Lavoro e patologie comportamentali

Redazione 26/06/19
Il lavoro, quale forma aggregativa, evoca dunque l’esigenza di rispetto per chi vi opera, un rispetto che passa attraverso il riconoscimento dell’essere umano autonomamente valutato e quale inserito in un processo produttivo che vieppiù lo valorizza sul piano sociale (34). Tale valorizzazione prescinde dall’ambito in cui la prestazione venga resa. Ci troviamo, del resto, all’interno di un comparto, quale (appunto) quello del lavoro, a cui ogni economista, sociologo e giurista ha sempre riconosciuto un’enorme rilevanza, conferendogli “uno dei più singolari e più preziosi attributi dell’uomo considerato come persona e cioè come soggetto di diritti” (35).

Si è appena considerato che, con l’aumento dello stato di bisogno e di soggezione del singolo, cresce altresì la profittabilità nei riguardi del predetto. Lo sfruttamento rappresenta una chiara conferma di tale impietosa regola, la quale con diversa e/o minore incidenza si constata in ogni ambiente. Il tutto, ovviamente, dipende dal livello di sensibilità in capo a chi gestisce le redini del rapporto; un livello che non si identifica con l’insieme delle cognizioni scientifiche e/o letterarie acquisite, altrimenti non si comprenderebbe l’impiego di certe forme irriguardose della dignità altrui, commesse proprio da chi svolge funzioni che presuppongono un certo patrimonio intellettuale e/o di responsabilità.

Le vessazioni

Invero, le vessazioni non risparmiano alcun settore, potendosi addirittura constatare come proprio in ambienti sociali, all’apparenza insospettabili (per competenze e per ruoli, anche istituzionali, rivestiti), si perpetrino aggressioni nei riguardi dei più deboli, siano questi lavoratori subordinati ovvero sottordinati per funzioni ovvero appartenenti a classi disagiate. Peraltro, può ben verificarsi (ed anzi accade assai spesso) che proprio il “subordinato più subordinato” provenga da contesti socio-familiari di maggior degrado e che profittarsi di persone del genere, oltre che più facile, risulti ancor più riprovevole per l’aggressore che si consideri culturalmente preparato o che occupi una carica dirigenziale. L’inclusività del panorama persecutorio, quale sua appartenenza ad ogni ambiente professionale, aiuta a comprendere la sua connotazione spesso recidiva in università (36), durante il servizio di leva e ovunque vi sia una compagine che ruoti attorno ad interessi lavorativi o attigui al lavoro.

Il comune denominatore è la presa di mira di un soggetto per i più svariati motivi, anche per aver fatto il proprio dovere (37). Si parla, allora, di “nonnismo” fra commilitoni (38), ovvero di “cyberbullismo” e “bullismo” con riferimento, in questi ultimi due casi, a condotte minorili, senza trascurare che atteggiamenti persecutori di questo genere attanagliano il pianeta degli adulti che spesso occupano posti di rilievo all’interno di un’azienda, pubblica o privata (39). Una specifica manifestazione di tali riprovevoli comportamenti è offerta dal “mobbing” con cui si indicano angherie fra colleghi, da o verso superiori. Va subito precisato che le classificazioni terminologiche, che ne denotano le forme espressive (quali: mobbing “verticale”, “orizzontale”, “individuale”, “collettivo” e varie altre, significative della provenienza e soggettività attiva e passiva nella commissione dell’illecito (40)), sono tutte sintomatiche del disagio che si vive in una struttura lavorativa e del modus operandi di chi pensa di uscirne moralmente immacolato profittando della propria posizione di comando anche solo usurpata con la prevaricazione assai spesso psicologica applicata nell’ambiente.

Le molestie e il mobbing

Da qui, le molestie, anche sessuali, verso un’impiegata, un’operaia, comunque un’addetta ad un servizio, nell’incontestato rilievo che è soprattutto quello femminile, il genere maggiormente soggetto a simili “attenzioni”. Come si è anticipato, non esiste solo il mobbing ad affliggere le relazioni tra colleghi o con superiori; altre tipologie, importate dal mondo anglosassone (almeno nel lessico), sono negli ultimi tempi entrate a far parte del linguaggio esplicativo delle “malattie” comportamentali riscontrabili ovunque (41). L’accostamento al mobbing dello straining (42), del bossing (43), dell’employee abuse (44), dello stesso “bullismo” di cui si è già detto (45), dello “stalking” (46), dell’harassment (47), su cui peraltro si vedano le osservazioni tratte dal precitato sito di P. Ichino è al riguardo assai sintomatico.

I distinguo, tra l’una e l’altra figura, sono non di rado tanto sottili da renderne necessaria una trattazione congiunta come ipotesi di maltrattamenti, più o meno celati, di supremazia prevaricatrice dell’altrui decoro, di prepotenza arrecata da una o più persone in odio ad altra che versa in uno status di fragilità per indole caratteriale, per disabilità psicofisica, per passate esperienze traumatizzanti o per età. Del resto ed a parte gli accertamenti in corso, come potrebbe qualificarsi la presa di mira nei confronti di un collega da parte di tre dipendenti di una nota concessionaria del trasporto pubblico, operante nel nord Italia, ove, a quanto pare, non si facevano “dispettucci” come succede fra bambini o fra adulti-bambini, ma si perpetrava la sottrazione, tra soldi ed un appartamento, di oltre mezzo milione di euro (di cui 450 mila solo in contanti)?

Nel caso di specie, l’esistenza di un rapporto di lavoro tra vittima ed aguzzini deve indurci a ritenere ed a qualificare questi ultimi come mobbizzanti o come bulli? E la vittima, costretta, a quanto pare, a fare anche la spesa ai suoi persecutori e poi nascostasi nei boschi dell’entroterra per sfuggire all’ambiente di terrore creato attorno a lei, è un mobbizzato o un bullizzato? Noi riteniamo che le denominazioni siano indifferenti: quel che restano sono i reati estorsivi perpetrati all’interno di un’azienda, ove imperversava una tal violenza psicologica, da cui un poveretto non riusciva a trovare scampo (tanto da aver pensato di riparare in Brasile) ed ove non si comprende come i responsabili di quell’azienda fossero all’oscuro di tutto (48). E qui si aprirebbe l’altrettanto inquietante scenario degli “spettatori”, ossia di coloro che assistono e sanno delle vessazioni, ma nulla dicono e fanno, nonostante le funzioni di controllo che ricoprono all’interno di un’impresa, rendendosi così partecipi e colpevoli, per certi versi ancor più degli autori materiali, delle minacce, delle intimidazioni, delle prepotenze arrecate ad un sottoposto, legittimando, proprio a causa del ruolo da essi occupato, il sopruso e l’omertà come ordinarie regole di condotta (49).

Il presente contributo è tratto da 

Redazione

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