La valenza delle dichiarazioni dei terzi nel processo tributario

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Nel processo tributario, come noto, esistono importanti “limitazioni” alla prova del diritto controverso, non essendo ammessi come mezzi probatori, ex art. 7, comma 4, del D.Lgs. n. 546/1992, il giuramento e la testimonianza, laddove il divieto trova giustificazione nella “spiccata specificità” del processo, nella configurazione dell’organo decidente, nel rapporto sostanziale oggetto del giudizio e nell’oralità del processo stesso. Il processo tributario si configura, infatti, tendenzialmente come un giudizio basato sulla prova documentale, in cui vige il divieto assoluto di assunzione di prove orali, ex art.7, co.4, D.Lgs. n.546/92, anche al fine di garantire la rapidità del procedimento stesso.

Sull’utilizzabilità di dichiarazioni di terzi raccolte nelle indagini amministrative si sono pronunciati, però, in senso positivo la giurisprudenza, in prevalenza favorevole, e anche parte della dottrina che a questo riconoscimento, consente ai contribuenti di potervi contrapporre analoghe dichiarazioni scritte. Ebbene, accade spesso che nel corso della verifica gli accertatori invitino terzi soggetti a fornire informazioni relative alle operazioni ispettive in svolgimento ed alla posizione del contribuente accertato. Le dichiarazioni rese vengono quindi trascritte nei processi verbali e possono essere recepite nell’atto emesso all’esito della verifica dall’Agenzia, nelle cui motivazioni l’esistenza di un maggior reddito imponibile viene supportata anche dal contenuto delle medesime dichiarazioni.

 

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Ecco che, va specificato, che le dichiarazioni di terzi sono ammesse nel processo fiscale, non a titolo di fonti di prova in senso proprio, bensì a titolo di ausilio all’accertamento, che deve, comunque, essere sostenuto da ulteriori elementi.

Ciò significa, che possono essere tenute presenti dal giudice come elemento indiziario, da valutare insieme agli altri elementi, come la documentazione acquisita, le eventuali movimentazioni finanziarie, la mancata contestazione dell’Amministrazione finanziaria. (Cassazione sentenza n. 11630/2015; Cass., sez. trib., del 27 marzo 2013, n. 7707).

In sostanza, nel processo tributario la dichiarazione del terzo ha valore meramente indiziario e può concorrere al convincimento del giudice, solo quando confortata da altri indizi. Sono quindi necessari ulteriori riscontri o, almeno, che si possa qualificare come «dichiarazione confessoria» per le conseguenze negative che derivano a chi l’ha rilasciata. (Cass. sentenza 7271/2017; Cass. sentenza 9876/2011).

Ed allora, la dichiarazione di un terzo che ammette di aver emesso fatture per operazioni inesistenti non basta a fondare un accertamento a carico del beneficiario del documento. Spetta all’ufficio, infatti, produrre ulteriori elementi a conferma delle dichiarazioni e a sostegno della pretesa. A precisarlo è la Ctp di Reggio Emilia con la sentenza 1/3/13.

Con un’importante sentenza, peraltro, n. 18065 del 14 settembre 2016, la Corte di Cassazione è tornata a pronunciarsi sulla rilevanza delle dichiarazioni di terzi nel processo tributario e, in particolar modo, sulla necessità che il giudice valuti tali dichiarazioni quali elementi di prova nell’ambito del giudizio.

Ed infatti, il potere di introdurre dichiarazioni rese da terzi in sede extraprocessuale, con il valore proprio degli elementi indiziari, i quali, mentre possono concorrere a formare il convincimento del giudice, non sono idonei a costituire, da soli, il fondamento della decisione, va riconosciuto non soltanto all’Amministrazione finanziaria, ma anche al contribuente, con il medesimo valore probatorio, dandosi così concreta attuazione ai principi del giusto processo come riformulati nel nuovo testo dell’art. 111 Cost. per garantire il principio della parità delle armi processuali nonché l’effettività del diritto di difesa (Cass. n. 5018 del 2015; Cass., sez. trib., del 14 gennaio 2011, n. 767; Cass. 14 maggio 2010, n. 11785; conformi Cass. 20028/11 e 8987/13; Cass., sez. trib., del 17 giugno 2008, n. 16348;).

Giova ricordare che, la Corte Costituzionale con la sentenza n. 18/2000 ha statuito che “va necessariamente riconosciuto anche al contribuente lo stesso potere di introdurre dichiarazioni rese da terzi in sede extraprocessuale”, dando così concreta attuazione ai principi del giusto processo come riformulati nel nuovo testo dell’art. 111 della Costituzione, per garantire l’effettivo principio “della parità delle armi processuali” nonché l’effettività del diritto di difesa.

Sul punto, poi, negli anni, si sono susseguite varie sentenze della Corte di Cassazione, ribadendo il criterio secondo il quale “in forza del principio di parità delle parti, ben può il contribuente produrre in giudizio dichiarazioni di terzi” (Cass., sez. trib., del 16 aprile 2008, n. 9958).

Ed a tal proposito, è opportuno evidenziare che, il giudice è sempre tenuto a motivare l’inutilizzazione delle dichiarazioni del terzo laddove “in osservanza del principio delle parità delle parti – applicabile anche nel processo tributario – il giudice tributario deve prendere in considerazione le dichiarazioni extraprocessuali di persone informate dei fatti, sia che siano rese all’Ufficio finanziario o alla Guardia di Finanza, sia che siano rese al contribuente o a chi lo assiste” (Cass., sez. trib., del 26 marzo 2003, n. 4423).

Ed allora, qualora i giudici tributari non ritengano probanti di per sé le dichiarazioni di terzi prodotte dal contribuente in giudizio a sostegno delle proprie ragioni possono far uso degli ampi poteri riconosciuti dal comma 1 dell’art. 7 del D. Lgs. n. 546/1992, rinnovando ed integrando l’istruttoria svolta dall’ufficio e, quindi, convocando espressamente le parti dell’atto notorio al fine di acquisire ulteriori chiarimenti e informazioni.

Peraltro, sebbene tale potere delle Commissioni è discrezionale, va detto che se la situazione probatoria è tale che non possa pronunciarsi una sentenza ragionevolmente motivata senza acquisire d’ufficio alcune prove, l’esercizio dei suddetti poteri si configura come un dovere, il cui mancato assolvimento, se non motivato, deve considerarsi illegittimo (sentenza Cass., sez. trib., del 15 gennaio 2007, n. 673).

 

Lecce,  15 luglio 2017

 

Avv. Maurizio Villani

Avv. Iolanda Pansardi

Avv. Villani Maurizio

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