazione tecnica alla l. 183/11 – secondo la quale la possibilità di costituire società tra professionisti comporta un riallineamento del <<settore ai restanti Paesi europei>>. Ed infatti, se si guarda al diritto comparato, i due modelli più diffusi sono, da un canto, la previsione di un unitario tipo di società tra professionisti ad hoc, come tale destinatario di regole speciali e nelle quali il rinvio al diritto generale delle società è, solitamente, rivolto al tipo “civile” e non già “commerciale” di tale contratto: si pensi, in questa prospettiva, alla c.d. Partnerschaftsgesellschaft tedesca, introdotta nel 1994 dalla c.d. Partnerschaftsgesellschaftsgesetz (PartGG); o, ancora, alle c.d. sociedades profesionales, previste dalla Ley spagnola, n. 2007/2; o, infine, alle c.d. Alternative Business Structures (in sigla: ABS) introdotte nel diritto inglese con il Legal Services Act (2007). Altri ordinamenti preferiscono, dall’altro canto, un diverso sistema nel quale consentono il ricorso ai tipi commerciali di società, ma sottopongono l’ente per l’esercizio in comune della professione intellettuale ad un corpus conchiuso di norme, di maggior analiticità e superiore chiarezza rispetto alle disposizioni dell’art. 10 l. 183/11, nel quale il rinvio alla disciplina generale delle società è contenuto nei limiti dell’assenza di previsione normativa esplicita nel testo di legge: e si pensi, per il diritto comunitario, all’esperienza francese delle societés d’exercise libéral (c.d. SEL) consentire dalla loi, 31 dicembre 1990 – qualificate espressamente dalla letteratura come “società commerciali specifiche” – o, ancora, alle c.d. professional corporations del diritto statunitense.

In buona sostanza, la disciplina nazionale sembra mancare di quel grado, pervero necessario, di organica regolamentazione delle società tra professionisti che l’adesione al secondo tipo di impostazione diffusa sul piano comparato avrebbe invee richiesto per impedire una serie di problemi.

 

6. (Segue): l’esame dei singoli requisiti. Il mio convincimento cresce ove si passi da una prospettiva generale all’esame dei singoli requisiti previsti per le società tra professionisti; condizioni, queste, che, oltre tutto, si presentano in molti casi esse stesse discutibili per la disciplina che dettano ai fini dell’operatività dell’ente collettivo.

Innanzitutto, è ben possibile che la società tra professionisti non solo nasca per tale attività ma venga, mediante l’inserimento delle necessarie clausole statutarie in sede di modifica, a questa riconvertita. L’art. 10, quarto comma, l. 183/11 prevede, infatti, espressamente che <<possono assumere la qualifica di società tra professionisti le società il cui atto costitutivo preveda>> i requisiti di seguito elencati, senza necessità di una vocazione ab origine dell’ente all’attività professionale.

Tra i requisiti, rientrano:

a) l’esercizio in via esclusiva dell’attività professionale da parte dei soci: solo i soci possono operare per conto della società, provvedendo all’esecuzione degli incarichi professionali assunti. Tale vincolo esclude, per espressa previsione dello statuto, la possibilità di affidare l’esecuzione di incarichi a terzi non soci, ma non preclude affatto il ricorso al c.d. mandato congiunto, tra società di professionisti o tra queste e singoli professionisti.

Vero è, piuttosto, che, ad onta di quanto potrebbe pensarsi, tale previsione statutaria non comporta affatto che la società debba avere un oggetto sociale esclusivo. Al proposito, l’art. 10, quarto comma, l. 183/11 prevede espressamente che <<La società tra professionisti può essere costituita anche per l’esercizio di più attività professionali>>, così chiaramente facendo intendere che, con il limite che si tratti di tutte attività professionali – il mancato rispetto del quale dovrebbe essere rilevato, prima che dall’ordine, dal notaio in sede di stipula del contratto sociale – sarà possibile la creazione di società professionali c.d. multidivisionali.

b) la partecipazione riservata alla società: l’art. 10, quarto comma, lett. b), l. 183/11 consente la partecipazione in società tra professionisti esclusivamente a 1) <<professionisti iscritti ad ordini, albi e collegi>> ovviamente italiani; 2) <<cittadini degli Stati membri dell’Unione europea, purché in possesso del titolo di studio abilitante>> e non dell’abilitazione professionale richiesta per l’esercizio, in Italia o nel paese di provenienza, della professione; 3) <<soggetti non professionisti soltanto per prestazioni tecniche, o per finalità di investimento>>.

Tale ultimo inciso rappresenta il punto di maggior criticità della nuova disciplina. Rompendo con la soluzione normativa recepita per la società tra avvocati e con le indicazioni emergenti da una parte degli ordinamenti stranieri (in particolare, Stati Uniti; in Europa, Germania e Spagna), essa consente la partecipazione anche di soggetti non abilitati, allorquando sia motivata per finalità di investimento; in buona sostanza e considerato che non è prevista né una misura dell’investimento né una forma dello stesso – ad esempio, mediante specifici strumenti finanziari; azioni o quote non votanti – sulla sola base della auto-dichiarazione resa dal socio “di capitali” sulla finalità di investimento della partecipazione nella società tra professionisti. E ciò anche quando – a differenza della esperienza francese delle SEL – tale partecipazione sia di maggioranza.

c) norme statutarie sull’esercizio della professione: se tale aspetto è solo abbozzato per un rinvio – esso stesso problematico, per problemi di legittimità e di competenza – ad un regolamento del Ministro della Giustizia (art. 10, decimo comma, l. 183/11), viene riproposta la stessa soluzione già adottata dagli artt. 18 ss. d.lgs., 96/01 per le società tra avvocati. Lo statuto deve, quindi, prevedere e, in concreto, è necessario che 1) la prestazione sia resa dai soli professionisti titolati; 2) il diritto di scelta di uno specifico professionista da parte del cliente; 3) in difetto, obbligo di indicazione da parte della società del professionista incaricato.

d) le <<modalità di esclusione dalla società del socio che sia stato cancellato dal rispettivo albo con provvedimento definitivo>>. Indicazione, questa, pesantemente problematica ma per il cui esame rinvio al già richiamato articolo.

e) Mono-partecipazione: è possibile la partecipazione ad una sola società tra professionisti (art. 10, sesto comma, l. 183/11): in tal caso, tuttavia, il legislatore non comprende che, se per le società tra avvocati tale limite sostituisce il divieto di concorrenza ex art. 2301 c.c., sanzionandolo con la nullità, negli altri tipi di società tale divieto non ha nessun senso, sia per la pluralità di tipi eligibili che per il suo ambito generale di applicazione. E del pari incomprensibile mi appare il rinvio al regolamento contenuto nell’art. 10, decimo comma, l. 183/11.

f) denominazione sociale [con l’indicazione obbligatoria di “società tra professionisti”].

Né può, da ultimo, trascurarsi il problema del silenzio del legislatore sulla disciplina internazionalprivatistica delle società tra professionisti. Se, infatti, non può esservi alcun ostacolo all’esercizio in Italia delle professioni da parte di soggetti societari comunitari a tanto abilitati nei reciproci ordinamenti – e, dunque, in concorrenza rispetto al nuovo tipo nazionale – mi sembra, altresì, che a) certamente, i professionisti italiani possano partecipare – anche totalitaria – ad enti societari comunitari abilitati all’esercizio di professioni intellettuali, in tal senso deponendo le Direttive sulla libera circolazione dei professionisti all’interno dell’Unione e lo stesso diritto di stabilimento previsto dal Trattato; non riterrei, invece, b) possibile l’impiego di tipi societari comunitari diversi da quelli abilitati a tal fine nei singoli ordinamenti nazionali per lo svolgimento in Italia di attività professionali (esempio: limited inglese utilizzata per l’esercizio della professione legale o medica in Italia); mi sembra, infine, sicuramente non consentito c) a soggetti societari extracomunitari, salvi i trattati, l’esercizio delle professioni intellettuali in Italia.

 

7. Lo statuto dell’attività professionale. Dove le perplessità aumentano, invece, è per quanto riguarda lo statuto ai fini dell’esercizio professionale.

Certamente, la società tra professionisti è obbligata ad iscriversi all’albo ai sensi dell’art. 10, settimo comma, l. 183/11; ed iscritto all’albo deve essere anche il singolo professionista c.d. “operativo”. Nell’uno come nell’altro caso, è chiara la conseguenza di una eventuale mancanza della iscrizione: nullità del contratto di opera professionale; perdita del diritto al compenso. E funzionale all’iscrizione all’albo è anche la previsione che assoggetta la società alle stesse norme deontologiche previste per il professionista persona fisica (art. 10, settimo comma, l. 183/11) e che, inoltre, equipara, ai fini della responsabilità c.d. disciplinare, la società al singolo (sempre, l’art. 10, settimo comma, l. 183/11); norma, questa, di difficile – se non impossibile – applicazione, ove si tenga conto della natura impersonale dell’ente.

Ma altri sono i problemi.

Mi sembra, in primo luogo, forse possibile l’iscrizione della stessa società a più albi professionali. Ed invero, la previsione di società tra professionisti multidivisionali sarebbe priva di senso se l’ente “multi-professionale” non potesse iscriversi in ciascuno degli albi a cui sono iscritti i suoi soci. In buona sostanza, sulla forma – possibilità di una unica iscrizione per le persone fisiche – mi sembra necessario far prevalere la sostanza, così consentendo alle società con oggetto professionale plurimo l’iscrizione in più albi.

Preoccupante appare, infine, la mancata previsione di un regime di responsabilità civile per negligenze nell’esercizio della professione intellettuale; punto, questo, che ha sempre costituito il profilo maggiormente problematico e di maggior resistenza alla previsione generale di società tra professionisti. Prova ne sia la circostanza che l’art. 26 d.lgs., 96/01 espressamente disciplina tale aspetto (obbligazione solidale società / professionista incaricato) e che lo stesso costituisce, sul piano comparato – e si pensi alle norme, severissime in materia, dettate per le professional corporations statunitensi – uno dei capisaldi della regolamentazione delle società tra professionisti.

Sul punto, mi sentirei di sostenere, per i tipi societari personali ed in considerazione della natura speciale dello stesso, la possibilità di estensione analogica dell’art. 26 d.lgs., 96/01 non solo alle società tra avvocati costituite in base alla nuova disciplina ma, altresì, a tutte le società tra professionisti (di persone); ma, con altrettanta sicurezza, ritengo di escludere un siffatto regime – con il contestuale affidamento di tale compito ad una delicata applicazione della c.d. induzione all’inadempimento e del concorso della responsabilità contrattuale (della società) con quella extracontrattuale (del professionista incaricato) – per le società di capitali, evidenziando come sia questo uno degli argomenti su cui più urgente è un ritorno del legislatore.

 

8. Lo statuto dell’attività. L’esame delle modalità di esercizio dell’attività professionale non consente, peraltro, di esaurire il profilo inerente la disciplina dell’attività svolta dalle società tra professionisti. Punto, questo, in ordine al quale va, innanzitutto, precisato che siamo in presenza di una c.d. società senza impresa: cioé, costituita per l’esercizio di una attività sicuramente economica quale la prestazione della professione intellettuale e, come tale, destinataria di tutte le norme sulle società, con le modifiche rese necessarie dalla disciplina speciale sopra esposta; ma che, come ben consentito dall’art. 2247 c.c., non è sottoposta alla disciplina dell’impresa – né può, essa stessa, considerarsi imprenditore – in quanto non esercita, per espressa disposizione della legge, una attività imprenditoriale ma una professione intellettuale (art. 2238 c.c.).

Non è, però, possibile concludere in maniera netta l’esame di tale punto aderendo alla conclusione che siamo in presenza di una struttura societaria il cui statuto è, per definizione, <<non imprenditoriale>>. Ferma restando, infatti, la tendenziale esclusione della disciplina dell’impresa, sono in ogni caso applicabili alle società tra professionisti tutta una serie di istituti dello statuto generale degli imprenditore e, altresì, dello statuto speciale dei soli imprenditori commerciali.

Esigenze di tempo mi impediscono, in effetti, di analizzare con l’ampiezza dovuta tale aspetto, sicché dovrò procedere per esempi. Quanto allo statuto generale dell’imprenditore, quindi, sicuramente applicabile risulterà la normativa antitrust, interna e comunitaria, come già avviene per tutti i professionisti intellettuali ed i lavoratori autonomi. Con riferimento allo statuto speciale dell’imprenditore commerciale, inoltre, il silenzio legislativo ed il carattere onnicomprensivo del rinvio alle norme sulle società imporrà a tali enti la necessaria tenuta delle scritture contabili ex artt. 2214 ss. c.c.; e, altresì, l’iscrizione presso il Registro delle Imprese, sicuramente nella sezione speciale per le società tra professionisti ma, quando l’ente sia soggetto, come per le società di capitali, a pubblicità costitutiva, anche nella sezione ordinaria.

 

9. Conclusioni. In tale contesto, quindi, ritengo che l’intervento del legislatore vada guardato come un primo passo, sicuramente abbisognevole di ritocchi e modifiche, anche importanti, ai fini dell’apertura del mondo delle professioni alle società. (*)

 

 

*Testo della relazione tenuta al convegno “Il futuro della professione dopo le recenti modifiche normative”, svoltosi ad Isernia il 16 dicembre 2011 ed organizzato dall’Ordine degli Avvocati di Isernia. Il testo è aggiornato al 31 dicembre 2011.

*Testo della relazione tenuta al convegno “Il futuro della professione dopo le recenti modifiche normative”, svoltosi ad Isernia il 16 dicembre 2011 ed organizzato dall’Ordine degli Avvocati di Isernia. Il testo è aggiornato al 31 dicembre 2011.

Patriarca Camillo

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